lunedì 25 aprile 2016



25 APRILE 2016 - CELEBRAZIONE DELLA LOTTA DI LIBERAZIONE OMAGGIO A TUTTI COLORO CHE NELLE VARIE EPOCHE LOTTARONO E MORIRONO PER LA LIBERTA’, LA GIUSTIZIA E LA PACE di Alessandro Origo

Questo è il discorso che il sindaco di Verderio, Alessandro Origo, ha pronunciato presso il monumento ai caduti di piazza Annoni, il 25 aprile 2016, anniversario della Liberazione. M.B.


Siamo qui oggi a ricordare il 73° anniversario dell’inizio e il 71° anniversario della fine della Lotta di Liberazione per un doveroso omaggio a tutti coloro che lottarono per garantire a noi la libertà, evidenziando che la lotta della Resistenza non fu solo lotta contro il regime nazifascista ma una lotta per la libertà, per la legalità e per la democrazia.
Con la festa della Liberazione si celebra la fine del regime fascista, dell’occupazione nazista in Italia e la fine della Seconda guerra mondiale, simbolicamente indicata al 25 aprile 1945 perché fu il giorno della liberazione da parte dei partigiani delle città di Milano e Torino, anche se la guerra continuò per qualche giorno ancora, fino ai primi giorni di maggio.
A guerra conclusa, un decreto legislativo del governo italiano provvisorio, datato 22 aprile 1946, dichiarò “festa nazionale” il 25 aprile, limitatamente all’anno 1946. Fu allora che, per la prima volta, si decise convenzionalmente di fissare la data della Liberazione al 25 aprile.
La scelta venne fissata in modo definitivo con la Legge 27 maggio 1949 n. 260, presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, che stabilì che il 25 aprile sarebbe stato un giorno festivo, in quanto “anniversario della liberazione”.
E’ una data questa che segna il culmine del risveglio della coscienza nazionale e civile, impegnata nella riscossa contro gli invasori e nel riscatto morale dal baratro in cui era sprofondata negli ultimi anni del regime.
Non fu una guerra civile come qualcuno oggi sostiene, fu piuttosto uno scontro tra i sostenitori della libertà e della giustizia sociale contro i seguaci del regime nazifascista, responsabile di quel disastro.
Se di “guerra civile” si vuole parlare, la si deve intendere come guerra “per la civiltà”, una guerra democratica perché democratico era il suo fine ultimo, l’abbattimento di una dittatura e la nascita di una nuova Italia, fondata sulla partecipazione popolare.



Condivido pienamente quanto detto un anno fa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che di seguito riporto:
 

“Il 25 aprile celebriamo un sentimento di libertà che è diventato pietra angolare della nostra storia e della nostra identità. Dopo gli anni della dittatura, l'Italia è riuscita a riscattarsi, unendosi alle forze che in Europa si sono battute contro il nazifascismo, anticipazione del percorso che avrebbe portato poi all'avvio del progetto europeo e che noi siamo chiamati ancora a sviluppare.
Perché la democrazia, al pari della libertà, non è mai conquistata una volta per tutte. E' un patrimonio che ci è stato consegnato e che, nel volgere di mutamenti epocali, dobbiamo essere capaci di trasmettere alle generazioni future.
La cultura, l'intelligenza, la coscienza civile sono parti essenziali di una società viva, proprio perché sostengono quello spirito critico che è condizione dello sviluppo, della tolleranza, e dunque della tenuta dello stesso ordinamento democratico.
Tante cose sono cambiate da quegli anni. Eppure misurarsi con i valori di libertà, di pace, di solidarietà, di giustizia, che animarono la rivolta morale del nostro popolo contro gli orrori della guerra, contro le violenze disumane del nazifascismo, contro l'oppressione di un sistema autoritario, non è esercizio da affidare saltuariamente alla memoria. Stiamo parlando del fondamento etico della nostra nazione, che deve restare un riferimento costante sia dell'azione dei pubblici poteri sia del necessario confronto nella società per affrontare al meglio le novità che la storia ci pone davanti. Non c'è nulla di retorico nel cercare una sintonia con la felicità e i sentimenti dei nostri padri, o dei nostri nonni, nei giorni in cui conquistavano una libertà costata sangue, sacrifici, paure, eroismi, lutti, laceranti conflitti personali. E' la festa della libertà di tutti.
Una festa di speranza ancor più per i giovani: battersi per un mondo migliore è possibile e giusto, non è vero che siamo imprigionati in un presente irriformabile.
La democrazia è proprio questo: l'opportunità di essere protagonisti, insieme agli altri, del nostro domani.
Per costruire solidamente, le radici devono essere ben piantate in quei principi di rispetto verso le libertà altrui, di rifiuto della sopraffazione e della violenza, di uguaglianza tra le persone, che proprio le donne e gli uomini della Resistenza e della Liberazione indussero a iscrivere nella Costituzione repubblicana.

