giovedì 3 novembre 2022

FRANCESCO GNECCHI RUSCONE (1924-2022)

 

Il 20 settembre scorso, è morto a Milano l'architetto Francesco Gnecchi Ruscone. Aveva 98 anni, era figlio di Gianfranco e di Antonia Caccia Dominioni. Suo padre fu sindaco di Verderio Inferiore dall'aprile 1945 al 1960, nominato dal CLN, subito dopo la Liberazione, e in seguito a elezioni comunali dal 1946 in poi.

Francesco, nel settembre del 1943, dopo l'occupazione tedesca e la fondazione della Repubblica Sociale, aderì al movimento di Resistenza e nel 1944 entrò a far parte di "Nemo", una missione del SIM, il servizio informazioni militare del Regio Esercito. Venne arrestato, torturato e condannato a morte. Si salvò e partecipò alla liberazione di Milano.

Dopo la guerra, conseguita la laurea presso il Politecnico di Milano, iniziò la sua lunga storia di architetto, come professionista - suoi progetti sono realizzati in Italia e nel mondo - e come insegnante - al Politecnico di Milano, alla Architectural Association di Londra e a Yale, negli Stati Uniti. Il suo archivio professionale è conservato al CASVA , presso il Castello Sforzesco (una copia dell'inventario è consultabile alla biblioteca di Verderio).

Francesco Gnecchi Ruscone era legato a Verderio da un profondo legame, soprattutto con la  Bergamina, la casa che i suoi genitori avevano acquistato negli anni trenta del novecento.È stata certamente una  dimostrazione di questo legame la sua decisione di mettere a disposizione della nostra comunità la parte di documenti della sua famiglia riguardanti Verderio, che erano in suo possesso. Riconoscenza vorrebbe che l'Archivio Storico di Verderio, che queste carte conserva e che da queste carte ha acquisito gran parte del suo interesse documentale, venisse adeguatamente valorizzato.

Negli anni scorsi Francesco Gnecchi, in due occasioni, è venuto a Verderio a presentare due suoi libri. Il primo riguarda la sua esperienza partigiana e si intitola Missione "Nemo", un'operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945. 

Nell'altro, Storie di architettura, conversando con Adine Gavazzi, architetto e antropologa, Francesco, ricostruisce la  sua esperienza professionale e riflette sul mestiere di architetto.

Francesco Gnecchi Ruscone è stato un amico di questo blog.  Lo chiamava Verderio Time: un'esagerazione che però mi faceva piacere e mi incoraggiava a continuare. Chissà, forse non è troppo tardi per ringraziarlo ancora una volta.

Cliccando sull'etichetta Architetto Francesco Gnecchi Ruscone potete trovate tutti gli articoli che lo riguardano.

Marco Bartesaghi

RACCONTO DI RESISTENZA video intervista a Francesco Gnecchi Ruscone realizzata dal CASVA di Milano

Il CASVA è un istituto di documentazione di Milano che si occupa di architettura, di design e di grafica. Nel 2002  Francesco Gnecchi Ruscone, quando ha chiuso il suo studio di architettura, ha depositato al CASVA il suo archivio professionale.

In questa intervista, realizzata per "la notte degli archivi" 2020/21, Francesco Gnecchi parla della sua partecipazione alla lotta partigiana.

Potete ascoltarla al seguente indirizzo:

https://www.archivissima.it/2021/video/966-intervista-a-francesco-gnecchi-ruscone




UN CONVIVIO PER CHI AMA L'ARCHITETTURA prefazione di Giancarlo Consonni a "Storie di architettura" di Francesco Gnecchi Ruscone

Con le autorizzazioni dell'editore, Francesco Brioschi, e dell'autore, Giancarlo Consonni, che ringrazio, vi presento la prefazione al libro "Storie di architettura"  che, nel 2014, l'architetto Francesco Gnecchi Ruscone  ha scritto, in forma di conversazione, con Adine Gavazzi.



UN CONVIVIO PER CHI AMA L'ARCHITETTURA

di Giancarlo Consonni

Introduzione a Francesco Gnecchi Ruscone, Storie di architettura, 2014

Storie di architettura è un libro inusuale e per certi versi controcorrente. Lo percorre una felicità aurorale, mattutina, che è tutt’uno con un modo di disporsi nel mondo. A cominciare dal fare bene il proprio mestiere, cogliendo ogni occasione per portare a miglior espressione le potenzialità ricevute in dono. E, se in fatto di architettura Francesco Gnecchi Ruscone ha dimostrato tutto il suo valore di progettista, allo stesso tempo ha saputo muoversi su un orizzonte assai ampio dando forma e sostanza, con determinazione e fiuto sicuro, al progetto di una vita. Un modo di essere della ευδαιμονία (eudaimonìa). Non a caso la parola compare a un certo punto in queste conversazioni, a suggello di ciò che il libro lascia prima intravedere e alla fine esplicita a tutto tondo. 

