giovedì 19 febbraio 2015

4 FEBBRAIO 2015: VERDERIO HA COMPIUTO UN ANNO





* Collage di Sara Bartesaghi

BIBLIOTECA DI VERDERIO 
CONFERENZE SCIENTIFICHE 2015




GENESI E MUTAGENESI DEI SUPEREROI
(i supereroi nati da mutazioni genetiche servono a introdurre
il tema della mutazione indotta e spontanea e della biodiversità)
Roberto PILU
Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali
Università degli Studi di Milano

Venerdì 20 Febbraio
ore 21,00
Sala Civica di Villa Gallavresi
Viale dei Municipi
Verderio

QUESTO IL PROGRAMMA COMPLETO DELLE CONFERENZE:


 VENERDI' 27 FEBBRAIO

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI FRANCESCO GNECCHI RUSCONE

STORIE DI ARCHITETTURA





LUCE E MELODIA

MOSTRA DI PITTURA - SCULTURA
di
RAFFAELLA DRUSIAN



FRANCESCO GNECCHI RUSCONE: IL PIACERE DI PROGETTARE di Anna Chiara Cimoli


Quando nel 2002 l'architetto Francesco Gnecchi Ruscone ha donato il suo archivio professionale al C.A.S.V.A. (Centro di Alti Studi sulle Arti Visive) del comune di Milano, alla dottoressa Anna Chiara Cimoli è stato affidato l'incarico di redarne l'inventario.
Da questo lavoro è scaturito un volume, intitolato “L'ARCHIVIO DELL'ARCHITETTO GNECCHI – RUSCONE PRESSO IL C.A.S.V.A.”, una copia del quale è disponibile presso la biblioteca di Verderio.
Introduce il volume un saggio intitolato “Il piacere di progettare. L'attività di Francesco Gnecchi – Ruscone fra radici milanesi e respiro internazionale”.
Di questo testo viene qui riprodotto il primo paragrafo.


Al termine del brano  vengono presentate alcune fotografie relative a due edifici progettati dall'architetto Gnecchi Ruscone, che si trovano nelle vicinanze di Verderio, a Vimercate e Merate. M.B.









Da "IL PIACERE DI PROGETTARE. L'ATTIVITÀ DI FRANCESCO GNECCHI RUSCONE FRA RADICI MILANESI E RESPIRO INTERNAZIONALE" di Anna Chiara Cimoli
 