Ricordando quei giorni, è giusto avere pietà per i morti, rispetto dovuto a quanti hanno combattuto in coerenza con i propri convincimenti: sono sentimenti che, proprio perché nobili, non devono portare a confondere le cause, né a cristallizzare le divisioni di allora tra gli italiani.
Fare memoria in un popolo vuol dire anche crescere insieme. E la nostra storia democratica ci ha aiutato a crescere. Oggi possiamo riconoscere che nella lotta partigiana vi furono, accanto ai tanti eroismi personali e ai tanti straordinari atti di generosità, anche alcuni gravi episodi di violenza e colpevoli reticenze. Questo non muta affatto il giudizio storico sulle forze che consentirono al Paese di riconquistare la sua indipendenza e la sua dignità.
L'antifascismo fu e resta elemento costituivo dell'alleanza popolare per la libertà e quindi dell'Italia repubblicana. L'antifascismo non è stato solo l'esito politico di un conflitto interno, quanto la chiave di apertura della nuova Italia, uscita dalla guerra e dalla dittatura, alla dimensione europea e mondiale”





CONSIDERAZIONI SUL DOPO 25 APRILE 1945
 

Dalla fine della guerra di Liberazione ebbe anche inizio la lunga corsa verso la crescita e lo sviluppo, non solo dell’Italia, ma di tutte le nazioni uscite dagli orrori del secondo conflitto mondiale.
C’era da ricostruire tutto, c’era da consolidare un nuovo ordine politico planetario, c’erano da definire nuove regole per gli scambi tra le nazioni, per lo sfruttamento e la distribuzione delle risorse, per la costruzione di un mondo finalmente orientato a conseguire una pace stabile e duratura.
E questa corsa è stata davvero tumultuosa, densa di avvenimenti, che hanno portato l’intero pianeta molto più avanti, in tutti i sensi.
Oggi il mondo è più ricco di allora: la scienza, la tecnologia e tutto lo scibile umano hanno fatto passi da gigante, realizzando negli ultimi settant’anni più di quanto l’umanità sia stata in grado di fare in tutta la sua storia precedente, disegnando un’iperbole spettacolare di cui tutti noi siamo stati fortunati testimoni. Un progresso senza precedenti, che ha migliorato le nostre vite come mai prima, aumentando le risorse a disposizione in ogni settore.
Per decenni abbiamo vissuto in un mondo che continuava a crescere in un modo che sembrava inevitabile, come fosse una legge di natura, almeno per noi che di questa crescita abbiamo, anche se in misura diversa, beneficiato.
Però, se proviamo a guardare a questo periodo da una prospettiva diversa, vediamo che non tutto è così limpido e positivo. Vediamo che, mentre l’occidente è cresciuto, ampie zone del pianeta sono rimaste indietro, sia socialmente che economicamente. Vediamo che in molte aree la guerra non è mai finita, che le
popolazioni non hanno mai conosciuto momenti di tranquillità e continuano ancora oggi a vivere nel terrore e nella disperazione. Vediamo che le risorse del pianeta non sono state utilizzate nel modo più saggio e non sono state distribuite equamente. Vediamo che una piccola minoranza della popolazione, di cui noi facciamo parte, consuma la maggior parte delle risorse, mentre la stragrande maggioranza continua a vivere con poco o niente.
Inoltre, proprio in questi ultimi tempi, come stiamo imparando anche sulla nostra pelle, la crisi che da ormai otto anni imperversa in tutto il mondo industrializzato ci appare sempre di più come un fatto del tutto nuovo, che non si era mai verificato prima e che quindi nessuno è in grado di interpretare e di affrontare correttamente.
La situazione in cui ci troviamo non è una semplice crisi economica. Quello che è accaduto con il tracollo finanziario del 2008 e tutto ciò che ne è seguito è una vera e propria crisi dell’intero sistema.
E’ entrato in crisi il modello economico e finanziario su cui è stato costruito il mondo che conosciamo; il modello su cui è basato il capitalismo moderno non è più in grado di consentire che una piccola parte di mondo, la nostra, continui a consumare più di quello che produce, mentre il resto del pianeta vive nella povertà.
Oggi noi avvertiamo sempre più forte su di noi il morso di questa crisi, con il lavoro che è sempre di meno mentre aumentano le persone che il lavoro lo hanno perso e non riescono più a ritrovarlo, fino a perdere la stima in sé stessi nel momento in cui non riescono più a provvedere alle esigenze della loro famiglia.
E’ un momento molto difficile, e lo stiamo vivendo senza avere davanti una prospettiva di riscatto, un sogno da coltivare, una speranza in cui credere.
Il governo e la politica tutta sono talmente concentrati sui problemi quotidiani da non riuscire neppure a trasmettere un’immagine di prospettiva, una luce da guardare in lontananza, e questo è forse più difficile da sopportare, oltre ogni difficoltà materiale.