Il racconto ha un procedere rapsodico, ben sollecitato in forma conviviale da Adine Gavazzi, che qui combina le sue capacità di ricercatrice con quelle di maieuta. Di formazione architetto, la curatrice del volume ha alle spalle un percorso che l’ha portata a studiare in chiave antropologica le civiltà precolombiane con risultati di grande rilievo. Una passione per l’avventura intellettuale e umana che può spiegare come questa singolare figura di architetto antropologo sia stata attratta dalle esperienze e dagli incontri di cui è costellata la vita del suo interlocutore. 

Essere architetti è certamente un privilegio. Abbiamo completato cicli di studi appassionanti su temi che hanno a che vedere con la bellezza e godiamo del lusso di offrire i nostri servizi a gente che ce li richiede in un momento felice di speranza [...]. 

Questo passaggio, come diversi altri di Storie di architettura, rivela come tra Adine e Francesco si sia stabilito un patto tacito. Il loro conversare sulla terrazza di Largo Richini 4 a Milano non si è svolto solo di fronte a un capolavoro – l’Ospedale Maggiore di Filarete – ma idealmente anche al cospetto di due ampie compagini: quella degli appassionati di architettura e quella di coloro che si avvicinano all’architettura da neofiti. Rendendo palpabile il pubblico a cui si rivolge, il libro rivela così il suo intento. Non è solo una testimonianza sul lavoro sapiente e appassionato di un progettista di vaglia che ha operato per oltre mezzo secolo: è un tentativo di dar vita a un convivio, a uno spazio ideale nel quale ragionare insieme - soprattutto con i (potenziali) lettori più giovani - sulle buone pratiche. Un modo per chiamare a convegno chi è interessato al concreto operare per il bene comune, in particolare a rendere l’ambiente fisico abitabile, bello e fecondo per gli individui e la società. 

Francesco Gnecchi Ruscone ha sempre diffidato delle costruzioni teoriche poste aprioristicamente a guidare il fare. È cresciuto nutrendosi dell’esperienza diretta, cercando di trarre insegnamenti dai risultati, quelli conseguiti dai migliori architetti come quelli pazientemente conquistati in prima persona. Questa disponibilità a imparare in lui è tutt’uno con una spiccata propensione didattica. Ne ho avuto conferma quando da studente, nel 1964-65, ebbi modo di vederlo all’opera tra gli assistenti di Ernesto Nathan Rogers, nel corso di Elementi di composizione al Politecnico di Milano. 

Eppure, lui che di energie a insegnare ne ha spese, a conti fatti è stato un antiaccademico. Evidentemente non gli si confaceva l’aria di chiuso delle conventicole, le schiere adoranti e i tristi rituali delle accademie: quelle spiagge desolate in cui si arenano le migliori intenzioni, quando la fame di consenso prevale sul prendere rischi in campo aperto. E Francesco Gnecchi Ruscone di rischi ne ha presi, per curiosità e tensione etica; e anche per il gusto di mettersi continuamente alla prova nel perseguire «virtute e canoscenza» (in chiara continuità con il suo impegno nella Resistenza). Il suo tenersi alla larga dalle liturgie accademiche, non ha impedito che, anche lontano dall’università, egli continuasse a mettere a disposizione a chiunque fosse interessato le competenze accumulate nel suo lavoro in patria e in giro per il mondo. È questa stessa disponibilità del resto che lo ha portato a fornire un contributo prezioso nella difficile fase costitutiva della Scuola di Architettura di Algeri.

Francesco Gnecchi Ruscone e Adine Gavazzi presentano il libro a Verderio (27/2/2015)

Fare di un libro un ideale convivio passa inevitabilmente anche attraverso la ricerca di una sintonia. Sintomatico il modo in cui il lettore viene messo a contatto con l’emozione provata dal protagonista nell’intraprendere la sua prima esperienza progettuale: quell’esercizio di immaginazione, condiviso con il committente, che assume i caratteri di un sogno ad occhi aperti, a cui anche chi legge è invitato a partecipare. Ma l’emozione non si spegne: si rinnova nella restituzione di ogni momento importante: di pagina in pagina è tenuta viva come una fiammella. 

E non si tratta solo di un artificio retorico. Episodi, incontri, traiettorie, intersezioni, successi e fallimenti, scontri e sinergie possono essere riproposti in modo coinvolgente perché sono stati vissuti dal protagonista a tutto campo: hanno una portata culturale e umana, oltre che professionale. Così condividiamo i timori e l’ebbrezza per lo schiudersi di una prospettiva, per una sfida che sollecita a mobilitare tutte le energie di cui si dispone e a rinvenirne di nuove nel compiersi della prova. Il senso di felicità che da tutto questo traspare è tutt’altro che a buon mercato: ha il suo contrappeso nelle difficoltà che, in imprese piccole e grandi, si sono dovute superare e persino nello sgomento provato di fonte a prove di grande portata, come quella che ha visto il protagonista lavorare a fianco di Adriano Olivetti nella ricerca di un habitat civile per gli abitanti dei Sassi di Matera

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mercoledì 26 ottobre 2022

A VIGANÒ VENGONO RICORDATI I BAMBINI DI TEREZÍN di Alessandro Capuzzo

 


Terezín: un campo di transito


Il portale ad arco con la scritta
"Il lavoro rende liberi" (1941)