UNA FORMAZIONE COSMOPOLITA, UN APPRENDISTATO NELLA RESISTENZA

Nato nel 1924 in via Filodrammatici, a due passi dal teatro alla Scala, Francesco Gnecchi Ruscone appartiene a una generazione di milanesi che parlano ancora il dialetto, senza snobismo né ostentazione, come si parla una lingua imparata da bambino. A fianco a questo primo imprinting vi è quello, parallelo e complementare di una componente internazionale destinata a lasciare tracce durature. Un nonno laureato all'Università di Lipsia; la madre, Antonia Caccia Dominioni, studentessa al Sacré Coeur in Francia; la frequentazione della “Revue des Deux Mondes” e dell'Illustrated London News” cui erano abbonati i genitori; la presenza costante di Miss Jessie Mason, governante della famiglia: l'insieme di questi fattori produce da un lato un apprendimento delle lingue naturale e precoce; dall'altro un respiro intellettuale fin da subito interessato al mondo e alla diversità.
Francesco Gnecchi Ruscone si iscrive nel 1942 alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove è allievo di Portaluppi, Cassi Ramelli, Dodo, Annoni, Ponti, e compagno, fra gli altri, di Alberto Mazzoni, Gustavo Latis e Giovanna Pericoli.
Gli eventi bellici interrompono presto gli studi: Gnecchi partecipa alla Resistenza come partigiano combattente a partire dal marzo 1944, facendo parte della Missione Nemo. Imprigionato e torturato, si distingue per il coraggio  e l'intraprendenza, ottenendo la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Questa esperienza sarà estremamente formativa: il senso della responsabilità, dell'appartenenza e della lealtà rimangono linee–guida fondamentali, nel privato e nel pubblico. Di ritorno a Milano, Gnecchi prosegue gli studi, partecipando attivamente alla vita associativa studentesca – fa parte del Consiglio Studentesco di facoltà e della Associazione Libera Studenti di Architettura – e organizzando quelle che definisce delle “forme di ribellione civile”, quale il ciclo di contro-lezioni organizzato all'Angelicum come forma di protesta verso il preside Mancini, cui vengono invitati, fra gli altri, Ernesto N. Rogers e Max Bill.
Terminati gli studi nel 1949, Gnecchi è subito coinvolto in uno dei momenti fondanti della riflessione architettonica postbellica: grazie alla conoscenza delle lingue straniere viene invitato da Rogers a partecipare, in qualità di segretario della sessione sull'industrializzazione dell'architettura, al VII congresso CIAM di Bergamo. Lo stesso anno partecipa alla CIAM Summer School di Londra, presentando il progetto di un edificio commerciale nel quartiere di Knightsbridge. Il soggiorno londinese si protrae per due anni: Gnecchi Ruscone diventa assistente presso presso l'Architectural Association School of Architecture e collabora con la Architects' Cooperative Parternship, partecipando alla progettazione di padiglioni per il Festival of Britain del 1951.
Gli anni all' Architectural Association sono per Gnecchi un punto di partenza importante.


Autoritratto di Francesco Gnecchi Ruscone, tratto dal suo ultimo libro "Storie di architettura".

Ne nascono una duratura amicizia con Robert Furneaux Jordan, “principal” della scuola, e, per tutti gli anni in cui l'architetto resterà membro dell'associazione (cioè fino al 1985), una fitta serie di scambi, che vede un momento particolarmente  importante nel rapporto di collaborazione con la “Architectural Rewiew”.
Da queste prime esperienze giovanili in avanti, il contatto con il mondo anglosassone sarà costante e punteggiato di collaborazioni, scambi, viaggi fisici e intellettuali, in una rete di rapporti fra professionale e personale che costituisce un capitolo importante della vita e della carriera dell'architetto.
Di ritorno in Italia, si offre a Gnecchi un'occasione prestigiosa: viene chiamato a curare l'allestimento della Mostra sulla Proporzione alla IX Triennale. L'idea di partenza è di Le Corbusier; la curatela di Carla Marzoli con la collaborazione di Eva Tea. Giovanissimo,  l'architetto realizza qui  un allestimento rimasto una pietra miliare nella storia della museografia italiana del dopoguerra […].
La tramatura dell'allestimento, realizzato con maglie di tubi di ferro, è impostata sulla sezione aurea. Non si tratta di un virtuosismo, ma di un modo di progettare attento all'armonia, inscritto in una linea, spesso frequentata da Gnecchi, che dall'antico porta proprio a Le Corbusier, punto di riferimento, per affinità o altre volte per contrasto, di quei primi anni di apprendistato. Così ricorda l'architetto: “Col maturare delle esperienze, Le Corbusier cominciava ad apparire un po' meno un mito di quanto non fosse solo pochi anni prima, ma rivestiva comunque un posto di primo piano nella cultura architettonica europea, e in quell'occasione , responsabilizzato dell'allestimento della mostra, non potevo esimermi dal sentirmi, in una certa misura, lecorbusiano”.


