venerdì 20 giugno 2014

UN BACIO... È UN BACIO di Marco Bartesaghi



QUESTO?
È UN BACIO
NÉ PIÙ NÉ MENO
DI QUALSIASI ALTRO BACIO.
PERCHÉ UN BACIO...
  È UN BACIO.

gay pride 2014

giovedì 19 giugno 2014

C'ERO ANCH'IO AL CONCERTO DI TOSCANINI PER LA RIAPERTURA DEL TEATRO ALLA SCALA di Francesco Gnecchi Ruscone

Nell'ultimo aggiornamento del blog, Carla Deambrogi Carta ricordava la ricostruzione del Teatro alla Scala, dopo le distruzioni subite dalla guerra, e la riapertura del teatro stesso, avvenuta l'11 maggio 1946, con un concerto diretto da Arturo Toscanini.
Dopo la lettura dell'articolo della signora Carla, Francesco Gnecchi Ruscone mi ha scritto:

“Al concerto di Toscanini per la riapertura della Scala c'ero anch'io. Per la commozione ho pianto come un vitello per tutta l'ouverture della Gazza Ladra di Rossini che lo ha aperto”.
 

L'emozione che  traspare dal racconto della signora Carla, allora diciottenne, e le lacrime di un “ragazzo” di 22 anni, quanti ne aveva Gnecchi quel giorno,  sono elementi che arricchiscono  di molto la nuda cronaca dell'avvenimento,testimoniando della partecipazione e delle emozioni suscitate dai traguardi raggiunti dalla ricostruzione del paese dopo i disastri della guerra.
Per questo ho chiesto a Francesco Gnecchi di raccontarci come visse quella serata. M.B.



Arturo Toscanini


C'ERO ANCH'IO AL CONCERTO DI TOSCANINI PER LA RIAPERTURA DEL TEATRO ALLA SCALA di Francesco Gnecchi Ruscone

Non so quanto possa interessare altri il mio ricordo del concerto di riapertura della Scala. È in qualche modo un ricordo intimo, personale ma che ha assunto per me un valore simbolico.
Ho sempre sentito la Scala vicina a me, quasi con un senso di reciproca appartenenza, sia per quello che rappresenta nell'immagine della mia città che, più  personalmente, perchè casa Gnecchi a Milano dove siamo nati mio nonno, mio padre e io era adiacente, la prima casa di via Filodrammatici, tanto che l'incendio del teatro nel 1943 ne ha coinvolta un'ala, e perchè ci avevamo un palco fisso (numero 11, seconda fila, a sinistra), dove ho imparato da bambino ad apprezzare la musica e il grande spettacolo della cultura italiana.
La sua distruzione era stata una mia ferita: la sua riapertura è stata la conferma che la rinascita era possibile, anzi doverosa attraverso l'impegno di tutti noi nella ricostruzione.
Per questo il concerto di riapertura ha significato per me la fine positiva, civile della seconda guerra mondiale, come l'episodio della resa nel 1945 degli SS ai Bersaglieri, che ho raccontato in "Missione Nemo" (1), pur essendo certamente un fatto minore, ne ha rappresentato per me la fine militare.
Non saprei dire ora se quella sera avrei potuto esprimermi in questi stessi termini: la commozione avrebbe comunque prevalso su qualunque tentativo di razionalizzare. E forse è meglio così: ricordare quelle mie lacrime mi è più caro che il possibile ricordo di qualche pensata.

Francesco Gnecchi


NOTA 
(1) Francesco Gnecchi Ruscone, MISSIONE "NEMO" - UN'OPERAZIONE SEGRETA DELLA RESISTENZA MILITARE ITALIANA 1944 - 1945, Milano, 2011.
Su questo blog puoi leggere due brani del libro, pubblicati  il 19 aprile 2011 e il 20 aprile 2014.
Ricordo che "Missione Nemo" è disponibile al prestito presso la Biblioteca Comunale di Verderio. 

mercoledì 18 giugno 2014

"L'UOMO CON LO ZAINO": GIUSEPPE GAVAZZI, DOCENTE UNIVERSITARIO, RICERCATORE SCIENTIFICO E, QUANDO È A VERDERIO, ORTICULTORE di Marco Bartesaghi

F1 - Giuseppe Gavazzi

Lunedì mattina. È passato da poco mezzogiorno. Ho un po’ di tempo per lavorare all’intervista che sabato sera ho fatto a Giuseppe Gavazzi, persona da sempre legata a Verderio.
Prima operazione: scaricare l’intervista sul computer. Collego il registratore al PC; non lo “legge”; mi agito, “traffico” con i tasti; lo tolgo; lo rimetto. Risultato: tutti i file in memoria sono cancellati. Riprovo, niente da fare, le cartelle sono vuote. ...zzzo!
Scrivo a Giuseppe e gli comunico il disastro. Scrivo anche a Gabriella Consonni, sua allieva e in seguito collega, e al marito Enrico Miotto, che ci hanno ospitato a cena proprio per l’intervista. Il primo a rispondere è Enrico: “se volevi mangiare un'altra insalata di polpo bastava dirlo!”. Era buonissima, il sospetto è lecito.
Tutto da rifare: ma come si fa a rifare una chiacchierata? Perché di questo si è trattato: una chiacchierata durata un’ora e venti minuti, continuata a tavola e inframmezzata da domande, alcune predisposte per l’occasione e altre venute al momento, come sempre quando si discorre fra conoscenti.
Ci ritroviamo dopo due settimane, io un po’ imbarazzato, e proviamo. Questo il risultato. M.B.


“L’UOMO CON LO ZAINO”: GIUSEPPE GAVAZZI, DOCENTE UNIVERSITARIO, RICERCATORE SCIENTIFICO E, QUANDO È A VERDERIO, ORTICULTORE


F2 - Rodolfo Gavazzi


Giuseppe Gavazzi, classe 1936, è docente di genetica alla Facoltà di Agraria dell’Università degli studi di Milano. “Docente quiescente”, specifica lui, ovverosia già in pensione ma ancora legato all’ateneo e attivo, sia come insegnante che come ricercatore.
Figlio di Rodolfo Gavazzi (1908-1995) e di Pia Gnecchi Ruscone (1911 -2005), Giuseppe, fin dall’infanzia, ha frequentato Verderio, dove il nonno materno, Alessandro (1882-1970),  possedeva una delle due ville storiche di Verderio Superiore, quella già di proprietà della famiglia Arrigoni. Verso la fine degli anni settanta Giuseppe  ha costruito casa in zona Azienda Agricola Boschi, e, da qualche anno, a Verderio ha preso residenza.



 
 



F3 - Pia Gnecchi Ruscone

Scavare nel passato e seguire la traccia dei propri ricordi è un’attività comune a tutti. Scrivere un’autobiografia e pubblicarla - Giuseppe l’ha fatto di recente con il libro “LES PETITES CHOSES DE LA VIE” (1) -  è un passo successivo, più impegnativo, che implica la volontà e il desiderio di far conoscere i propri ricordi ad altri.