Il posto chiamato “Terezín” non nacque come paese e nemmeno come ghetto ma come fortezza (1780 -1790), costruito dall’esercito austriaco a 60 chilometri da Praga ( odierna capitale della Repubblica Ceca ). Dopo l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, i Nazisti iniziarono a deportare ebrei, zingari, diversamente abili, ecc nei campi dì sterminio o campi di concentramento, dove venivano torturati e uccisi. C’erano però dei luoghi che i tedeschi utilizzavano come campo di transito, cioè posti in cui venivano portati gli ebrei in attesa di essere poi destinati ad uno dei campi di concentramento. Terezín era un luogo perfetto per questo scopo, perché le sue fortificazioni permettevano ai nazisti di trasformarlo in una specie di prigione soltanto chiudendo tutte le porte di accesso.





Terezín diventa un campo di propaganda 

Per ingannare la popolazione e le altre nazioni, ai nazisti serviva un luogo da mostrare al mondo per dire “Vedete? Qui gli ebrei non stanno così male”. Il luogo scelto per questa pubblicità fu proprio Terezín. Costrinsero gli ebrei del ghetto ad abbellire tutto, furono nutriti un po’ di più e furono concesse alcune libertà prima inimmaginabili: fare musica, teatro, scrivere, ritrovarsi per giocare…


I nazisti realizzarono molte fotografie e perfino un film: si mostrava al mondo un paese apparentemente normale ma, poche settimane dopo la fine delle riprese, i nazisti deportarono tutte le persone che erano state filmate: donne, uomini, bambini, vennero portati ad Auschwitz, un campo di sterminio e concentramento che non lasciava alcuno scampo. 


I bambini di Terezín 


15.000 bambini passarono da Terezín, solo 142 riuscirono a sopravvivere fino alla liberazione del ghetto da parte dei sovietici. La loro vita, all’interno del ghetto, non era altro che un periodo di transizione prima di essere deportati nei campi di sterminio, per poi essere bruciati nei forni. Gli adulti del ghetto, decisero di fare qualcosa per loro, quindi crearono delle scuole. Prigionieri a Terezín c’erano molti artisti, scienziati, matematici, scrittori ebrei che si improvvisarono insegnanti per i bambini del ghetto. 


I disegni dei bambini




La maestra di disegno, che insegnava nella scuola del ghetto, fu deportata nell’autunno del 1944 ma riuscì a nascondere due valigie piene di disegni eseguiti dai bambini. Furono trovate dopo la liberazione e portati nel Museo Ebraico di Praga, tutt’oggi custoditi. 






Bambini D’Inciampo





Grazie ad un progetto della scuola primaria di Viganò, insieme ai miei compagni di classe, abbiamo ascoltato la storia dei bambini di Terezín e provato ad immedesimarci in loro, cercando di ridisegnare alcuni dei loro disegni e creando un nostro disegno: un messaggio di tolleranza, di pace che possa far riflettere, affinché atroci barbarie sugli uomini non accadano più! 




Una scultrice ha trasformato i nostri disegni in un monumento intitolato “Bambini d’Inciampo” che si trova all’inizio del paese di Viganò; mentre si passa di lì, si vedono le sagome dei bambini, torna alla mente il drammatico destino dei giovani di Terezín e si riflette… affinché atrocità così non accadano più! 






FOTO





Il giorno dell'inaugurazione

Ecco il giorno dell'inaugurazione, 31 maggio 2021, alla quale ha partecipato anche l'onorevole Emanuele Fiano.







Alessandro Capuzzo

Alessandro Capuzzo

Alessandro Capuzzo, l'autore di questo articolo, è un ragazzo di Missaglia che frequenta la terza media. Appassionato di storia, ha in seguito approfondito l'argomento, allargandolo alla storia del Fascismo, della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza in Brianza. Per questo suo secondo lavoro, intitolato "L'INFERNO ERA QUI", ha ricevuto i complimenti del Capo dello Stato, Sergio Mattarella.




martedì 25 ottobre 2022

PIETRE D'INCIAMPO: INTERVISTA AL PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI MONZA E BRIANZA di Alessandro Capuzzo

Nell'ambito della sua ricerca "L'inferno è qui", Alessandro Capuzzo ha intervistato Luca Santambrogio, Presidente della Provincia di Monza e Brianza, uno degli enti promotori del Comitato per le Pietre d'Inciampo di Monza e Brianza. Questo il testo dell'intervista.


Che cosa sono le Pietre D’Inciampo? 

Un artista tedesco, Gunter Demnig, da alcuni anni gira per l'Europa; incastona pietre nel selciato stradale davanti alle abitazioni, o a luoghi significativi della vita, di coloro che sono stati deportati nei lager nazisti. Su ciascuna pietra viene riportato il nome, la data di nascita e di morte nel lager; quello stesso nome che i suoi aguzzini avevano negato dall’esistenza e dalla memoria. In tutta Europa sono state posate ad oggi più di 75.000 pietre. Da gennaio 2019 si è iniziato anche in Brianza con la posa delle prime pietre. Per i prossimi anni, cominciando dall'anno 2020, si proseguirà con un progetto che coinvolge tutti i Comuni, le scuole, le associazioni, la cittadinanza nel suo insieme. 