Mostra degli Studi sulle Proporzioni, dal libro "Storie di architettura"

Il ricorso a moduli rigorosamente proporzionali, la realizzazione di un allestimento significativo rispetto ai contenuti della mostra ma visivamente “leggero” e non invasivo, l'uguale attenzione agli aspetti tecnici da un lato e a quelli poetici dall'altro sono tutte caratteristiche che si ritrovano spesso  nel metodo progettuale di Gnecchi Ruscone. […]
Nei primi anni cinquanta, Gnecchi Ruscone viene invitato a tenere dei corsi alla North Carolina University, a Berkeley e alla Tulane University (le ultime due su suggerimento di Kidder Smith ai presidi delle facoltà). Non è questo, però, il momento di partire: su indicazione di Lodovico Barbiano di Belgioioso, nel 1951 l'architetto viene infatti chiamato da Adriano Olivetti a Roma, dove per quattro anni ricopre il ruolo di responsabile della Segreteria Tecnica della U:N:R:R:A:-C:A:S:A:S.


Anna Chiara Cimoli


EDIFICIO RESIDENZIALE VIA DUCA DEGLI ABRUZZI , VIMERCATE - 1973 - 1977




 













SEDE DELLA BANCA BRIANTEA (oggi BPM, Banca Popolare di Milano), MERATE, 1965 - 1966











SCULTURA-FONTANA REALIZZATA SU DISEGNO DI FRANCESCO GNECCHI RUSCONE, BANCA BRIANTEA,  MERATE, 1965 - 1966








Fotografie di Marco Bartesaghi

mercoledì 18 febbraio 2015

"BUMBUNAT" - IL VENDITORE DI DOLCI di Anselmo Brambilla


Venditore di dolciumi bumbön, alla domenica specialmente il personaggio metteva il banchetto di vendita davanti alle Chiese ma a volte passava anche per le case con un largo e lungo cesto pieno di leccornie, almeno per quei tempi, crucont croccanti di nocciole e zucchero esabesi specie di dolce gommosa liquerizia, castagnaccio e magiuster fragole di zucchero e altro.




I bambini accorrevano al richiamo di tutti questi dolciumi era una festa quando arrivava ul bumbunat cun la sgorba, famosi nella nostra zona ul Rucheta de Calc e ul Pona de l’Albarea, questi personaggi erano presenti a tutte le feste patronali.

D’inverno i bumbunat vendevano oltre ai dolciumi anche le castagne, i filon castagne cotte infilate nello spago in un modo tale da formare una specie di appetitosa collana. 




Anselmo Brambilla

* Disegno di Sara Bartesaghi

DALLA FRUTTA AI DOLCI. I PONZONI, UNA FAMIGLIA DI AMBULANTI di Marco Bartesaghi


"Peppino" Ponzoni
Giuseppe Ponzoni, detto Peppino, classe 1936, è stato, fino all’età di settant’anni, titolare della “Dolciaria Pucci”, una ditta per la produzione e la vendita di dolci. Vendita ambulante: Peppino, infatti,  ha rappresentato la sesta generazione di Ponzoni impegnata nell’ambulantato. Soprattutto a Verderio Inferiore, mi dice, era conosciuto, come “el cuntén di caramei” – il conte delle caramelle.




Tarcisio Sala


A questa chiacchierata partecipa anche Tarcisio Sala, suo amico da una vita, poiché sono nati e vissuti a lungo nella stessa corte, in via Principale n. 17: la “curt di mesté”.







La produzione e vendita di dolciumi è il punto di arrivo di una storia iniziata dai suoi avi con la vendita di frutta e verdura, continuata con le granaglie, il gelato, il ghiaccio e tanto altro.


Banchetto della "Dolciaria Pucci"


Ma andiamo con ordine - per quanto possibile, dato che i due miei interlocutori sono vulcani di parole e di memorie.

LA RISCOSSIONE DEGLI AFFITTI E LA VENDITA DELLE GRANAGLIE


Mario Ponzoni, classe 1900, padre di Peppino, oltre alla vendita ambulante di frutta e verdura, aveva l'incarico dalla famiglia Gnecchi Ruscone, di riscuotere ogni anno, l’11 novembre, nel giorno di San Martino, gli affitti dai contadini. Il pagamento avveniva tramite la consegna di determinate quantità di prodotti del lavoro dei campi – granoturco, segale, frumento - che  Mario rivendeva ai Consorzi Agrari, in particolare a quello di Cernusco Lombardone.