 
F4 - Alessandro Gnecchi Ruscone




Da qui vorrei iniziare la nostra chiacchierata.











I RICORDI

Marco (M) – Che rapporto hai con i tuoi ricordi e cosa ti ha spinto a raccontarli in un libro?
Giuseppe (G) –
Un giorno, qui a Verderio, mi sono messo a leggere una serie di lettere, da me scritte e ricevute, perlopiù quando ero appena laureato, che mio fratello Alberto aveva conservato quando ero stato in America per un soggiorno di tre anni. Mi ero dimenticato della loro esistenza e rileggerle è servito da catalizzatore per indurmi a scrivere qualcosa.
 

M - Erano lettere scritte ad Alberto?
G - No, erano soprattutto lettere scritte ad amici, tanti amici, che poi avevo mantenuto anche negli Stati Uniti, e altre scritte ai miei famigliari e alle fidanzate.
Un altro stimolo a mettere sulla carta i pensieri sul mio passato è stato il fatto che, durante le lezioni, ho sempre raccontato aneddoti su personaggi importanti,  e che avevo conosciuto, del mio settore di ricerca. Più di uno degli studenti a cui li avevo raccontati mi aveva detto : “Ma perché non le scrive queste cose?”
Ho cominciato a farlo, mi è piaciuto e sono andato avanti. Per scrivere il libro ci sono voluti un paio d’anni, non scrivendo a tempo pieno, ovviamente, ma solo nei ritagli lasciati liberi dal lavoro. Una volta iniziato ho trovato divertente rivisitare e riscoprire il mio passato.



 
F 5- Il libro autobiografico di Giuseppe Gavazzi

M – Ci sono aspetti, o capitoli, della tua vita di cui hai fatto fatica a parlare?
G
- No, anzi, direi che parlare del passato mi ha permesso di riflettere un po’ su quello che mi era successo e anche di chiarire a me stesso, affrontandoli in un’ottica diversa da quella che avevo  quando li stavo  vivendo, certi momenti piuttosto turbolenti della mia vita. Una sensazione piacevole questa di rivisitare, con un certo distacco, il passato e di poterlo chiarire.
 

M – Ci sono aspetti della tua vita di cui nel libro non hai parlato?
G
- Beh, sì, i famosi scheletri nell’armadio. Ho tralasciato di parlare di cose che avrebbero potuto dar fastidio a persone viventi, che ho conosciuto e conosco.
 

M – Questo libro è rivolto a qualcuno in particolare?
G - Ai miei figli. Ognuno ha il desiderio di lasciare una traccia in questo mondo e  questo è stato un modo di lasciare una traccia di me.
 

M – Un libro, però, può finire nelle mani di chiunque: pensi possa essere interessante anche per chi non ti conosce?
G -
Con il passare degli anni credo di aver acquisito - magari mi illudo - una certa, tra virgolette, “saggezza”, che consiste nel riuscire a vedere le cose un po’ dal di sopra, dal di fuori. Penso che un pochettino di questa saggezza, che con il libro cerco di comunicare, possa essere utile anche ad altri.


L’INFANZIA, VERDERIO, LA FAMIGLIA
 

M  - Da bambino abitavi a Milano, dove sei nato, però frequentavi anche Verderio. Perché?
G -
Sono nato a Milano. Poi la mia famiglia si è trasferita a Schio, per seguire il papà che lavorava alla Lanerossi; in seguito siamo tornati a Milano.
Dalla città siamo scappati dopo i primi bombardamenti. In un primo tempo siamo andati  a Desio, in casa dei  nonni paterni; poi, non so perché, la mia famiglia ha deciso di trasferirsi a Verderio, nella villa dei nonni materni.


F6 - Villa Gnecchi già Arigoni a Verderio
M – Quali ricordi hai della tua vita nella casa di Verderio?
G -
Mi ricordo che eravamo in tanti. Oltre alla mia famiglia, c’erano i nonni, la zia Vanna (2); c’era degli sfollati friulani, i Facchini, amici di famiglia; c’era un ufficiale tedesco, che occupava un piccolo settore della casa, che suonava il violino e mi insegnava qualche parola della sua lingua. Poi c’era il portinaio, con un figlio che era un mio amico, e l’autista. Era proprio un piccolo agglomerato di persone.
 

M - Quanti anni avevi?
G -
Quando sono arrivato lì avevo, mi pare, 8 anni.
 

M - Era l’ultimo anno di guerra?
G -
Il penultimo, sì, il penultimo, era il 1944.
 

M – Cosa ti ricordi di quel periodo?
G -
Ho ricordi molto belli, in particolare quello del mio rapporto con il nonno. Passavo molto tempo con lui, che aveva molti interessi: collezionava francobolli, fotografava insetti, fotografie che lui stesso sviluppava. Stavo  con lui anche nella stanza dell’amministrazione, dove c’erano quei bei libroni neri su cui segnava tutto. Era una figura un po’ magica, che mi ha introdotto nel mondo dell’osservazione naturalistica e mi ha trasmesso anche un’altra sua passione, quella per la montagna
.

F7 - Nonno Alessandro Gnecchi con la moglie Anita Jacob
Era anche un burlone: ricordo che nascondeva delle  armi sottoterra e poi ci diceva: “Andiamo a cercare. Vedrete che ci sono cose nascoste dai tedeschi!”. Andavamo con lui, che con un bastone toccava il terreno e diceva : “Qui! Scavate!”, noi scavavamo e trovavamo.
 

Ho anche ricordi di solitudine, ma di beata solitudine: stavo per conto mio e, forse stimolato dal nonno, facevo molte osservazioni naturalistiche. C’era una fontana, io ci bazzicavo perché scoprivo  larve di libellule,  nottue,  insetti. Me li guardavo, li studiavo, li portavo a casa, li disegnavo. Il nonno mi regalava dei libri. Uno me lo ricordo ancora, si chiamava “La strana storia degli insetti”.
Di questi tre aspetti  mi ricordo: la vita da solo,  quella col nonno e quella con la famiglia allargata.


F8 - La fontana della villa di Verderio
M –Qualche persona, in particolare, di questa famiglia allargata?
G –
L’ingegner Mario Facchini, un bell’uomo, un po’ burbero; era qui con la moglie e due figli, uno dei quali poi è diventato campione d’Italia di tennis, nel doppio misto. Gli Gnecchi, gli altri, quelli dell’altra villa, avevano il campo da tennis…
 

M – Dov’è ancora adesso?
G -
Sì. Lì io ho imparato a giocare a tennis. Mario Facchini, che aveva molta passione di insegnare ai giovani, e lo zio Cornelio Premoli, che aveva sposato la zia Vanna, sono stati i miei primi maestri. Lo zio era un fanatico del tennis. Me lo ricordo come il “trampoliere d’Italia”: lungo lungo, magrissimo. Ha giocato finché è morto. Verso la fine della sua vita scricchiolava tutto, era pieno di ginocchiere, ma sarebbe morto sul campo.
 