Quel giorno di tanti anni fa, quando la nazione proclamò la Liberazione dall’incubo nazifascista, i nostri padri stavano molto peggio di come stiamo noi oggi. Ma loro avevano in testa la visione di un mondo nuovo, di un mondo più giusto, dove ciascuno potesse esercitare il proprio diritto ad avere una vita serena, a crescere i propri figli e a migliorare con il lavoro la propria condizione sociale.
I nostri padri hanno vissuto sostenuti da questa visione e hanno lavorato per realizzarla. Oggi quella spinta ideale si è perduta, e tocca a noi di trovarne una nuova.
Questo è il compito di chi oggi ha responsabilità di governo: che non è solo quello di riparare i guasti della crisi e riportare in carreggiata l’economia ma, soprattutto, di dare una nuova prospettiva al futuro della nazione, costruire insieme agli altri paesi un nuovo modello di sviluppo equo e solidale, un modello economico che vada oltre la sterilità dei numeri per affermare la centralità dell’uomo.

Un modello a cui tutti possiamo guardare come all’obiettivo comune da raggiungere.
La nostra luce in fondo al tunnel deve essere riconoscibile e condivisa: un mondo dove tutti possono contribuire alla crescita, dove ciascuno può avere secondo i propri meriti, ma anche proporzionalmente ai propri bisogni, e dove tutti contribuiscono alle esigenze della comunità in ragione delle proprie possibilità.
Un mondo che sa utilizzare le risorse disponibili senza sprecarle e che le sa distribuire equamente e con parsimonia.
Un mondo in cui ogni comunità di persone come la nostra, costruisce il proprio futuro traendo insegnamento dal passato, rispettando e salvaguardando l’ambiente in cui vive, valorizzando le cose che ha e costruendo su di esse un futuro sostenibile.
Forse questi sono solo sogni visionari in un mattino di primavera, ma noi oggi non saremmo qui se quel giorno di 71 anni fa i nostri padri non avessero avuto in testa il sogno di un mondo nuovo.
E allora dobbiamo rimboccarci le maniche e affrontare le difficoltà a viso aperto, ma soprattutto costruiamo insieme il sogno per il futuro nostro e delle generazioni che verranno.




 

RIFLESSIONI SU VALORI, SACRIFICIO, LEGAME TRA POLITICA E MORALITA', TRA STATO E INTERESSE DEL POPOLO
 

Per rinnovare il legame, anzi, la simbiosi tra italianità, nazione e unità, dobbiamo allora tornare a promuovere i valori e sostenere le aspirazioni che animarono gli uomini che 71 anni fa contribuirono a rifondare lo spirito democratico del Paese, recuperando il significato morale del fare politica, ripartendo da un nuovo inizio, sulla strada che porta a costruire quello Stato di cittadini liberi ed uguali, desiderato, immaginato ed infine realizzato dai tanti che si impegnarono e si sacrificarono per la Patria.
A loro va dunque oggi il nostro pensiero, carico di ammirazione e riconoscenza.
Possiamo dire che ciò che contraddistingue il sacrificio è la sua gratuità. E’ trascurare le conseguenze personali delle proprie scelte, se queste scelte sono ispirate a valori che si ritengono superiori perché appartengono a tutti ed a tutti devono essere garantiti come diritti.
Basterebbe considerare la grandezza e la nobiltà di questo sacrificio per comprendere il significato fondamentale della Liberazione e affrancare la sua celebrazione dal rischio di ridursi a una circostanza scontata, inespressiva, per alcuni (purtroppo non pochi) persino fastidiosa ed imbarazzante.
Cosa dire, allora, quali parole usare per far comprendere alle persone della mia generazione e di quelle successive perché è importante celebrare il 25 Aprile, perché questa data è viva nel presente e ricordarla non è solo un obbligo da assolvere.
Nella storia dell’umanità, il sacrificio ha uno straordinario valore di rinnovamento ed ogni volta che si compie ha il significato di una rivoluzione morale, perché all’apparenza è contro ogni ragione.
Cesare Beccaria scriveva nella sua celebre opera “Dei delitti e delle pene”.
“Nessun uomo ha fatto il dono gratuito della propria libertà in vista del bene pubblico. Questa chimera non esiste che nei romanzi”.
Invece no! La Resistenza e la guerra di Liberazione sono stati la dimostrazione che uomini e donne possono superare il pessimismo ed il cinismo della ragione che si fa rassegnazione, se si sentono chiamati a battersi per il bene sociale, se partecipano con passione, se credono in una giustizia che regola la convivenza, garantendo dignità della persona, uguaglianza e rispetto della libertà.
La Resistenza non è stata un romanzo. E' stata una straordinaria vicenda di vite dedicate con speranza, coraggio ed altruismo all’affermazione di ideali altissimi ed è per questo che non dovrebbe essere difficile raccontarla a chi non vi ha partecipato e fare sentire i giovani parte di quella vicenda, senza avere timore di ripetere parole che non possono diventare vuote e retoriche se trovano corrispondenza nei nostri comportamenti di ogni giorno.