Oltre a quanto dovuto per il pagamento dell’affitto, i contadini gli affidavano, affinché la vendesse, anche una parte del prodotto restante, in modo di poter avere a disposizione del denaro contante per la vita quotidiana.

Peppino, fin dalla terza o  quarta elementare, aveva cominciato ad aiutare il padre. Fra i suoi incarichi,  ricorda quello di spingere la cariola carica di granaglie fino al consorzio a Cernusco.


Il consorzio Agrario di cernusco Lombardone (1)


E IL SABATO E LA DOMENICA: GELATO!

“Con l'evoluzione” - racconta Peppino, senza spiegarmi cosa intenda dire con questa espressione- “gli ortolani cominciarono a fare i gelati”.
 

Anche questa attività fu iniziata dal padre, Mario, ma Peppino, per perfezionarla, girava per i mercati, fingendo di bighellonare, spiando quello facevano gli altri e carpendone i segreti: “Non c’era nessuno che ti diceva il procedimento, erano tutti gelosi, tutti arraffati. Allora si imparava a fare questo, questo e quest’altro con la parola di uno, la parola “schinchignata di un altro e via”. Un metodo usato per il gelato come per tutti gli altri prodotti via, via commercializzati dalla “ditta”.

La loro prima macchina per il gelato  era azionata a mano. Consisteva in un mastello di legno che doveva contenere una “pentola” di rame, più piccola abbastanza da lasciare lo spazio per mettere acqua, ghiaccio e sale, cioè il refrigerante.
Nella macchina acquistata successivamente, la “pentola” interna girava grazie a un motore elettrico, ma la sostanza del processo non cambiava.




Elisa Ponzoni (2)
Mi permetto un ricordo personale. Anche la mia famiglia, tra il 1956 e il 1972  produceva e vendeva gelati, al bar Colonne e Commercio in piazza XX Settembre a Lecco (mio papà aveva cominciato ancor prima, sempre a Lecco, al bar Colonne, in via Roma): le macchine per produrlo, almeno quelle che ricordo io, erano più evolute di quelle di cui mi parla Peppino, ma il principio era sempre lo stesso: un recipiente cilindrico ruotava in un recipiente più grande con il refrigerante. In quello interno si versava il preparato per il gelato, che una spatola in movimento mescolava in continuazione finché era raggiunta la giusta consistenza.

Questa storia che abbiamo in comune, mi consente di condividere con lui una delle sensazione più belle che ricordo: per verificare se il gelato era pronto, si metteva un dito nella “pentola” in movimento, lo si ritraeva pieno e lo si succhiava: non ricordo di aver provato gelato più buono.

I Ponzoni vendevano il loro gelato a Verderio, con il tipico triciclo, il sabato pomeriggio e la domenica. I gusti erano tre: “panna” (crema), cioccolato e limone. I coni avevano tre prezzi. Quelli che ricorda Peppino (ma non specifica il periodo) erano cinque, dieci e venti lire (“Quello da venti” - dice - “lo compravano solo il lattaio e il Villa “Barbuta”).
Molti clienti venivano anche dai paesi vicini, Calusco, Carvico, Pontida. Venivano con l'asino, e facevano la coda fuori dal portone del cortile.





LA DISTRIBUZIONE DEL GHIACCIO

Prima della diffusione dei frigoriferi, chiunque  avesse bisogno di mantenere al freddo i propri prodotti, si doveva rivolgere ai “ghiacciaroli”, che avevano le macchine per produrre il ghiaccio, e a coloro che lo distribuivano.
I Ponzoni erano fra questi ultimi, e facevano le consegne a 44 paesi dei dintorni.