Mario era un ingegnere un po’ inventore. Qui a Verderio aveva fatto un sodalizio con i fratelli Pirovano, meccanici.  Insieme avevano  costruito qualche macchinetta per muoversi. Lui aveva anche inventato un sistema per estrarre i grassi, i gliceridi dalle castagne matte, per fare il sapone che, durante la guerra, era uno dei beni importanti da avere.
 

Di Facchini mi ricordo anche i suoi due figli, che erano maggiori di me ed erano cattivi, come sempre sono i bambini: mi prendevano per le orecchie e mi tiravano su di peso. Mi venivano le lacrime, ma non volevo piangere per non dargliela vinta. Sono ricordi così, anche piacevoli.

M – E della guerra cosa ti ricordi?
G -
Soprattutto i bombardamenti a Milano: una gran paura, il papà che ci raccomandava di mettere le pantofole vicine al letto e, quando suonava l’allarme, mi avvolgeva sempre nella stessa coperta e, facendo luce con una pila di quelle che si caricano a mano, ci portava in cantina. Lì si stava tutti insieme e ci davano anche qualcosa da mangiare, non mi ricordo più  cosa.
 

Al primo bombardamento ero in via Spallanzani con la mamma. C’era un tempo bellissimo e io le ho detto “mamma c’è il temporale” e lei: "non è il temporale, sono gli aerei: corri,corri, corri...”. E siamo entrati nella prima casa che abbiamo trovato.
 

Qui a Verderio la guerra non si sentiva molto: arrivava qualche aereo, si abbassava - mi ricordo il loro rumore -, mitragliava i treni, mitragliava il ponte di Paderno.

F9 - Il cippo che ricorda l'episodio raccontato da G. Gavazzi

Mi ricordo però di quei tedeschi che stavano scappando, perché ormai la guerra era finita (forse loro non lo sapevano ancora), una lunga colonna che da Verderio andava  fino a Paderno d’Adda e oltre. Gli alleati, che forse si trovavano a Merate, lanciavano volantini dall’aereo, invitando la popolazione ad evacuare il paese perché ci sarebbe stata battaglia. La gente scappava e veniva qui “ai boschi”. In casa con noi abitava anche la nonna bis, con la sua infermiera, che non si poteva muovere. Come fare a trasportarla? Le macchine erano state requisite, ci voleva una carrozza. Una grande confusione insomma.
 

Ricordo Vittorio Gnecchi  e, mi sembra, mio padre, che conoscevano la lingua, che facevano pressione sui tedeschi perché si arrendessero. Quando alla fine lo fecero, i presenti, quelli che si dichiaravano partigiani, ma anche la popolazione, gli saltarono addosso sputandogli e portandogli via la roba e loro, i soldati, se ne stavano lì fermi perché non potevano fare niente. Questi  comportamenti mi avevano fatto una bruttissima impressione.
 

Alcuni soldati avevano lanciato via armi e altri oggetti . Nell’orto della casa che mio papà stava costruendo a Paderno trovammo un mitra e cose varie. Si diceva che i tedeschi avessero  anche una cassa di soldi e allora c’era chi cercava anche quella. 
Gran confusione…(3)
 

Un altro ricordo di guerra è stato l’arrivo nel cortile di casa di una jeep, che mi aveva lasciato stupito: chi aveva mai visto una jeep? E poi i soldati neri - mai vista una cosa simile – che con chewingum, facevano i palloni e poi pum! E  regalavano le banane ai bambini...
 

M - Surreale…
G -
Sì, sì…



LE SCUOLE ELEMENTARI, LA CASA DI PADERNO D’ADDA, L’AZIENDA AGRICOLA AI BOSCHI

M  -Dove hai frequentato le scuole elementari?
G -
Le ho iniziate a Milano, dove sognavo di mettere l’uniforme da balilla, che la mamma mi aveva comprato, ma non ho fatto a tempo perché siamo scappati. A Desio, dove c’erano moltissimi parenti,  abbiamo fatto scuola privatamente, l'insegnante era un mio cugino. Nel primo anno a Verderio le mie maestre sono state la mamma e la zia Vanna. Dall’anno dopo sono andato alla scuola pubblica: per due anni a Verderio, con la maestra Pirovano, un anno a Paderno, un altro a Merate…
 

M – La scuola ti avrà permesso di avere rapporti con persone del posto...
G -
Sì, rapporti anche un po’ traumatici, qualche volta. Come quando mi hanno menato. I miei mi vestivano sempre in un modo che a me non piaceva: mi obbligavano, ad esempio, a mettere  un paletot rosso, con il collo di pelliccia, che chiaramente era un po’ un simbolo. In più il custode mi aveva appiccicato il simbolo della DC… Paletot rosso,  pelliccia, simbolo della DC: mi hanno menato, dicendo “porci sciuri, porci sciuri” .  Quando i miei l’hanno saputo hanno cominciato: “Ah, i comunisti. Adesso andiamo a punirli, chiamiamo  l’autista della Lanerossi (ch’era un pezzo d’uomo), facciamo una spedizione punitiva!”. Per fortuna poi non hanno mai fatto niente. Erano situazioni di cui soffrivo molto.





M - Avevi amici?
G -
Sì, ero amico di Giulio Occhini, il figlio del capo stazione di Paderno: andando a scuola ci incontravamo e facevamo la strada insieme.  I suoi erano toscani. Era un ragazzo sveglio, che poi ha fatto fisica ed è diventato anche  presidente dei fisici italiani. Era fantasioso, mi aveva introdotto al mondo dei fumetti: “Gordon”, che andava su Marte, mi affascinava. Poi c’era  “il Vittorioso”, disegnato da uno che si firmava con una lisca di pesce, come si chiamava? … Iacovitti. Io li nascondevo sotto il letto, perché i miei non volevano che leggessi i fumetti.
Con Giulio e qualche altro amico ci si trovava a giocare. Si faceva il Giro d’Italia. Prendevamo  i tappi dello spumante, che erano di piombo, li facevamo sciogliere e facevamo delle cose piatte,  che poi si tiravano con le dita lungo un percorso disegnato con il gesso. Era un mondo molto semplice, dove ci si ingegnava.


M - Dalla casa dei nonni siete poi andati ad abitare in una casa vostra a Paderno…
G -
La casa di Paderno l’ha costruita mio padre, si chiamava cascina dei Ronchi, perché in parte era anche cascina…


F10 - Villa Gavazzi a Paderno d'Adda. Nell'angolo in alto a destra la rotonda di platani all'imbocco di via Gasparotto, che conduce alla stazione ferroviaria

M - Che c’era già?
G -
No, non c’era niente. Però lui l’ha fatta costruire in modo che ci fossero  villa e  cascina, dove c’erano due o tre vacche, che fornivano il latte. Sotto i portici c’erano le balle di paglia, che salivano alte, fino a tre metri. Io mi nascondevo in mezzo a queste balle e quando passava la cuoca, che detestavo, le tiravo i petardi, che compravo qui a Verderio. Lei si infuriava: 
“No, basta ! Signora, suo figlio… Io vado via”. E mia mamma: “ Ma no, resta, in fondo è buono”. Perché io in famiglia ero considerato un buono, anche se mi piacevano queste trasgressioni.
 