Il metro con cui si misura il valore e l’importanza di un sacrificio è l’utilità che ne deriva al bene comune, una categoria continuamente evocata ma troppo spesso disattesa, anche nella politica.
Allora, c’è bisogno di ritornare a vivere la politica come il momento in cui si diventa responsabili delle proprie scelte, non solo nei confronti di se stessi, ma soprattutto nei confronti degli altri.
C’è bisogno di nuove e continue dimostrazioni che ciò che nell’impegno nei partiti e nelle istituzioni viene dato alla politica non viene sottratto alla morale, che amministrare la cosa pubblica con senso pratico non significa farlo senza principi, che non si può chiedere il rispetto delle regole ai cittadini senza prima riconoscere la libera dignità delle persone, come sosteneva un personaggio centrale della democrazia repubblicana, Giuseppe Dossetti.
E’ questo il grande lascito nato dalla Resistenza, sfociato nella Liberazione e giunto sino a noi con i principi della Costituzione, a partire da quello dell’uguaglianza tra i cittadini e della ricongiunzione tra cittadino e persona.
Riconoscere questi principi è la condizione per affermare la preminenza assoluta dei diritti inalienabili dell’uomo e allo stesso tempo costruire una società in cui tutti sono partecipi di una speranza collettiva; speranza di cui, oggi più che mai, per i giovani, per i lavoratori, per chi è in difficoltà, sentiamo fortissimo il bisogno.
Oggi come allora la politica è chiamata ad interpretare le grandi questioni e ad affrontare i problemi che in ogni epoca si presentano ad ogni società, ancor più nella dimensione globalizzata della difficile attualità che viviamo: come ricercare e realizzare la giustizia sociale; come associare etica, responsabilità e aspirazioni; come mettere in relazione e far dialogare le diverse identità e culture.
Sino a giungere a quel traguardo, intravisto con coraggio ed inseguito con doloroso sacrificio da tutti quelli che hanno messo in gioco le loro vite per rendere libere le vite di tutti noi: ricomporre il legame indispensabile, drammaticamente negato nell'esperienza della dittatura fascista, tra la politica e la moralità, tra lo Stato e l’interesse del popolo.





CONCLUSIONE
 

Come ho già detto altre volte:
- dobbiamo evitare che questa celebrazione sia vissuta solo come rito ma viverla come momento per farci carico di quei principi e valori fondamentali, per riaffermarli, riproporli seppur in un contesto storico, sociale, morale ed economico diverso.
- dobbiamo custodire la memoria per coltivare il futuro, cioè i Cittadini italiani e tutti coloro che pacificamente vivono e lavorano nel nostro Paese devono riflettere e prestare attenzione alla propria storia ed alla propria identità per ritrovare lo slancio con il quale costruire il presente guardando al futuro.
Le nostre azioni non segnino solo il nostro tempo, ma costruiscano anche il futuro, consapevoli che la speranza per un futuro migliore di pace e di solidarietà va continuamente tenuta viva.
Auguro un buon 25 aprile a tutti con l’impegno a coltivare e rafforzare questa speranza.





 

TRE INCONTRI SULLA MONTAGNA ORGANIZZATI DALLA BIBLIOTECA DI VERDERIO

La biblioteca di Verderio invita a partecipare a tre incontri sul tema della montagna, che si terranno fra aprile e maggio, presso la sala civica di Villa Gallavresi.

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 Nel primo incontro Alessio Pezzotta, autore ed editore di di diversi libri dedicati alla montagna, in particolare alle Prealpi Orobiche, presenta il libro

MIRACOLO 
DI 
NATALE



L'autore racconta di come sia sopravvissuto per 10 lunghe ore sotto una slavina  e di come sia stato salvato dai suoi soccorritori.


" .. Sono morto ...
sono sepolto sotto una slavina ...
sono matematicamente morto:
questo è stato il mio primo tremendo 
ma lucidissimo pensiero"


L'incontro si terrà giovedì 28 aprile, alle ore 21,00 presso la Biblioteca di Verderio


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Nel secondo incontro verrà presentato dagli autori, Ruggero Meles, Pietro Buzzoni e Giacomo Camuzzini,  il libro 

ALPINISMO PIONIERISTICO
TRA LECCO E LA VALSASSINA




Di seguito verrà proiettato il film documentario di Ruggero Meles


 GRIGNA 2177



L'incontro si terrà giovedì 5 maggio, alle ore 21,00, presso la sala civica di Villa Gallavresi

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Nel terzo incontro verranno proiettati due film documentario di Sabrina Bonaiti e Marco Ongania.  Il primo si intitola


CON LE SPALLE NEL VUOTO

dedicato all'alpinista Mary Varale (1895/1963).




