Paolo Aseni è un medico chirurgo che ha dedicato la sua carriera professionale ai trapianti di fegato. Con lui voglio parlare delle emozioni legate al suo lavoro: la gioia, il dolore, la paura, …Nato nel 1950 a Palo del Colle, in provincia di Bari, si è trasferito a Milano quando aveva 5 anni …
Paolo (P) – Il Papà era già qui da un anno quando noi, io la mamma e mia sorella, l’abbiamo raggiunto, nel 1955. Quando siamo arrivati a Milano lui era un ambulante, si alzava alle quattro ogni mattina ed era sul mercato alle cinque e mezza. Qualche volta l’ho accompagnato per vedere quanta fatica facesse. Dopo cinque anni era riuscito a mettere da parte un gruzzoletto e aveva aperto un negozio di maglieria intima, camice e calze. La mamma gli dava una mano.
Papà era una bellissima persona, positiva, ottimista; molto severo, autoritario, ma anche molto gioviale. Vedevo ed ero colpito dai sacrifici drammatici che i miei genitori dovevano fare, per permettere a me e a mia sorella di studiare. Questa è stata una delle molle che mi hanno fatto pensare: “Bisogna che io restituisca qualche cosa al buon Dio, che mi ha dato tutta questa fortuna”.
Marco (M) – Si è laureato a Milano?
P – Sì, all’Università Statale, nel 1975, dopo 6 anni di medicina. Prima mi sono diplomato al liceo scientifico Alessandro Volta, dove ho avuto un professore di lettere straordinario, che sicuramente, anche se involontariamente, mi ha portato verso la scelta di iscrivermi alla facoltà di medicina. Questo professore, che è stato il miglior allievo di Giovanni Gentile, il grandissimo filosofo Giovanni Gentile, ha condotto me e i miei compagni, lungo un percorso di riflessione, fatto di studi e di racconti. Perché le sue lezioni non erano solo Seneca, piuttosto che Pascoli, che a lui piaceva tantissimo, erano anche il racconto della sua vita: dalla sua storia di partigiano che non aveva mai sparato un colpo, perché l’aveva detto subito “io non sparo”, ad altre situazioni in cui si era trovato che ci avevano commosso. Ci aveva fatto capire che qualcosa bisogna fare per le persone che vivono dove c’è ingiustizia, dove c’è sofferenza. Io e un gruppo di compagni della mia classe ci trovammo nei bagni della scuola chiedendoci “Se vogliamo combattere la sofferenza, cosa dobbiamo fare?”. La conclusione fu “Facciamo medicina”.
M - Come si chiamava il professore?
P - Carlo Salani, una persona straordinaria; eravamo un po’ intimoriti, ma nello stesso tempo innamorati di lui; una personalità estremamente variegata, di un’umanità che colpiva con i suoi gesti. Ci aveva fatto prendere coscienza che noi eravamo molto fortunati e tanti altri, invece, non lo erano e bisognava un po’ pareggiare i conti: era etico che chi aveva di più mettesse a disposizione qualcosa in termini di buona volontà: alcuni miei compagni andarono in Burundi, a fare un po’ di servizio civile; c’era chi andava a dare una mano, tramite la chiesa, nella periferia di Milano, o nella Bassa Milanese; c’era Mani Tese che portava i ragazzi in varie parti del mondo a fare volontariato.
M - E dopo la laurea?
P - Dopo la laurea sono entrato in un pronto soccorso, come avevo visto fare da un collega.
Mi serviva come esperienza, perché eravamo stati molto mal seguiti durante gli anni di medicina. Avevamo avuto professori forse validi professionalmente, ma certamente non validi dal punto di vista didattico e come tutor; non voglio neanche esprimere giudizi, perché non sarebbero molto eleganti, sulle persone. Sei anni di medicina trascorsi tra il panico e la noia di materie meravigliose, rese noiosissime; sei anni un po’ così, comunque importanti per sviluppare la mole di conoscenze necessarie.
Avevo il papà malato di fegato e quindi, facendo di necessità virtù, le mie attenzioni erano rivolte particolarmente a questo organo. Al terzo anno scelsi di fare la tesi di laurea in un reparto specialistico di malattie del fegato e in seguito decisi di coltivare questo interesse anche dal punto di vista chirurgico.