• Qual è, secondo Lei, il vantaggio di fare memoria con questo progetto? Cosa può provare o capire una persona quando vede una di queste pietre? 

I vantaggi sono principalmente due: il primo è quello che con la pietra riporti a casa la persona, considerando anche che spesso il corpo non è mai tornato a casa ed il singolo viene così ricordato da tutti, per sempre. Inoltre, è importante il concetto di “inciampo” cioè che le persone che camminano nei nostri paesi “inciampano” in queste pietre e questa è l’occasione per incuriosirsi, potendo subito documentarsi perché, proprio vicino alla pietra, c’è un cartellone con la descrizione dell’iniziativa (si può inquadrare anche un qr code). Inevitabilmente, tutto ciò porta ad una riflessione… All’inizio, le Pietre d’Inciampo erano solo per deportati politici, ebrei, ecc. ma due anni a questa parte, invece, vengono riconosciute anche a deportati militari (tra l’altro, il gruppo più numeroso). 


• Questo progetto riesce a coinvolgere i giovani, per non allontanarli da quello che è il significato dell’Olocausto? 

Questo progetto coinvolge scuole elementari e medie, con iniziative e manifestazioni, anche quelle in cui la pietra viene depositata; i giovani partecipano direttamente, commemorando e conoscendo il drammatico passato: la memoria deve crescere nei ragazzi, per tenerne vivo il ricordo! 


• Avete avuto un riscontro positivo riguardo questa bellissima iniziativa? 

Si, quest’iniziativa aiuta concretamente a mantenere viva la memoria di quanto, purtroppo, è accaduto. 


• Ritenete che, negli ultimi anni, si sia persa l’importanza di ricordare le vittime dell’Olocausto? E il periodo della Resistenza, in Italia? 

No, reputo invece che politicamente si stia facendo di più. Per esempio con l’introduzione, nell’anno 2000, della celebrazione della giornata della memoria il 27 gennaio ed anche con le tradizionali commemorazioni del 25 aprile, non si può scappare dal ricordo. Grazie alle numerose iniziative, i messaggi dei mass media e i raduni, si riesce a trasmettere anche l’importanza di un’Italia Unita e Libera. 


• Pensa che il sentimento di Nazionalismo stia prendendo piede nel nostro paese, a scapito magari di un sentimento più vantaggioso che può essere il Patriottismo? 

Qualche anno fa avrei risposto di sì, ma ultimamente penso che il nazionalismo stia un po’ scemando e lo si può vedere anche nei piccoli gesti, pensiamo ad esempio all’Inno d’Italia, si nota una ripresa nella voglia di cantarlo, impararlo… 


Alessandro Capuzzo

lunedì 24 ottobre 2022

VARIAZIONI SUL TEMA DI GESÙ E MARIA NELLE OPERE DI SILVIO MONFRINI di Marco Bartesaghi

Nel viale centrale del cimitero di Bernareggio, sulla tomba della famiglia Besana è posata una scultura in bronzo che rappresenta il tema della Pietà, con Maria che sorregge il corpo senza vita di Gesù, realizzata dallo scultore Silvio Monfrini [foto 1]

Gesù è disteso a terra. La schiena, appoggiata a un dosso, è inarcata e il capo cade all’indietro; salvo un drappo di stoffa che gli ricopre il pube, il corpo è nudo; il volto, piegato sulla spalla destra, è rivolto al fronte della tomba, verso cui è allungato anche il braccio.

Dietro Gesù, chinata verso di lui, è seduta Maria. Dal mantello, che l’avvolge e le ricopre il capo, sporgono le mani: una è immersa nei lunghi capelli del figlio e gli sorregge la testa,  l’altra gli sostiene il braccio sinistro.

foto 1

I sentimenti, nei personaggi  di Monfrini, quasi mai si manifestano con espressioni forti. Anche nella Maria di Bernareggio  il dolore è tutto interiore, dal suo volto traspare solo un velo di tristezza [NOTA 1].


Silvio Monfrini

 Nato a Milano il 19 febbraio 1894 e morto ad Usmate il 13 novembre 1969, Silvio Monfrini si era formato nella bottega dello scultore impressionista milanese Ernesto Bàzzaro [NOTA 2]. Nel 1939 aveva aperto un suo studio a Monza, città dove lavorò fino  a poco prima della morte. Si esprimeva  soprattutto con la creta, che poi trasformava in bronzo; poche sono le sue sculture in marmo e concentrate, ritengo, nei primi anni dell’attività.

Le sue opere più conosciute: a Milano, il busto di Francesco Baracca nell’omonima piazza (1931); a Monza,  il monumento ai caduti sul lavoro, di fronte alla stazione (1954); a Trento,  il monumento in ricordo degli ufficiali della divisione Perugia, fucilati dai tedeschi il 7 ottobre 1943, nella città di Kuҫ in Albania (1957); a Monterosso al Mare, la statua di San Francesco all' esterno del convento dei Cappuccini (1962). Suo  è anche il grande crocifisso ligneo della chiesa parrocchiale di Usmate (1939-40). 