 Seguirà la proiezione di 

IL CIELO IN ME
VITA IRRIMEDIABILE DI UNA POETESSA
ANTONIA POZZI (1912 - 1938) 
 

sulla vita della poetessa milanese Antonia Pozzi, che amò la montagna e ne trasse ispirazione per la sua poesia.




L'incontro si terrà giovedì 12 maggio, alle ore 21,00, presso la sala civica di Villa Gallavresi



QUEI QUATTORDICI MESI CHE CAMBIARONO IL DESTINO DI VERDERIO SUPERIORE di Beniamino Colnaghi - seconda parte

La Brianza è sempre stata una terra contadina, un polmone verde, un territorio ricco di boschi, cascine e campanili, vissuta da genti laboriose e produttive. In questa plaga lombarda i borghesi e le più affermate famiglie aristocratiche milanesi costruirono le loro sontuose dimore di villeggiatura e svilupparono alcune loro attività industriali.
Già a partire dalla metà del 1500 Verderio Superiore registrò la presenza di una famiglia di antica nobiltà lombarda, gli Ajroldi, la quale possedeva ingenti proprietà terriere e immobiliari. Nei secoli successivi, a seguito di divisioni di proprietà tra gli eredi e cattive gestioni immobiliari, gli Ajroldi lasciarono spazio ad altre famiglie, quali i Confalonieri, gli Arrigoni, i Ruscone e, ultima in ordine temporale, la famiglia Gnecchi(1). Questo casato, a partire da metà Ottocento, divenne proprietario della quasi totalità delle terre e degli immobili di Verderio Superiore, con propaggini a Verderio Inferiore, Paderno d’Adda e in altri comuni. Gli Gnecchi, almeno fino ai primi anni Venti del Novecento, assegnavano le loro proprietà disponibili ai coloni attraverso contratti di mezzadria, che vennero trasformati successivamente nei cosiddetti contratti misti. I coloni erano oltremodo gravati delle spese di coltivazione, da obblighi accessori consistenti in regalie (pollame, alcune parti degli animali d’allevamento e uova da fornire gratuitamente al padrone) e prestazioni manuali che il colono parziario doveva al padrone del fondo. Per molti anni, inoltre, il potente agente e fattore della casa padronale ebbe l’autorità e la facoltà di sfrattare, dalla casa e dai poderi, quei coloni che avessero commesso furti o compiuto azioni contro le proprietà. Ma non solo: sarebbero stati colpiti anche coloro che avessero assunto comportamenti indecorosi e lesivi dei principi morali.    
  





Villa Gnecchi ripresa dal parco e dalla fontana di Nettuno (cliccare sulle foto per ingrandirle)       
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giovedì 7 aprile 2016



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In occasione del Fuorisalone 2016, lo Studio Museo Francesco Messina ospita Bertoldo opera di design di Francesco Gnecchi Ruscone.
 

Il passato ispira il presente: il novantenne architetto Francesco Gnecchi Ruscone, rifacendosi a un proprio progetto del 1971 per illuminare le passeggiate notturne a Porto Cervo, crea una lampada da tavolo dalle fattezze antropomorfe che combina la tecnologia del LED con la manualità millenaria della ceramica
Tra il 1971 ed il 1973, Francesco Gnecchi Ruscone, colto architetto Milanese, con la collaborazione degli architetti di Boston Sasaki, Dawson e Demay, intraprende un progetto per l’illuminazione pubblica delle strade, dei giardini, delle piazze della Costa Smeralda. Ne derivano una serie di soluzioni progettuali di lampade, ognuna con la propria peculiarità e finalità.
Una di queste è un oggetto di cemento, a superficie granigliata con lo stesso granito di Porto Cervo, dalla forma cilindrica con un ’ apertura da cui esce la luce per illuminare i giardini di Porto Cervo.
Per il giardino tra il porto e la piazza Francesco Gnecchi Ruscone voleva una fonte che illuminasse il sentiero senza ostacolare la vista del cielo stellato.
Siamo nel 2014 quando l’Architetto riscopre questo progetto e lo reinterpreta in una nuova accezione: il pesante oggetto di cemento per l’illuminazione esterna diventa una colorata lampada da tavolo. Nasce così Bertoldo, una lampada in ceramica dalle linee lisce e dai colori accesi, un oggetto di design che ammicca al proprio alter ego urbano.