Di quella casa mi ricordo anche  la stanza al primo piano, dove dormivo con mio fratello Alberto, e  un gelso bello, grande. Dalla finestra della stanza riuscivo ad atterrare sui suoi rami e a scendere da basso. C’era il campo di bocce e, più tardi, hanno costruito quello da tennis, dove per anni ho giocato con gli amici .
 

A ogni figlio (allora eravamo in tre, dopo siamo diventati cinque) avevano dato un pezzetto di orto da seminare, per cui c’era il confronto, la competizione a chi faceva meglio: era bello.
Io ero felice lì, allora. La mamma era molto "mammona", molto in casa. Faceva cose belle, come degli album a tema, ad esempio con le macchine, con i cani, che realizzava ritagliando le riviste, e la raccolta delle figurine Liebig, bellissime. Nella sua famiglia c’è sempre stata la passione per le collezioni.
 

 
F11 - Cartolina, disegnata da Alberto Gavazzi, con le indicazioni per raggiungere la villa di Paderno (Cascina del Ronco)


Mi piaceva anche molto leggere: Sandokan, Verne.
Insomma stavo bene, tant’è che quando i miei genitori hanno deciso di tornare a Milano, ho cercato di convincere i miei fratelli a fare la rivoluzione e a rifiutarci, ma non mi hanno seguito molto in questo movimento di ribellione, così siamo finiti a Milano.


Un altro bel ricordo di quel periodo sono le gite in bicicletta fino a Valcava. I miei genitori avevano un tandem, noi la bicicletta. Avevamo  un bel cesto di vimini con tutto il necessario per il picnic. Si andava quando c’era la fioritura dei narcisi, era tutto bianco, si tirava fuori la tovaglia, si mangiava.
Papà aveva anche la moto con il sidecar.
 

 



Allora c’erano delle nevicate pazzesche: una volta saranno venuti due metri di neve ma il papà doveva per forza andare a lavorare, perché per lui il lavoro era importantissimo. Allora tutti noi spalare neve per permettere alla macchina di arrivare alla strada.
Papà era molto mitizzato, un personaggio importante…
 

M - Mitizzato in famiglia?
G -
Sì, in famiglia: amministratore delegato della Lanerossi, arrivava con queste macchine sperimentali FIAT, che avevano dentro il bar… cose incredibili. Aveva l’autista, molto burbero.
 

M - Dal tuo libro risulta  evidente che fra te e tuo padre qualche incomprensione c’è stata, no?
G -
Sì, sì; ma soprattutto più avanti, quando ho cominciato ad essere un po’ discolo ai loro occhi.
A Milano, dove non volevo andare, dopo un po’ la vita ha cominciato a piacermi. Era divertente, c’erano le feste, le ragazze, e a me, che ormai avevo 14 o 15 anni, queste cose andavano bene.
 

M - E tuo papà non approvava?
G - Papà era molto autoritario. Ti metteva sempre davanti il dovere e la famiglia; e poi la tradizione, che a me non interessava per niente. Era severissimo. Una volta mi ha dato una sberla, davanti ai suoi amici, con cui stava giocando a carte, perché gli avevo riportato la macchina con mezz’ora di ritardo. Ci sono rimasto malissimo, l’ho detestato.
 

Ero visto  un po’ come quello trasgressivo. La mia era una famiglia bacchettona  - chiesa, casa, guai i comunisti, la tradizione; insomma l’alta borghesia che doveva mantenere una sua immagine – e la trasgressione dava fastidio.
Il fatto che io non andassi bene a scuola per loro era un disastro: tutti gli anni mi cacciavano dai preti  perché avevo gli esami di riparazione. In quarta ginnasio ho avuto latino, greco, matematica e francese: tanti!  Allora mi hanno mandato dai rosminiani, a Stresa,e poi allo Spluga, al Collegio San Carlo. Mi avevano messo vicino un prete, un missionario, perché mi facesse diventare buono, bravo eccetera.
 

Questo rapporto difficile con mio padre, come con tutte le persone autoritarie, anche sul lavoro, l’ho sempre avuto. Però sono quei conflitti che ti permettono anche di crescere.


F12 - I genitori di Giuseppe a Ponte di Legno

M – E con la mamma?
G –
Con la mamma no, lei era molto più connivente. A me piacevano le ragazze e le raccontavo tutto. Lei si divertiva, e mi metteva da parte i preservativi, in un posto segreto che sapevamo solo io e lei. Una connivenza che con il papà non esisteva: gli fregavo le camice, che erano belle perché lui si vestiva bene, per andare a prendere le ragazze a scuola e lui si incazzava.
 

M – In seguito le cose sono cambiate?
G -
Lo scontro è andato avanti anche quando ero ormai adulto. Mi ricordo una scena in casa sua, quando ero già sposato. Si discuteva di politica e a un certo punto ha cominciato a darmi del comunista: “Tu, da quando sei uscito da casa sei diventato un bieco comunista. Tu e i tuoi amici”. Se la prendeva con l’ambiente universitario che secondo lui era tremendo. E io: “Stai zitto tu, fascistone…!” Lui si è arrabbiato al punto che ha sbattuto tre pugni sul tavolo ed è uscito, nella nebbia perché era inverno. Eravamo tutti allibiti: “Cosa hai fatto al papà!?” Allora fuori tutti a cercarlo : “Rodolfooo… Papaaà”.
 

M - Poi come vi siete riconciliati?
G
- Non mi ricordo…
 

M - Ma tu eri comunista?
G -
Non sono mai stato un politico militante; se si possono semplificare le cose, fra destra e sinistra ho sempre simpatizzato più per la sinistra; se questo vuol dire che sono comunista  non lo so. Non mi sono mai iscritto a un partito, non ho mai fatto una marcia di protesta. Non so perché, forse l’educazione che ho avuto me lo ha impedito. Però sono sempre stato in quella direzione, e lo sono ancora adesso. Anzi più adesso di allora.


M – Rimaniamo ancora un attimo a Verderio: quando e perché nasce l’Azienda Agricola Boschi?
G -
Nasce perché il papà era stato licenziato dalla Lanerossi, per problemi sorti fra lui e gli altri parenti azionisti, una vicenda che lo aveva  traumatizzato. Credo che lui, un uomo molto onesto, ma forse un po’ ingenuo, abbia fatto degli errori, come aver preso con sé dei collaboratori meno onesti, che gli hanno fatto fare scelte sbagliate. Nel campo degli affari non si guarda in faccia né al nome né alla parentela: se uno va male va male, e se gli azionisti non beccano i soldi… Insomma da un giorno all’altro si è trovato fuori dall’azienda  e, per uno come lui che l’aveva guidata per anni, era stato un colpo. So che in seguito c’era stato anche un arbitrato.