Il mercoledì di ogni settimana raccoglievano le ordinazioni e il giovedì trasmettevano l'ordine ai produttori. Peppino ricorda che in un primo tempo si rivolgevano a una ditta di Monza e in seguito a una di  Vimercate: la ditta Gaspari, situata in via Pinamonte, nei pressi dell’attuale bar Brianza. Questa ditta aveva a disposizione, presso una cascina di Lomagna, una cantina molto profonda e fredda dove il ghiaccio, immagazzinato appena “sfornato”, durava anche dieci, quindici giorni.

Qualche volta, quando il quantitativo acquistato dai fornitori principali non era sufficiente a soddisfare tutte le richieste, i Ponzoni, per la parte mancante, si rivolgevano alla ditta Mattavelli di Verderio Inferiore, che produceva il ghiaccio non tanto per venderlo, quanto per conservare i propri formaggi.

Il sabato e la domenica, con carri trainati da cavalli, avveniva la distribuzione ai clienti: bar, negozi, alberghi che si erano muniti del “giasciró”, contenitore sul cui fondo veniva adagiato il ghiaccio.

L’albergo di Paderno, ricorda Peppino, ne aveva uno grande, dove ci potevano stare otto  stecche da 25 chili l’una: “Loro per tutta la settimana erano a posto e avevano la roba fresca”.

Un carro partiva da Verderio, e andava a Porto, Cornate, Colnago, Busnago, Trezzo, Capriate, Medolago, Suisio, Calusco e, infine, Paderno. Un altro faceva il giro di Vimercate; un altro ancora andava verso Lomagna, Casatenovo, Lesmo, Camparada e così via; un altro a Lecco.



LE CALDARROSTE E I “FILUN”

Il prodotto autunnale per eccellenza erano le castagne, che i Ponzoni vendevano sotto forma di caldarroste, su cui non è necessario dilungarsi, o di “filùn”.

Filùn”, in Brianza; “fizzoni” nel lodigiano; “firun” è il nome che ho trovato in internet; “sfilzoni”, è un altro nome usato da Peppino: erano le “collane”, formate da castagne infilate su fili di cotone. Ce n’erano a tre, a quattro e anche a sei fili. In queste ultime, sui quattro fili esterni, quelli in vista, si mettevano le castagne più belle e più grandi; sui due interni, Peppino ammette, ridacchiando, “gh’eren quéi piscinin”.

Nel pieno della stagione almeno una quindicina di donne di Verderio, per guadagnare qualche soldo, andavano nel cortile dei Ponzoni a preparare i “filùn”.
Non era un lavoro semplice, perché, se non fatto correttamente, le castagne diventavano nere e prendevano il sapore del filo.
Per avere un buon risultato bisognava lasciare le castagne a macero nell’acqua tiepida per 24 ore, in modo che il guscio si staccasse bene dal frutto. L’abilità di chi le infilava consisteva nell’inserire il filo, dalla punta “dove c’è il baffettino”, bucando solo il guscio e lasciando intatto il frutto.




I "filùn" - immagine tratta dal web
Peppino, che è molto orgoglioso della qualità di quel che vendeva, racconta che a Monza, alla festa della Madonna delle Grazie le donne dicevano – “i dón disevén” – “Ghem de ‘nda de Pepino, l’urtulón, quel sé ch’el gha i castegn ch’ in tutt san. Perché i em cumprà a Lodi e i eren tutt marsc”.




***


L'attività dolciaria vera e propria della famiglia Ponzoni ha inizio quando, verso la metà degli anni cinquanta, si comincia a percepire che, con la diffusione dei frigoriferi elettrici, la vendita del ghiaccio si sarebbe esaurita.




Pentole in rame del laboratorio di Peppino Ponzoni


DALLO ZUCCHERO COTTO  LA TIRACCA, IL CROCCANTE E IL MADRIGALE




La tiracca è stato il primo dolce che hanno prodotto direttamente, lo faceva già Mario.