(Comunicato stampa dello Studio Francesco Messina)


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mercoledì 6 aprile 2016

QUEI QUATTORDICI MESI CHE CAMBIARONO IL DESTINO DI VERDERIO SUPERIORE di Beniamino Colnaghi - prima parte


"Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica
di trascriver questa storia da questo dilavato
e graffiato autografo, e l'avrò data,
come si suol dire, alla luce, si troverà poi
chi duri la fatica di leggerla?"...
Alessandro Manzoni
 
 
Nove aprile 1950, Pasqua. Quel giorno, verso le prime ore dell’alba, quasi tutti i coscritti della classe 1930 e una manciata di residenti di Verderio Superiore vennero arrestati e condotti in prigione. Furono portati a Pescarenico, un gruppetto di case, tra le quali il carcere, adagiate sulla riva sinistra del fiume Adda. Gli arresti causarono clamore e tensione nella popolazione, la quale non riuscì a spiegarsi il motivo per cui un “contatto” tra un giovane carabiniere e un iscritto alla leva, accompagnato dalla successiva protesta di alcuni suoi amici, poté scatenare una risposta così forte da parte delle forze dell’ordine. Il panico e la paura presero il sopravvento. Il paese rimase sgomento di fronte a tanto accanimento contro alcuni dei suoi figli.
Il periodo che intercorse tra il 9 aprile 1950 e il 27 maggio 1951 segnò uno spartiacque che cambiò radicalmente le sorti politiche di Verderio Superiore. In quei quattordici mesi, in un piccolo borgo contadino e operaio brianzolo, che contava poco più di mille abitanti, attraversato, a soli cinque anni dalla fine di una terribile guerra, da una situazione economica e sociale carica di difficoltà e incertezze, avvennero alcuni fatti significativi che generarono paura ed introdussero un clima di “caccia alle streghe”.
 
 
   

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UN GIRO ATTORNO AL PLATANO di Giorgio Buizza


Giorgio Buizza è il dottore agronomo che, in occasione della realizzazione della rotonda del platano, era stato incaricato dal comune di Verderio Superiore di stendere una relazione sullo stato dell'albero e di seguire lo sviluppo della realizzazione della rotonda, per rimediare all’impostazione originariamente data dalla Provincia.
Buizza ha recentemente "visitato" i platano e mi ha mandato questo articolo  sulle sue condizioni di salute. Lo ringrazio.

Avendo già collaborato in passato con questo blog, Giorgio Buizza ha una sua etichetta,sotto la quale potete trovare i seguenti articoli:
- CONSIDERAZIONI SULLA POTATURA DEGLI ALBERI;
- PLATANI IN UNGHERIA E CROAZIA
- IL PLATANO DI VERDERIO

Una serie di fotografie di platani di Verderio, pubblicata sul blog,  la potete invece trovare cliccando su:
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2009/07/platani-verderio.html 
 M.B.

UN GIRO ATTORNO AL PLATANO

Il platano di Verderio è incluso nell’elenco degli alberi monumentali della Provincia di Lecco con il n° 301 e, molto probabilmente, sarà inserito nel censimento nazionale degli alberi monumentali, previsto dalla Legge n° 10/2013.
Dopo la realizzazione della rotatoria, inaugurata nella primavera del 2004, il platano ha potuto disporre di una superficie permeabile più estesa di quella di cui disponeva in precedenza. La rotonda è stata costruita attorno all’albero in modo da garantirne la salvaguardia sia per la parte ipogea, - le radici – sia per la parte epigea - il fusto e i rami.
L’aiuola è stata dotata di impianto di irrigazione a goccia e l’area occupata dalle radici, è stata tappezzata di piantine di rose che rendono ulteriormente difficoltoso l’eventuale calpestio di chi intende avvicinarsi troppo al tronco. Alla base è stato installato un punto luce per arricchire la scenografia notturna. Allo stesso modo con cui vengono illuminati i campanili anche gli alberi possono diventare punti di riferimento per la comunità in transito.
Avere isolato l’albero in uno spazio di difficile accesso è stato, alla fine, un gran beneficio per l’integrità dell’albero. 