 
F13 - L'Azienda Agricola ai Boschi



M – Da questa situazione nasce l’Azienda Agricola Boschi?
G - 
Sì, papà per un po’ di tempo ha cercato di rimanere nel campo tessile, poi immagino che, in accordo anche con la mamma, abbia deciso di rivolgersi al suocero, che aveva l’azienda agricola e si sia offerto di gestirla per un certo tempo per poi rilevarla. Così si è convertito all’agricoltura  ed è nata questa azienda modello, per quei tempi,  con le mungitrici automatiche. Si è buttato in questa iniziativa con entusiasmo, che era una sua caratteristica, e con spirito industriale. Credo ci abbia messo dentro tanti soldi, però ha fatto una cosa che gli dava soddisfazione. I lavoratori da mezzadri erano diventati dipendenti. Lui andava molto d’accordo con loro.



F14 - Vista di Verderio dall'Az. Agr. ai Boschi


LA LAUREA , IL LAVORO



M – Da ragazzo non eri uno studente modello…
G -
No, per niente.
 

M - Dopo cosa è successo?
G -
Mio padre insisteva perché  facessi Economia alla Bocconi, per continuare la tradizione di famiglia. Mi ha un po’ obbligato; mi ha fatto parlare con persone importanti di Confindustria. Alla fine mi sono iscritto alla Bocconi, perché si vede che non osavo prendere una posizione decisa contro di lui . Ho fatto un paio di esami, poi mi sono rotto i coglioni e, aiutato dalla mamma, gli ho detto “Babbo…” no, gli ho detto “papà”, perché se gli avessi detto “babbo” guai … “Papà a me l’economia non va”, “Cosa vorresti fare?”, “Biologia” “No, biologia è una cosa da donnette”. Allora abbiamo parlato un po’ e alla fine ho deciso per Agraria. Sono andato in Inghilterra per imparare l’inglese, perché era giugno, poi ho fatto Agraria. L'ho fatta anche bene, nel senso che non avevo grossi problemi,  però non mi ha appassionato, soprattutto perché all’epoca mia era adatta soprattutto a prepararti a fare il direttore di un’azienda agricola. A me interessava di più capire i meccanismi che sono alla base della natura, un approccio più biologico, insomma. Però alla fine mi è servito anche quello: gli studi di agraria mi hanno dato una certa sensibilità verso gli aspetti applicativi della ricerca, che altrimenti, forse, non avrei avuto.


M – Dopo l'Università il lavoro...
G -
Dopo aver fatto Agraria ho lavorato per un po’ alla FRAGD, Fabbriche Riunite Amido Glucosio Destrine. E mi rompevo le scatole: mi ricordo ancora la scrivania, il telefono; nessuno che mi cercava. Quando uscivo e vedevo le persone, mi sembravano tristi e pensavo che fosse il lavoro ad abbrutirle. Un giorno mi hanno incaricato di andare in Borsa Merci per comprare una partita di soia, dovevo andare  in sostituzione del signor Galli che di solito lo faceva. Ho fatto confusione, ho sbagliato e gli ho fatto perdere un sacco di soldi. Allora il capo dell’azienda mi ha chiamato e mi ha fatto un discorso: “Noi ci siamo informati, lei viene da una famiglia di industriali illustri, secondo noi lei qui è un po’ sacrificato,...”.  Insomma, mi ha licenziato…
 


M - Te l’ha detta bene ma ti ha licenziato …
G - Sì, sì, me l’ha detta bene. Comunque io  ero felicissimo. I miei no,  perché mio papà non mi dava fiducia e io soffrivo per questo. 


LA RICERCA SCIENTIFICA E L'INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO

G - Il giorno dopo sono andato a parlare con il professore con cui avevo fatto la tesi e gli ho chiesto, visto che aveva apprezzato  il mio lavoro, se non aveva qualcosa da farmi fare. Mi ha detto che  non ne aveva,  però mi ha consigliato di andare a genetica, che secondo lui era la scienza del futuro. È stato un buon consiglio. A genetica ho parlato con il professor Barigozzi, che mi ha preso subito. E da lì ho cominciato. Mi sono anche iscritto a Biologia, che però non ho finito perché sono partito per l' America.
 

M - Anche il professor  Barigozzi, hai scritto nel libro, era una persona autoritaria...
G -
Sì,  era  molto autoritario. A volte mi scoprivo a parlare da solo: “ Adesso vado lì e gli dico questo e quest’altro”. Poi andavo da lui  e gli dicevo sempre: “Sì, sì sì” , come Fantozzi, “come ha ragione professore”. Non mi piacevo, mi detestavo.
 

 
F15 - Il professor Claudio Barigozzi


M - Però è stato importante per la tua carriera...
G -
Si, mi ha aiutato molto. Grazie a lui  sono andato in America. Aveva trovato un suo collega in Giappone che gli aveva detto: “ Non hai uno, che non sia proprio un coglione, che venga a lavorare con me?”. Siccome io continuavo a dirgli che volevo andar via,  quando è tornato mi ha detto che c’era questa possibilità. Quando ero  in America,  mi dava anche dei soldi. Perché  mi pagavano poco e io non volevo chiedere aiuto a  papà. Allora, quando Barigozzi mi chiedeva come andava io gli dicevo “Bene, bene, certo è un po’ dura…” . Così  ogni tanto mi mandava qualcosa.
 

M- Quando tuo papà ha cominciato ad apprezzare il tuo lavoro?
G - 
Quando ha visto che iniziavo a fare qualcosa, ad avere qualche riscontro, che mi invitavano in giro per il mondo a qualche seminario (avevo già 40, 45 anni), allora è diventato molto orgoglioso di me. E anche tenero: ricordo di un brindisi che propose per me,  a un pranzo durante l'assemblea dei soci della Banca di Desio, a cui stranamente, su sua insistenza, avevo partecipato anch'io, e dove erano presenti tanti Gavazzi e tanti altri parenti...



M – I tuoi maestri, a parte Barigozzi?
G -
Oltre a lui, i miei maestri sono stati sostanzialmente tre.
Il primo è Brink, canadese, con cui ho lavorato negli Stati Uniti, che mi ha insegnato parecchie cose nella ricerca.
 

Anche lui una persona autoritaria, con cui ho avuto parecchi scazzi. Però, indubbiamente, si imparava. Nel primo colloquio abbiamo parlato, mi ha spiegato e mi ha dato un foglietto azzurro, che conservo ancora,  con scritto: “Problemi per Gavazzi: uno, due, tre, quattro, cinque”, le domande a cui avrei dovuto rispondere con la mia ricerca sperimentale. Quello  era il promemoria.
 