Molto vasta  la sua produzione artistica  destinata ai cimiteri. Per una ricerca che sto svolgendo sulle sue opere  presenti in quelli di Monza, ho individuato più di novanta soggetti diversi. Altri ancora ne ho trovati nei cimiteri dei comuni intorno alla città.

In questo articolo voglio concentrarmi su come egli ha affrontato due temi particolari: la figura di Gesù e quella di Maria. Ovviamente farò riferimento alle opere di cui sono a conoscenza ed è quindi possibile, pressoché certo,  che la rassegna non sia completa. Un’altra doverosa premessa  è che non sono un esperto  né uno storico dell’arte e quindi  vi chiedo di considerare le mie osservazioni  solo per ciò che sono, ossia  quelle di un volonteroso appassionato.

LA FIGURA DI GESÙ

Gesù deposto dalla croce appare in altre opere  di Monfrini, oltre alla Pietà di Bernareggio .

Nel Cimitero Urbano (C.U.) di Monza la tomba della famiglia  Gabetta - Piazza si trova nei pressi della cappella centrale. Su una grande lastra di serizzo lucidato è adagiato un altare, dello stesso materiale, il cui lato anteriore è occupato, a mo' di paliotto, da  un bassorilievo  in bronzo di Monfrini. Gesù morto è sdraiato supino, con il torace molto esposto per la conformazione del terreno su cui giace; i capelli cadono all'indietro e lasciano del tutto scoperto il volto; il braccio destro è disteso lungo il corpo [foto 3].

foto 3

Un'immagine simile si trova in un'altra tomba dello stesso cimitero. Qui però  il volto di Gesù non guarda verso l'alto, ma verso il fronte della tomba [foto 4] [NOTA 3].


foto 4

Conosco due tipi di crocifissioni realizzate da Monfrini: quella già citata della chiesa di Usmate [foto 5], di dimensioni più che naturali, e un’altra, più piccola,  di cui esistono diversi esemplari, sia a Monza che in altri cimiteri (uno l’ho trovato a Lipari) [foto 6].

foto 5


foto 6

In comune hanno alcuni elementi: i chiodi che entrano nei polsi e non nei palmi delle mani (scelta raramente adottata nella storia dell’arte), i piedi inchiodati separatamente e la posizione del corpo sulla croce: il Gesù crocifisso di Monfrini non è morente, è morto; il peso del corpo gli ha piegato le gambe, le spalle si sono abbassate e, di conseguenza, le braccia sono tese verso l’alto; la testa cade sul petto, gli occhi sono chiusi [foto 7].

foto 7

La crocifissione di Usmate, realizzata in legno, è ben levigata , aspetto che quasi mai si riscontra nelle opere in bronzo dove sono marcatamente visibili le tracce di come ha lavorato la creta, di come l’ha aggiunta o tolta. Per questa scelta, il Cristo morto della crocifissione in bronzo mi sembra che assuma un’espressione ancor più intensa e drammatica [NOTA 4].


Andando a ritroso negli episodi della Passione, troviamo una statua che rappresenta  Gesù  costretto sulle ginocchia dal peso della croce [foto 8] e un’altra, cui l’autore ha dato titolo “Ecce Homo”, che lo rappresenta dopo la flagellazione [foto 9] [NOTA 5]. Il volto, nelle due opere, è segnato da un dolore fisico che l’uomo fatica a sopportare  e, per questo, volge verso l’alto uno sguardo che supplica aiuto.

foto 8

foto 9

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UNA BARCA DI NONNI racconto di Ivano Riva. Disegni di Gioela.

 Ti avevo promesso un racconto sulla mia infanzia  "portense" [Porto d'Adda NdR] ma il via tarda a scattare.

Nel frattempo non sono rimasto inattivo.

In occasione della prima Comunione della nipote di Gavina, mia moglie,  ho scritto un raccontino come regalo personale. Per chi è di famiglia è risultato una cosa molto carina. Non so come possa risultare alle orecchie di chi è al di fuori del nostro ambito familiare.

Non è un racconto di storia e credo che non c'entri proprio nulla con il tuo blog. Te lo invio lo stesso, mal che vada ti rubo un quarto d'ora di tempo, sperando di strapparti due risate.

Il racconto gioca sul dilemma di una bambina che, come tante, ha un sacco di nonni. Vuoi perchè non distingue i nonni dei bisnonni , ma anche per via del fatto che i nonni stessi hanno divorziato per poi risposarsi.

Non è una cosa da poco l'imbarazzo di una bimba costretta a dare una risposta alla domanda "Scrivi i nomi dei tuoi 4 nonni".

Ora, a 9 anni, Gioela, la nipote di Gavina, ha ben chiaro chi sono i suoi 4 nonni effettivi, ma non rinuncia a chiamare nonni coloro che da sempre li ritiene tali.

Faccio eccezione io: sono riuscito (credo) a essere per lei un amico dei giochi e delle risate. Ivano


UNA BARCA DI NONNI di Ivano Riva


1 - Un giorno di nove anni fa.