Interviene Tarcisio: “A fa la tirlacca: na cicada sui man e via…”.Si è sempre detto infatti, e l'ho sentito anch'io, che per lavorare la “tiracca” si sputasse sulle mani e poi le si desse la forma. Ma Peppino nega: era solo un modo di dire e quelli che lo facevano, lo facevano per finta

La tiracca è uno zucchero che va fatto cuocere in una pentola di acciaio, a fuoco molto basso e tenendolo mescolato, per far sì che non attacchi e che non sappia di bruciato.

Quando bolle, e lo zucchero fa la schiuma, si immerge la punta di un coltello, gli si lascia prendere la temperatura del prodotto. Poi lo si toglie e si spalma lo zucchero rimasto attaccato al coltello sul tavolo di marmo, bagnato in precedenza con olio caldo. Le strisce di zucchero ancora calde, se no si spezzano, vengono lavorate a mano per formare delle trecce.

Sembra facile ma, come dice Peppino “Ghe vór la tennica”
.

Anche la tiracca ha diversi nomi: nel lodigiano e nel milanese si chiama “manna” e in altri paesi ancora è conosciuta come “tiramolla”.



 

***

Peppino, per imparare a fare il croccante si rivolge alla pasticceria Viscardi di Cernusco Lombardone, perché il suo prodotto essere “DOC”: “mi, quand che vedi ‘na bancarela cun su ‘sti crucant, ‘ste noccioline, ‘ste arachidi, ‘ste mandorle, negher ... Ma cazo, me se fa a dac a la gent che la roba le, capisen  mia che ruvinen anca i alter?”.





Il procedimento per il croccante è simile a quello per la tiracca. Bisogna sciogliere lo zucchero, curandolo attentamente. Quando è cotto si abbassa il fuoco e continuando a mescolare con una mano, con l'altra , una manciata per volta, si buttano le mandorle, o le nocciole.
Poi lo si lavora, sul marmo unto di olio tiepido. Quando ha raggiunto la temperatura del marmo, gli si da la forma con il mattarello finché risulta bello lucido e magro.


***

Il madrigale è un altro tipo di zucchero cotto, che si vende a quadretti. La sua particolarità è quella di avere un sapore dolce/amaro, dovuto alla presenza del rabarbaro.


LE FRITTELLE
Sulle frittelle, la mia domanda  è stata diretta: “Come si fanno le frittelle?”.
La risposta diplomatica, molto diplomatica: “Bisogna avere un po’ di concentrazione, far le cose per benino … Se l’olio non è pronto devi aspettare; se è pronto l’olio ma la lievitazione della pasta è indietro devi aspettare”.
Insomma, niente ricetta. E poi divaga: “A me mi fa venire una rabbia che adesso hanno dato la possibilità ai giostrai di fare le bancarelle piccoline e di fare le frittelle. Io gli metterei dentro il naso per vedere che effetto fa quando la tiro fuori. Non si può lavorare così”!.



Le frittelle








Allora ci concentriamo sui fornelli per cuocerle, che Peppino progetta e poi si fa costruire. Per i bruciatori si rivolge a una ditta di Torino, la Providus, secondo lui la migliore in Italia. Perché i bruciatori, mi dice, devono avere la caratteristica di emettere la fiamma azzurra che, a differenza di quella gialla, non sporca le pentole.




 ***

Finiamo la chiacchierata con il ricordo delle fiere di paese alle quali partecipava e dove, quando duravano più giorni, in qualsiasi stagione dormiva sotto il banchetto, per non smontarlo ogni sera e rimontarlo ogni mattina.



Peppino Ponzoni e la moglie al banchetto di dolci


LA SETTIMA GENERAZIONE
 
La tradizione di vendita ambulante dei dolci ,della famiglia Ponzoni non si è fermata con Peppino: la continuano i suoi figli, Ruggero e Mario, autonomamente uno dall'altro. Ma di loro parleremo un'altra volta.

Note
(1)  Immagine tratta dal libro di Mario Ferrario "Palazzi e ville a Cernusco Lombardone"
(2)  Immagine tratta dal libro di Giulio Oggioni "Quand sérum bagaj"