Eravamo una decina di persone da tutto il mondo: lui ci offriva il materiale con cui lavorare e ci dava la traccia della ricerca. L’atmosfera era molto stimolante. Stavamo magari delle ore davanti alla lavagna a disegnare schemi di incroci da fare per verificare una certa ipotesi. Era molto bello…



F16 - Il professor Brink con la moglie e il professor Sastry.
M – Con gli altri componenti del gruppo sei rimasto in contatto o vi siete persi?
G - 
Ancora ieri ho parlato con Sastry, un indiano a cui sono rimasto molto legato. Lui ha mantenuto i contatti anche con gli altri e, quando ci sentiamo, mi mette al corrente di quello che stanno facendo. Poi chiede di me, se faccio ancora  ricerca a Verderio, io gli dico di sì e lui mi invidia perché è un po’ malandato di salute. Proprio ieri mi diceva che una cosa di cui ha più nostalgia è “il campo”, dove si sperimentano i risultati delle nostre ricerche.


M -Altri maestri?
G -
George Rédei, un ungherese  scappato nel ’56 dall’Ungheria, portandosi dietro un sacchetto di semi di Arabidopsis  thaliana,  una piantina che cresce dappertutto, anche da noi,  c’è anche nel mio cortile a Milano. Una Crucifera, che è diventata la pianta principe, la pianta modello per gli studi di ricerca, anche molecolare. Nessuno la conosceva e  Rédei è stato quello che l’ha diffusa. Era un uomo vivace, di una quindicina d’anni più  vecchio di me, che ha fatto bella ricerca.
 

Sono finito da lui perché a un certo punto, mi sono accorto che la ricerca stava diventando più molecolare e io ne sapevo poco e dovevo imparare. Allora ho scritto a lui e a un altro in California, tutti e due molto bravi. L’altro mi ha detto “Sì, ti prenderei volentieri ma non ho soldi”. Rédei invece mi ha detto che sarebbe passato  da Milano il direttore del suo dipartimento – quello che mollava i soldi -, mi avrebbe intervistato e poi avrebbero deciso. Vado all’aeroporto a prenderlo; scendono tutti e non c’è nessuno. Alla fine vedo uno seduto per terra,  a piedi nudi, con la chitarra,… Era lui. L’ho portato a casa dove Julie, la mia prima moglie aveva preparato un pranzo fantastico. Abbiamo parlato a lungo, l’abbiamo coccolato. A un certo punto mi  ha detto: “Parliamo d’affari. Tu vieni in America con moglie, due figli; hai bisogno della macchina, devi pagare l’affitto della casa. A te servono mille dollari al mese”. Mille dollari!?! Io ne beccavo 100, 150. Benissimo. Per la prima volta in vita mia ero veramente autonomo finanziariamente.



F17 - George P. Rédei (1921 - 2008)
M - Quanti anni avevi?
G -
34, 35 anni
 

M – Erano gli anni settanta?
G -
Sì, anni settanta. Con  Redej mi sono trovato molto bene. Aveva un po’ il complesso di quello che viene da un altro paese e si sente  accettato  solo fino a un certo punto; vedeva nemici dappertutto. Io gli dicevo  “Ma no, dai...”. Era convinto che gli avrebbero dovuto dare mare e monti, invece non riusciva ad averli; pensava addirittura che l’uomo delle pulizie gli bevesse l'alcool del laboratorio.
 

Faceva  ancora una scienza a misura d’uomo. Si costruiva da solo tutti gli strumenti. Non so, bisognava fare il fenolo e purificarlo? Costruiva la macchinetta per purificarlo. E così io dovevo star lì, di notte, a fare queste cose lunghissime. Poi ci teneva a queste sue costruzioni.  Io, che sono un po' maldestro, una volta ho rotto il piaccametro (lo strumento per misurare il ph) che aveva costruito e lui c'era rimasto molto male. Gli ho detto George, lo pago io non preoccuparti…
 

Era molto generoso, mi insegnava tutte le sue tecniche, ed era geniale, un uomo geniale. Quando è morto era ancora lì che lavorava, in cantina, perché l’avevano cacciato via dall’Università (era vicino ai novanta). Schiavizzava sua moglie. Per me è stato un bell’ esempio.
 

Un altro ricercatore, non proprio un maestro, ma al quale mi sento molto legato è stato Steve Della Porta, dell'Università di  Yale. Più giovane di me, di almeno 15 anni, l'avevo incontrato a un congresso negli Stati Uniti e abbiamo simpatizzato subito. È lo scienziato più geniale che ho conosciuto. Sono andato due o tre volte a Yale, all’Università, a imparare la biologia molecolare. A lui sono molto grato, un bel rapporto. Poi purtroppo l’ho perso di vista.


F18 - Giuseppe Gavazzi (a sinistra) con Chiara Tonelli e Steve della Porta

M – Sei stato “allievo”, ma anche “maestro”. Come ti vedi in questo ruolo?
G -
Come maestro sono un po’ controverso. Ci sono persone con cui ho avuto un buon rapporto. Chiara Tonelli,  a Milano, che è stata mia allieva,  adesso è vice rettore dell’Università; un'altra mia allieva  è professore di genetica a Firenze. C’è qualcun' altro  di cui sono soddisfatto, che dopo la laurea ho aiutato ad andare  a lavorare all’estero  da Steve Della Porta, e che mi è riconoscente,  e che sta facendo molto bene a Milano o altrove.
Uno o due, invece,  se ne sono  andati via sbattendo la porta. Vuol dire che con loro ho sbagliato qualcosa.
Poi c’è Gabriella (4), che ha iniziato con me e con cui ho sempre avuto un rapporto ottimo. Forse il rapporto molto stretto con lei ha creato qualche gelosia con qualcun altro.
Quindi se faccio la somma dei più e dei meno, il risultato non so quale sia...
 

M - Ma non è per  tutti così?
G -
Probabilmente sì. C’è chi apprezza certe cose e ti vede come un maestro e chi, invece, vede altri aspetti tuoi, perché nessuno è perfetto, io sicuramente non lo sono.
Io, per esempio, non sono capace di comandare e ho difficoltà a dare i “voti”. Chiara Tonelli e Milvia Ratti, due brave ricercatrici, hanno lavorato con me tanti anni, io dirigevo la ricerca. Quando dovevano andare avanti, essere promosse, diventare professori, il direttore mi chiamava e mi diceva “Insomma tu per chi fai il tifo? Spingi di più una o l’altra?” Io non sapevo, non riuscivo a esprimere una posizione netta.… Ho sempre avuto questa difficoltà.




F19 - Gabriella Consonni

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martedì 17 giugno 2014

"LA SCIENZA DEL TERZO MILLENNIO": TRE CICLI DI CONFERENZE SCIENTIFICHE A VERDERIO di Giuseppe Gavazzi


L’idea di organizzare delle conferenze di divulgazione scientifica  è stata da me presentata al sindaco Paolo Bellotto, che l’ha immediatamente recepita e l’ha resa operativa in breve tempo, anche grazie alla atttiva partecipazione di alcuni suoi collaboratori all'organizzazione. Nel frattempo,confortato da questa calorosa accoglienza al progetto, ho chiesto a Gabriella Consonni,professore di Genetica presso l’Università degli Studi di Milano,di entrare nel progetto per curare con me la parte scientifica. Abbiamo così iniziato il primo ciclo di conferenze, scegliendo spesso i relatori  tra i nostri colleghi, che hanno aderito anche senza ricevere nessun contributo. Abbiamo da poco terminato il terzo ciclo e mi auguro che l’iniziativa possa continuare perché “senza cultura non c’è futuro“ e di cultura scientifica nel nostro paese ce n’è molto bisogno. Giuseppe Gavazzi

P.S.Sulla base dell'esperienza passata penso che sarebbe opportuno trovare, anche se modesta, una forma di retribuzione per gli oratori, sopratutto se vengono da lontano
.