La luce del primo mattino filtra dalle imposte e dà corpo alla camera. I sibili del maestrale, i rumori della strada e l’aspirapolvere della signora del piano di  sopra completano il quadro di questo giorno che inizia oziando sotto le coperte. E’ vero che a primavera la natura si risveglia, però Dalila è convinta che si possa fare con calma. 

Normalmente il mattino è l’inizio della giornata, ma per lei è l’ultima parte della notte, poi oggi è il primo giorno di primavera ma non solo, Gavino è a casa ed è al suo fianco che galoppa negli spazi cosmici del sonno.

A dire il vero, in casa la primavera è arrivata portata da una rondinella il 7 febbraio, e poi dicono che una rondine non fa primavera. In questo momento la ben arrivata dorme comoda nella culla con il viso beato di chi ha visto la Madonna del latte dolce di Sassari. In effetti Gioela è semplicemente satolla e soddisfatta della poppata da poco conclusa. Un adulto pur di  essere al suo posto darebbe un giorno di ferie. Saprebbe apprezzare meglio la beatitudine e l’appagamento che danno una pancia piena e senza lo sforzo di tenere in mano una posata.

Il senso di protezione materno sposta lo sguardo di Dalila dal viso della figlia alla culla e precisamente alla giostrina delle api. Il giorno prima  Francesco, sotto l’effetto di un narghilè allo zenzero, l’ha fatta girare come un calcinculo e un’ape partita per la tangente gli è finita in un occhio.

Ora sembra tutto a posto. Forse l’occhio del fratello un po’ meno.

“Hic “

Ecco è arrivato il singhiozzo. La voglia di prenderla tra le braccia per dare la pacchetta sulla schiena è pari a zero e lei confida nelle risorse umane di Gioela per risolvere il problema. Non è così, anzi è una rumba che sale sempre più di volume. Allunga la mano e le fa una carezza sul pancino, dicono che funzioni. Nulla, prova a stringere le narici e contare fino a dieci ma arrivata a sei  il visino della piccola si fa paonazzo. Molla la presa nel panico. La piccina riprende un colorito normale e a conferma che è tutto a posto arriva un peto discreto, in punta di piedi.

“Hic” 

“Porca miseria”

Dalila valuta la possibilità di  optare per il metodo “spavento”, ma  le sorge il dubbio che poi a spaventarsi sia Gavino che nel suo galoppo alato potrebbe precipitare. Desiste dall’intento.

 Nel frattempo nota che il singhiozzo della figlia è regolare, non solo, calcola che tra un atto e l’altro passano esattamente nove secondi, 

“Incredibile, mia figlia ha il diaframma collegato con un timer”.

Ma non solo, Dalila arriva alla conclusione  che nove è la potenza di un numero perfetto, cioè tre. Non è casuale: sua figlia ha qualcosa di magico! Non solo è perfetta come il numero tre ma è potente come il nove. Dal difficile ragionamento ne esce ubriaca e spossata. 

Ora la guarda con altri occhi e sente dentro di sè l’orgoglio lievitare e l’ammirazione tracimare.

“Nooooooo!”

Se vi state chiedendo perché improvvisamente Dalila ha urlato vi informiamo subito che un secondo suono si è unito al singhiozzo. Almeno il primo si sente ogni 9 secondi, questo invece è come una carrozza trainata da una quadriga al galoppo. In pratica Gavino sta russando e ora Dalila è presa tra due fuochi.  Diciamo che è in stereofonia. 

“Gavino, Gavino ti prego!” 

La disperazione l’assale, ma proprio quando non sa più da che parte girarsi ha un lampo di genio e prova su di lui quello che non ha funzionato con la figlia : gli tura le narici. Il gesto è deciso e la presa ferrea. Dopo qualche secondo il possessore del naso accenna a un inutile scuotimento, poi in un crescendo inarrestabile il naso soffia come un mantice sulla brace. Quando Dalila lascia la presa il silenzio ritorna padrone della camera. Infatti anche Gioela, forse solidarizzando con il padre, si azzittisce. Dalila ora è soddisfatta come una chioccia quando mette in riga i pulcini. 

Adesso si gode gli ultimi scampoli di notte….si fa per dire. Il gallo ha cantato da un bel pezzo!

Si tira sul mento la coperta mentre con lo sguardo vaga oziando tra le foto appese alle pareti della camera. Bella la foto che la ritrae con Gavino a Barcellona, è la sua preferita. Certo che festeggiare il fidanzamento in Spagna, il paese delle cornate, non è stato il massimo, ma forse è stato un viaggio scaramantico. 

Sembra ieri quando Dalila conobbe Gavino. Lì per lì l’aveva scambiato per un romano, precisamente un burino de Trastevere. E che vuole questo? 

Poi successe una cosa strana: un giorno che se ne andava a passeggio lo vide a un tavolino del Falò con una tipa. Embè, che me frega? Girato l’angolo della via si bloccò di colpo con un pugno nello stomaco. Ma che è? Innestando la marcia del gambero ritornò all’angolo e sbirciò. Li vide con il cellulare in mano nei classici gesti di chi si scambia il numero. La gelosia le dilatò le mucose nasali.