ALCUNI PARAMETRI
 

L’altezza misurata con un ipsometro forestale è stimata di circa 34,5 metri; con riferimento ai parametri edilizi corrisponde ad un edificio di oltre 10 piani.
Per questo grattacielo naturale non sono state montate gru, non sono state preparate fondamenta, non sono stati necessari ponteggi. Il platano ha fatto tutto da sé, trovando nel terreno le sostanze nutritive e l’acqua necessarie per il suo sviluppo. Quanta energia e quanta tecnologia sono necessarie, in una casa, per spingere l’acqua al decimo piano? Il platano fa tutto da sé,  senza impiego di pompe, semplicemente utilizzando la depressione creata dalla traspirazione delle foglie che richiama acqua dal terreno.
Abbiamo provato a misurare anche il diametro della chioma: dall’estremità di un ramo all’estremità opposta siamo attorno ai 30 metri. Quanta tecnologia sarebbe necessaria per realizzare una mensola con uno sbraccio di circa 15 metri? Ci vorrebbero ferri e cemento, tiranti e puntelli. Il platano ha fatto tutto da sé formando rami che si protendono verso l’esterno formando arcate successive, sempre più sottili.
La circonferenza del fusto (misurata a circa m 1,30 da terra) è oggi di 550 cm. La precedente misura risale al 1996 quando la circonferenza era di 508 cm. L’incremento annuale può quindi essere valutato di circa 2 cm. Il diametro del fusto (161,8 nel 1996 – 175,2 nel 2016) è aumentato mediamente di 0,67 cm/anno. Una cerchia legnosa di oltre 3 millimetri di spessore, per un albero d queste dimensioni rappresenta un incremento notevole e conferma l’ottimo stato di salute dell’albero.
Si può ipotizzare l’età del platano, anche se con molta approssimazione, in un arco di 150-180 anni. L’albero è certamente più longevo degli attuali abitanti di Verderio, alcuni dei quali sicuramente ricorderanno di aver visto il platano già adulto quando erano ragazzi.
Altri elementi per una datazione certa (cartoline, fotografie, documenti) finora non sono stati trovati. Trattandosi di un albero tra i più comuni e consueti del territorio padano nessuno ha forse pensato di annotare e documentare la sua presenza che ora, viste le dimensioni raggiunte, è diventata un’attrattiva del paesaggio circostante ed un richiamo di grande interesse botanico, paesaggistico e culturale.








CONFRONTO TRA PLATANI GIGANTI.
 

In base ai rilievi effettuati dalla Provincia di Lecco per la redazione del censimento degli alberi monumentali, pubblicato nel 2005, il platano di Verderio risulterebbe, quanto a circonferenza del fusto (a quella data di cm 525) il terzo nella graduatoria della specie platano, superato da quello di Villa Sommi Picenardi a Olgiate Molgora (cm 995 – vedere immagine) e dal platano di Villa Taverna Riccardi a Bulciago (cm 640). Seguono, nella ideale classifica dei platani della provincia altri platani, comunque meritevoli di attenzione con circonferenza di poco inferiore (Molteno, Villa Rosa, cm 517; Merate, Villa Cornaggia, cm 515; Imbersago, Villa Castelbarco, cm 498; Sirtori, Villa Besana, cm 485; Casatenovo, Villa Facchi, cm 465).
Mentre tutti gli altri grandi platani della provincia sono all’interno di giardini di ville appartenenti o appartenute a famiglie nobili, il platano di Verderio è cresciuto ad un crocicchio di strade pubbliche anche se in adiacenza alla Villa Gnecchi Ruscone ora adibita ad abitazioni private dopo le trasformazioni della fine del 900. E’ probabile che qualche nesso tra il platano e la famiglia nobile locale ci possa essere: sarebbe interessante scoprirlo.



Platano della Villa Sommi Picenardi a Olgiate Molgora – circonferenza (nel 2005) di 995 cm
Un primato difficilmente raggiungibile.





Contrariamente a quanto accade normalmente ai platani delle città, il platano di Verderio è diventato bello, grande e sano per una serie di motivi che è opportuno elencare nella speranza che servano a guidare le azioni future.


1. Ha avuto uno spazio adeguato per crescere: non ha dovuto subire la concorrenza di linee elettriche o telefoniche, è stato piantato sufficientemente lontano dalle case, perciò non sono state praticate potature per il contenimento della chioma. La struttura dell’albero lascia trasparire che, oltre alle probabili leggere potature di formazione nell’età giovanile, l’albero non è più stato potato in età matura. Qualche segno di taglio di rami di un tempo lontano è riconoscibile lungo il fusto, ma la vigoria della pianta ha rimediato alle ferite prodotte dai tagli sviluppando nuovo legno e nuova corteccia fino a ricoprire completamente le ferite con una nuova “pelle” viva.


2. Ha avuto a disposizione acqua in abbondanza.

I platani prosperano in vicinanza dei fossi, delle scoline, dei corsi d’acqua; il terreno non deve essere costantemente sommerso, ma le radici devono poter attingere dagli strati profondi l’acqua necessaria a mantenere una dotazione fogliare molto estesa. Si può stimare che in piena vegetazione un platano di queste dimensioni attinga e trasporti verso le foglie qualche metro cubo di acqua al giorno. Solitamente le radici di un albero adulto si affondano nel terreno per 1-2 metri o poco più ma beneficiano della risalita dell’acqua dagli strati profondi e della umidità persistente, anche se la falda è più profonda. In condizioni di buona permeabilità le radici possono spingersi anche a profondità maggiore di 2 metri, ma raramente arrivano a tre metri, molto dipende dalle condizioni del terreno e dalla sua permeabilità. In ambiente urbano, in carenza d’acqua nel terreno, non è infrequente lo sviluppo delle radici che riescono ad insinuarsi nei tubi di fognatura fino ad ostruirli completamente a seguito dello sviluppo di radici fascicolate molto fitte che beneficiano della presenza dell’acqua.