CICLO DI CONFERENZE 2011


29 aprile 2011. 
MENTE E CERVELLO
Giuliano AVANZINI.Primario dell'Istituto Carlo Besta di Milano
Presidente dell'International School of Neurological Sciences di Venezia


27 maggio 2011
GESTIRE IL SUOLO PROGETTANDO IL FUTURO.BENE COMUNE, FUNZIONI AMBIENTALI, CIBO
Paolo PILERI, Professore di Ingegneria del territorio del Politecnico di Milano


23 settembre 2011
L'EVOLUZIONE
Giuseppe GAVAZZI, Professore di Genetica Agraria dell'Università degli Studi di Milano

21 ottobre 2011
NUTRICEUTICA
Marisa PORRINI, Professore di Scienze Tecniche Dietetiche Applicate. Preside della Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi di Milano

18 novembre 2011
GLI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI (OGM)
Gabriella CONSONNI, Professore di Genetica Agraria dell'Università degli Studi di Milano

20 gennaio 2012
PRESENTAZIONE DELLA FLORA E DELLA FAUNA LOCALE
dott. Daniele SALA, Botanico

24 febbraio 2012
ENERGIE DA FONTI RINNOVABILI
Marco FIALA, Professore di Ingegneria Agraria dell'Università degli Studi di Milano



CICLO DI CONFERENZE 2012


27 aprile. DAL FORMAGGIO AL FORAGGIO
Tommaso MAGGIORE. Professore di Agronomia, Università degli Studi di Milano


25 maggio. GENOMA UMANO: LA NOSTRA RICCHEZZA E LA NOSTRA FRAGILITÀ
Raffaella MENEVERI. Professore di Biologia Applicata, Università degli Studi di Milano – Bicocca


29 giugno. BREVE STORIA DI COME L’UOMO HA MODIFICATO LE PIANTE ALIMENTARI: TANTE LUCI E QUALCHE OMBRA
Fabio VERONESI. Professore di Genetica Agraria, Università degli Studi di Perugia

 


28 settembre. INTERVENTI DI RESTAURO NEL TERRITORIO
Bianca ALBERTI, Anna SORAGNA. Restauratrici

26 ottobre. LA SFIDA AMBIENTALE E LE SOLUZIONI
Pier Antonio CASELLATO. Membro Commissione Ambiente, Ordine Ingegneri prov. di Milano

23 novembre. LA COLORATA LENTEZZA DELLE GALASSIE
Giuseppe GAVAZZI. Professore di Astronomia, Università degli Studi di Milano – Bicocca (questa conferenza si è svolta il 14 dicembre)

14 dicembre. GENI, CIBO E CULTURA
Giuseppe A. GAVAZZI. Professore di Genetica, Università degli Studi di Milano (questa conferenza non si è svolta)


CICLO DI CONFERENZE 2013


22 marzo 2013.IL CLIMA STORIA DELLE POLITICHE DELL’ONU: SPERANZE E DELUSIONI
Ignazio TABACCO.Professore di Geofisica Applicata. Università degli Studi di Milano

19 aprile. DOVE VA L’AGRICOLTURA?
Davide EDERLE. Biotecnologo e comunicatore. Direttore della rivista Prometeus Magazine.

24 maggio. DILEMMI E SPERANZE DEI NUOVI TEST GENETICI: DEFINIZIONE DEL RISCHIO, NON SEMPRE PROSPETTIVA DI CURA
Lidia LARIZZA. Professore di Genetica Medica. Università degli studi di Milano




27 settembre. LA RIVOLUZIONE DIGITALE
Federico VAGLIANI. Ingegnere. Sistemista di telecomunicazioni digitali.

25 ottobre. LA FOTOGRAFIA COME STRUMENTO DI CONOSCENZA DELLA NATURA.
Marina GALLANDRA. Dottore in Scienze Agrarie. Fotonaturalista.

22 novembre. MATERIA E COLORE. LE SINFONIE CROMATICHE DELLE CITTÀ ITALIANE.
Giancarlo CONSONNI. Professore di Urbanistica. Politecnico di Milano.


LE IMMAGINI


La farfalla che ha accompagnato le conferenze del primo ciclo è un "Papilio machaon".






 

Questa sezione di foglie di mais è stata adottata invece per il secondo ciclo. L'immagine è ricavata da un preparato di Priscilla Manzotti.




 



Il frutto di clematide (achenio piumoso di Clematis alpina), fotografato da Marina Gallandra, è stato il simbolo del ciclo di conferenze del 2013.


lunedì 16 giugno 2014

GAY PRIDE A MASPALOMAS di Giorgio Oggioni






Ciao,
ogni anno partecipo almeno a una parata del Gay Pride, la festa dell'orgoglio gay.
Sabato 28 giugno,  sfilerò a Milano, dove la manifestazione si snoderà da piazza Duca d'Aosta (vicino alla Stazione Centrale) con partenza alle ore 17,00 (il ritrovo è alle 16).
Se vuoi qualche informazione in più vai a questo indirizzo:  http://www.milanopride.it/#!parata/ca5z

Quest'anno però ho partecipato anche alla manifestazione di Maspalomas, alle Canarie, dove ero in vacanza con il mio compagno. Vi presento qualche fotografia che ho scattato in quell'occasione.
Giorgio











La Parata: ritrovo alle 16 in P.za Duca D'Aosta (Stazione Centrale), partenza corteo alle 17.
La Parata: ritrovo alle 16 in P.za Duca D'Aosta (Stazion
La Parata: ritrovo alle 16 in P.za Duca D'Aosta (Stazione Centrale), partenza corteo alle 17.

 
 
 
e Centrale), partenza corteo alle 17.
 
 
 
 
 

domenica 1 giugno 2014



L’ECOMUSEO SI TROVA NEL PARCO ADDA NORD PER RAGGIUNGERE LA SEDE ESPOSITIVA SONO NECESSARIE SCARPE PER ESCURSIONI SU STRADE STERRATE


Corpo a corpo tra allievo e artista un percorso intenso si è fatto strada:
È stata una laboriosa riscoperta della téchne di cui il mito narra che gli Dei ce ne abbiano fatto dono rendendoci simili a loro per convivere con le nostre fragilità e di cui forse ne abbiamo persa memoria.