Non fu facile all’inizio, perché non conoscevo l’ambiente, e così andai al Fatebenefratelli. Anche lì, purtroppo, l’insegnamento e la capacità di fare da tutor, anche su una base puramente psicologica, non c’era.
La svolta avvenne durante il servizio militare, dove incontrai un bravo collega che mi mise al corrente di tante situazioni molto interessanti. Lui, anestesista intensivista, mi parlò della terapia intensiva a livelli molto alti e dell’ospedale Niguarda. Facendo servizio in aeronautica, a Milano in piazza Novelli, avevo un certo numero di notti libere. Le trascorrevo in rianimazione presso il reparto Bozza, della terapia intensiva di Niguarda, dove imparai moltissimo. Stavo in piedi fino alle due, dalle due alle sei dormivo su una poltrona o su un divano e poi tornavo in caserma presso il Comando dell’Aeronautica Militare, dove mi firmavo il permesso per poter rientrare. Me lo consentiva il Maggiore che, anche lui medico, mi dava una mano.
In questo periodo ho avuto la fortuna di vedere operare due tra i migliori chirurghi con competenze specifiche sul fegato: il professor Lino Belli, che poi è diventato mio primario e mio maestro, e il professor Piero Belinazzo. Pensai così di lasciare la terapia intensiva e l’anestesia per un percorso di chirurgo interessato, in particolare, alla chirurgia del fegato. Parlai con gli assistenti del professor Belli, perché era molto difficile parlare con lui direttamente, metteva molta paura, aveva occhi grigi che perforavano il buio.
M - Era molto anziano?
P - No, non era una persona anziana, in quegli anni, 1975, aveva meno di 50 anni, era diventato primario giovanissimo; veniva dalla grande scuola chirurgica di Padova, poi era stato al Policlinico.
Alla fine i suoi assistenti mi accolsero e capii, con molto timore, che era una squadra davvero speciale, dove si giocava ad altissimo livello. Sono stato volontario per quattro anni prima di essere assunto. Per la mia professione ho imparato non tantissimo: di più!
Facevamo di tutto: chirurgia polmonare, epatobiliare, esofagea, vascolare.
E trapianti. Era già iniziata l’epoca in cui i trapianti di rene andavano bene.
Tutto, come dicevo. In particolare la chirurgia dell’ipertensione portale, che è attinente alle gravi malattie del fegato e che nessuno faceva perché estremamente complessa. Il mio primario è stato il primo in Italia a praticare un intervento imparato a New York da un famoso chirurgo che aveva messo a punto questa tecnica. Eravamo un riferimento per tutta l’Italia.
Un episodio mi aveva convinto che quella sarebbe stata la mia strada: si presentò da noi un giovane affetto da una gravissima malattia epatica, che occludeva le vene di sbocco del fegato. L’intervento necessario non era stato provato che in pochissimi posti e in questo caso c’era una complessità superiore, che rendeva impossibile l’intervento consueto. Dovemmo confrontarci con un caso analogo, operato da un cardiochirurgo a Zurigo, che si era riproposto di ideare un intervento possibile in questi casi. Lo studiammo per parecchio tempo e alla fine ci decidemmo, con grande paura da parte del primario, perché non lo aveva ancora tentato nessuno: l’intervento consisteva nel collegare la vena del fegato al cuore, quindi senza un’esperienza diretta di cardiochirurgia. Andò molto bene e, se il ragazzo avesse superato i primi giorni, poi sarebbe stato definitivamente guarito.
Quando il primario uscì dalla sala operatoria confortò subito il papà e la mamma del ragazzo. La suora che aveva ascoltato queste parole, chiamò tutti gli infermieri che fecero un applauso. Mi commossi, anche se c’entravo molto poco dato che avevo tirato solo le valve, perché mi sentivo parte di una squadra particolare, che mi avrebbe permesso di dedicarmi a quella parte di chirurgia un po’ particolare, per la quale non è facile trovare un’equipe così specializzata.
M - In che anni siamo?
P - Stiamo parlando della fine degli anni settanta, inizio anni ottanta, quando cominciammo ad affrontare anche il problema del trapianto di fegato. Nel 1984 eseguimmo il primo trapianto in un povero ragazzo che venne trasferito, già morente, in elicottero dalla Sardegna. Andò male. Sapevamo che sarebbe stato molto difficile, ma piangemmo tutti, perché ci sentimmo impotenti di fronte a una malattia devastante, di fronte a questo giovane che non ce l’aveva fatta.
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