Dalila si è sempre definita una tollerante, vivi e lascia vivere, ma quella volta la rabbia che le montava dentro le fece giurare che quell’uomo doveva diventare suo, a prescindere.

E così fu!

Per dovere di cronaca dobbiamo riferire che la tipa che stava al tavolino era Giuliana, una suora laica di Badesi, missionaria nelle Filippine. Stava chiedendo a Gavino se fosse disposto a organizzare un torneo di calcetto per raccogliere fondi per un orfanotrofio.

Nel letto Gavino si gira e nel sonno la cinge in vita con un braccio.

Dalila pensa alla prima volta che Gavino allungò, seppur discretamente, la mano. Che emozione ma anche che paura. Una paura che la inibiva e assurdamente lei immaginò che, come una spada di Damocle, incombesse sulla mano del suo Gavino una mannaia impugnata dal nonno Domenico. Che pensieri contorti si rincorrevano nella sua mente. E poi immaginò che in quel preciso momento (notare che erano le 2.00 di notte) la nonna Pina, per salvare la nipote dalle tentazioni, fosse in ginocchio nella chiesa di Balai a pregare santu Bainzu ischabizzaddu. 

Intanto i rumori dalla strada arrivano sempre più forti, É il fermento della città nel giorno inoltrato. Dalila capisce che malvolentieri è arrivato il momento di abbandonare il materasso. Lo sforzo per alzarsi le corruga il viso mentre Gavino, è il colmo, ha ripreso a russare.

Contemporaneamente nella  camera c’è qualcuno che, non vista, si sveglia e si guarda attorno. 

“Toh, la mamma si sta alzando dal letto. Che bella la mia mamma, con quegli occhioni! E pensare che la prima volta che l’ho vista pensavo fosse la governante filippina. Babbo quando russa mi ricorda i tre porcellini. Che bello svegliarsi e vedere la mamma e il babbo”.


2 - Ai giorni nostri..

Beh, oggi le cose sono cambiate per Gioela. Il risveglio del mattino è meno sereno, accompagnato non dalla vista rassicurante di mamma e babbo, ma da un incubo venuto forse da un pianeta lontano. 

Dicono che è suo fratello e che lo dovrebbe chiamare Emanuele, ma a lei viene sempre istintivo chiamarlo Bufera. Perché quel nome? Beh, provate a passare un quarto d'ora in cameretta con lui e lo capireste. Secondo Gioela questo bimbo è nato mentre nella costellazione di Giove infuriava un tornado e nello stesso tempo Saturno litigava con Uranio. 

In un secondo tempo Gioela aggiornò questa teoria. Avenne che in un tranquillo giorno di marzo Bufera si scatenò e preso il mazzo di carte del gioco “Solo” andò sul terrazzo.

Potete immaginare cosa fece: lanciò le carte  sulla strada ai passanti gridando: “Prendete e giocate.” Il tuffarsi della gente sulle carte, le auto bloccate e i pianti e le urla dei bimbi spaventati dal caos che si era creato, disegnarono una scena apocalittica.

Quando mamma Dalila intervenne, Bufera aveva già lanciato 55 carte. La sera Gioela triste triste nella sua camera si teneva tra le mani le rimanenti 57 carte e fu allora che alla sua teoria astrologica aggiunse che nel giorno in cui nacque Bufera il Toro aveva infilzato la Vergine.

Non bisogna cadere nell'errore di pensare che la vita della bimba fosse tribolata. Assolutamente no! La bimba godeva di una vita serena e spensierata, malgrado Bufera.

E venne il periodo della prima Comunione.

In occasione di questo momento religioso il Sindaco della città di Porto Torres pensò di invitare i bimbi  in Municipio per proporre loro un suo progetto. Quel mattino si presentarono in Municipio tutti i bimbi con le loro mamme. 

Qual era il progetto del sindaco? Egli lanciò l'idea di una serata canora per raccogliere fondi e realizzare così un nuovo parco giochi in viale delle Vigne. Il sindaco voleva far capire ai bimbi che la prima Comunione doveva essere anche un momento per fare qualcosa di utile per la loro città.

A un certo punto Gioela alzò una mano. Vedendola il sindaco le chiese cosa volesse. Timidamente lei chiese chi  avrebbe cantato. Il sindaco la ringraziò per la domanda che gli dava modo di spiegarsi meglio. In pratica ogni bimbo o bimba avrebbe cantato una canzone a sua scelta accompagnati da una band composta dai 4 nonni. Sul palco ogni band avrebbe trovato a sua disposizione 2 chitarre, una batteria e una tastiera. A quelle parole tutti i bimbi urlarono di gioia e già pensavano quale canzone avrebbero cantato. Gioela aveva già il titolo: “Farfalle”. 

Bella l'idea di coinvolgere i nonni con i nipoti.