Ecco allora l’occasione attraverso questo percorso di toccare con mano il culto della bottega dove è stato possibile farne esperienza, dandoci modo di riconoscere la propria anima e il soffio che spinge a sondare la nostra natura.

L’ispirazione è una “Chiamata” e il mestiere non si sottrae a questa spinta, allora il talento si rivela!

Elena Mutinelli

 I LABORATORI PRESSO  LA BOTTEGA-SCUOLA D’ARTE RIPRENDERANNO IL GIORNO 8 SETTEMBRE  2014

Sono aperte  le iscrizioni

Info: www.elenamutinelli.eu

mutinelli77@gmail.com

Cell. 334 3777570

 Per info : http://www.elenamutinelli.eu/index_file/Page980.htm


RICORDANDO IL 1945 E IL 1946 A MILANO di Carla Deambrogi Carta



La guerra era finita, finalmente.
Il 29 aprile 1945 erano entrati in città i soldati americani: dalle jeep e dai “doodge” rispondevano festosamente ai saluti e agli applausi dei milanesi


.


Alleati a Milano

Quello era stato un giorno veramente felice, di una felicità quasi vertiginosa.
La guerra sì, era finita, ma non erano finiti i disagi e le preoccupazioni. I viveri erano ancora razionati, c'era ancora la borsa nera. Diverse scuole erano ancora occupate dai sinistrati. C'era anche la coabitazione, perché alcune famiglie di sinistrati erano state alloggiate  in appartamenti lasciati liberi da famiglie sfollate a causa dei bombardamenti e che, a guerra finita, erano tornate a Milano.





La città mostrava gli squarci  e le distruzioni causate dai bombardamenti “a tappeto” della seconda settimana dell'agosto '44 (l'8, il 13, il 15, il 16). Il più pesante era stato quello del 13 agosto. Quella notte piombarono sulla città, con il loro carico di 2000 tonnellate di bombe, 504 aerei inglesi (Lancaster e Halifax) con le conseguenze che non è difficile immaginare.
Tuttavia, gli anni di privazioni che avevamo vissuto ci avevano insegnato ad apprezzare tutte le più piccole cose, nuove o riconquistate.
Intanto, ad uno ad uno, cadevano i divieti che avevano accompagnato gli anni di guerra. Non c'era più l'oscuramento e le strade ci sembravano sfolgoranti di luci. Nelle scale dei palazzi le “normali lampadine”, che avevano sostituito le lampadine oscurate con una pittura blu, ci sembrava diffondessero una luce paradisiaca.


Il Teatro alla Scala dopo i bombardamenti
Venne abolito il coprifuoco e il fatto di non essere più costretti a rinchiuderci in casa alle 8 di sera ci dava una grande sensazione di libertà.
Si ricominciò anche ad organizzare festicciole in casa, cosa che dalla fine del '43 era stata vietata.
Nell'estate del '45, di sera, si ballava anche nei cortili.
 A questo proposito, il severo colonnello Steevens, da Radio Londra, ogni sera, all'inizio della sua trasmissione ripeteva: “In Europa si lavora, in Italia si balla”.

 
Una nota di colore alla città era data dai manifesti che invitavano gli italiani a sottoscrivere il “Prestito della Ricostruzione”, redimibile in 30 anni, prestito che ebbe numerose adesioni.
Benché fosse ancora una città sofferente, Milano dimostrò ben presto una grande voglia di ricominciare.
La volontà di ripresa si manifestò con l'impegno di ricostruire in breve tempo la “Scala”, che aveva la volta sfondata, i palchi e il loggione semidistrutti, gli uffici incendiati.
Questa intenzione sembrava un sogno irrealizzabile, invece il miracolo avvenne. L'11 maggio 1946 la “Scala” riaprì i battenti con un concerto di sole musiche italiane: sul podio Arturo Toscanini (1).
 

 
Teatro alla Scala: veduta della sala teatrale il giorno dell'inaugurazione del restauro della volta dopo i danni bellici, con il concerto Arturo Toscanini


Ricordo anche l'entusiasmo con cui una folla festosa assistette alla partenza della Milano – San Remo”, la prima dalla fine della guerra: il vincitore fu Fausto Coppi.
Nella tarda primavera del '46 vennero distribuite coperte e stoffe inviate dagli Stati Uniti, tramite l'UNRRA (2). Ricordo le numerose persone in coda per poter acquistare con i punti della tessera annonaria quelle merci molto apprezzate.


Ma come non ricordare che il 1946 fu l'anno della prima volta delle donne alle urne?
A Milano, il 7 aprile, ci furono le elezioni amministrative. Queste elezioni non furono indette nello stesso giorno in tutta Italia, ma la data fu fissata in base alle diverse situazioni locali.
Invece per l'elezione dell'Assemblea Costituente e per il Referendum, la data fu unica per tutto il Paese: il 2 giugno.
 



Le signore e le ragazze maggiorenni andarono a votare e ci andarono con evidente emozione e trepidazione. Anche gli uomini, però, erano emozionati (non si votava dal 6 aprile 1924). Io non ho votato perché allora si raggiungeva la maggior età a 21 anni, io ne avevo 18.
Ho ancora ben presente l'aspetto evidentemente preoccupato di alcune signore in attesa davanti alla sezione elettorale. Alcune erano letteralmente aggrappate al braccio del marito.



La Stampa, 7 marzo 1946




Davanti ai seggi c'erano lunghe code, perché allora il numero delle sezioni elettorali era inferiore a quello di ora.
Nei giorni precedenti le elezioni, la radio e i giornali ripetevano le istruzioni e i consigli di voto.

Ne cito alcuni:
“Vi sarà consegnata una matita copiativa che va restituita”;
“Fare attenzione a non lasciare segni di matita sulla scheda”;
“Le signore stiano attente a non lasciare tracce di rossetto sulla scheda”
 

Veniva pure ricordato che il voto non è solo un diritto ma anche un dovere.


La Stampa, 1 giugno 1946

Da settimane, la città era  tappezzata da variopinti manifesti elettorali. Ce n'erano ovunque: sui muri integri e su quelli sbrecciati, sui lampioni, su alcuni portoni. Allora non c'erano, come oggi, gli spazi riservati ai vari partiti, era una vera festa di colori.





Quando ritornano alla mente gli anni dell'immediato dopoguerra non è che si provi rimpianto. Resta il fatto che i ricordi di quel periodo sono impressi in modo indelebile nella mente e nell'animo di chi l'ha vissuto, perché quello è stato un periodo pieno di speranze.
In seguito ci furono delle delusioni, ma allora avevamo ritrovato il piacere della vita.


 Carla Deambrogi Carta

NOTE
(1) Filmato su youtube, sul concerto di Toscanini, a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=DXWNiGSTcdQ
 

(2) United Nations Relief and Rehabilitation Administration: organizzazione delle Nazioni Unite, con sede a Washington, istituita il 9 novembre del 1943 per assistere economicamente e civilmente i Paesi usciti gravemente danneggiati dalla seconda guerra mondiale, e sciolta il 3 dicembre 1947.