Uscita dal Comune Gioela era su di giri e insieme alla mamma se ne tornava a casa volando sul marciapiede dalla gioia. A un certo punto la bimba si bloccò. La mamma le chiese cosa avesse. Lei rispose che non aveva 4 nonni, ma molti di più mettendosi   a contarli con le dita. In quel mentre si levarono strombazzate di clacson. Scusate, ci siamo dimenticati di dire che Gioela era ferma sulle strisce pedonali. Ne nacque un quieto dialogo tra Dalila e il viso che sporgeva dal finestrino della prima auto in coda.

“Signora vuole togliersi di mezzo dalla strada?”

“Eh, che maniere, un po' di pazienza.”.

“Pazienza? E quanta pazienza devo avere.”

“Eh, il tempo che ci vuole per mia figlia per contare i nonni.”

“Eh che cavoli. Sono 5 minuti che sono fermo, quanti nonni ha sua figlia?”

“Una barca!!!”. 


Una volta a casa la bimba si cercò un angolo tranquillo per riflettere e trovare una soluzione al suo dilemma. E a questo pro si chiuse in bagno. Evitò la cameretta dato che vi era in corso un lancio di biglie da parte di Bufera. Venne sera senza che ella trovasse la soluzione. A tavola chiese aiuto ai genitori. Mamma propose un turn-over di nonni a ogni strofa, ma la cosa non piacque alla bimba. Babbo all'inizio sembrava indifferente alla questione ma dopo due bicchieri di birra si alzò in piedi e a gran voce esclamò:

“Ci sono, ho trovato la soluzione. Semplicemente ogni strumento sarà suonato da due nonni!”

“ Che vuoi dire?” chiese Dalila mentre Gioela pendeva dalle labbra di babbo.

“Voglio dire che la batteria sarà suonata da due nonni, ognuno avrà una bacchetta. La tastiera sarà suonata a quattro mani.

“E le chitarre?” chiese scettica Dalila mentre Gioela pendeva meno dalle labbra di babbo.

“Semplice, uno tiene il manico e l'altro strimpella!”

Finita quella frase, Gavino notando lo sguardo fulminante della moglie, si rimise a sedere quieto  come un cagnolino a cuccia.

La notte fu per Gioela un susseguirsi di pensieri che non la portavano da nessuna parte. Dopo anni a vantarsi di avere tanti nonni che voleva dire tanti regali e tanto affetto ora si ritrovava a rimpiangere di non avere 4 nonni come tutti.

Gioela aveva il terrore che i nonni e le nonne litigassero per suonare i 4 strumenti. Che brutta figura davanti al pubblico presente.

Gira che ti rigira trovò la soluzione: avrebbe cantato da sola senza la band. Restava il problema di come fare per non far salire tutti quei nonni sul palco. 

Un pomeriggio, mentre era immersa nei suoi pensieri, guardava distrattamente Bufera che era alle prese con i funghi che la mamma aveva messo in ammollo. Prendendone uno alla volta ne staccava la cappella dicendo: “Fuori uno, fuori due, fuori tre...”.

Nella sua testa maturò la soluzione: avrebbe fatto in modo che i nonni per vari motivi fossero impossibilitati a presentarsi alla serata. Prese carta e penna e mise per iscritto il piano che doveva scattare la mattina del giorno della festa canora.

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L'EDICOLA "VILLA" IN PIAZZA MARCONI A VIMERCATE di Marco Bartesaghi


Per quasi 75 anni, in piazza Marconi a Vimercate è stata presente un'edicola di proprietà della famiglia Villa, la famiglia di mia moglie Giovanna.

Samuele Villa



Nel 1948 il comune di Vimercate aveva rilasciato la licenza per la vendita di giornali a Samuele Villa, suo nonno, invalido della Prima Guerra Mondiale, nato a Verderio Superiore nel 1895. Figlio di Antonio e di Carolina Colombo, abitava in piazza Roma, nella "curt di Bali",  il soprannome della  famiglia che in quella piazza gestiva un panificio. 

Samuele aveva sposato Maria Riva (Verderio S. 1900 - Vimercate 1991); dal loro matrimonio erano nati Pietro (Pierino), nel 1924, e Carolina, nel 1925. 






La prima edicola  era posizionata sul marciapiede che fa angolo fra piazza Marconi e via Vittorio Emanuele II, dove, fino a pochi anni fa, c'era una cabina telefonica.  Era un chiosco in legno, costruito dal falegname Biella, a base quadrata, con il lato di 140 cm e il tetto a quattro spioventi.


Il disegno della prima edicola in legno


Maria, moglie di Samuele, con il nipote ... Samuele 

Nel 1956, quando fu realizzata la "stazioncina" dell'A.T.M., l'edicola fu trasferita al suo interno, nell'angolo sinistro.

1955 -Il disegno della piazza Marconi e della nuova stazione dei tram


Nel 1973, quando l'edificio fu abbandonato, l'edicola tornò all'esterno, prima in via Volta (ora via Bakhita), e poi, nel 1987, sul piazzale A.T.M.

1987 - l'edicola sul piazzale A.T.M, per permettere la realizzazione del parcheggio


Occupa la posizione attuale dalla fine del 2001, dopo l'inaugurazione della Galleria di Piazza Marconi.



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