A Verderio esisteva probabilmente un fosso lungo la strada dal quale le radici hanno attinto in gioventù, oppure la falda sotterranea era molto superficiale e le radici potevano attingervi facilmente.




 
3. Si è salvato dagli assalti dei giardinieri e dei potatori più o meno agguerriti il cui operato provoca solitamente la fine anticipata degli alberi. L’occasione si presta per ricordare che il migliore risultato sugli alberi ornamentali si ottiene lasciando crescere la pianta indisturbata, senza intervenire con modifiche forzate e traumatiche della chioma, ma semplicemente assecondando il compito della natura. Qualche potatura può essere necessaria nella fase giovanile per “educare” lo sviluppo dell’albero nella sua struttura fondamentale; una volta che questa è stata impostata, disponendo di ampi spazi per lo sviluppo della chioma, è opportuno lasciar fare alla natura limitandosi eventualmente ad eliminare qualche ramo secco, nel caso ce ne siano, come azione di prevenzione nei confronti di chi transita sotto la chioma.

Solitamente i rami secchi vengono selezionati dal vento e dalla neve quando sono ancora molto sottili (1 o 2 anni) mentre i grossi rami secchi sono quasi sempre il frutto di potatura sbagliata e di tagli di dimensioni eccessive, insopportabili dall’organismo vegetale a cui viene praticata una amputazione senza poter effettuare le successive medicazioni.


4. Quando è stata realizzata la nuova rotonda è stata usata la dovuta precauzione per non lesionare più del necessario le radici nel terreno. Rispetto al modesto triangolo di verde che contornava l’albero prima della realizzazione della rotonda, oggi l’albero, pur trovandosi in una zona ampiamente asfaltata e molto trafficata, gode di un’isola di terreno non calpestabile circondata da un basso muretto che protegge il fusto da eventuali urti di veicoli in movimento e consente alle radici una adeguata superficie permeabile per lo scambio di arie e acqua con gli strati di terreno in cui si affondano. Se la rotonda fosse più grande anche il platano starebbe meglio, ma, a giudicare dai risultati, pare che si sia giunti ad un sufficiente stato di equilibrio, tale per cui la sua crescita prosegue indisturbata.


5. L’assenza di tagli e di lesioni alla corteccia è la migliore garanzia contro gli attacchi dei parassiti fungini che si diffondono facilmente quando trovano la via aperta a seguito dei tagli o delle lesioni della corteccia. Il patrimonio platanicolo italiano negli ultimi decenni è stato fortemente ridotto dalla diffusione del fungo parassita Ceratocystis platani, tipico fungo “da ferita” che invade l’organismo vegetale attraverso i varchi prodotti nelle radici, nel fusto nei rami da interventi di disturbo e traumatici come gli scavi per l’interramento dei servizi, la potatura, la rottura di rami. A volte anche il picchio, con la sua azione di percussione e con gli spostamenti da un albero infetto a un altro albero sano, può contribuire alla diffusione del parassita.

L’esito dell’infezione è sempre letale in una arco di tempo di 2 o 3 anni.

Questo è il motivo per cui le potature sui platani sono vivamente sconsigliate e da limitare allo stretto necessario. La regione Lombardia, attraverso il servizio fitosanitario, ha il compito del monitoraggio della patologia e deve essere preventivamente informata, mediante specifiche richieste, prima di effettuare tagli o potature su alberi di platano, sia radicati in bosco, lungo le strade o in proprietà private.


Fino a quando continuerà la crescita? Difficile fare previsioni: viste le condizioni attuali e lo stato di salute, si può ipotizzare che possa arrivare anche a 300 anni. Dipenderà dalla persistenza di condizioni favorevoli e dalla assenza di disturbi provocati dall’attività antropica. Due sono le azioni da evitare assolutamente : gli scavi in prossimità dell’albero cioè nell’area sotto la proiezione della chioma e le potature inutili. Poi, come tutti i viventi l’albero completerà il suo ciclo biologico che potrà concludersi a causa di un uragano, a causa di un microscopico parassita, per il mutamento delle condizioni climatiche.

Il compito della comunità locale è di fare il possibile per tenerlo in vita. Fino ad oggi questo impegno non è costato molto alla comunità. L’albero si è procurato da solo, a costo zero, la sua fama e la sua bellezza.

***
IL PLATANO DAVANTI A "LA CHIESA VECCHIA" 

Si è osservato come recentemente sia mutato invece il paesaggio alla ex chiesa di S. Floriano dove un bellissimo platano, è stato pesantemente potato.
 

Il platana davanti a "la chiesa vecchia" prima della potatura ...

Oltre che uno spreco di risorse una potatura siffatta, con tagli di rami di 10/15 cm di diametro e una apertura generalizzata di ferite su tutta la chioma, rappresenta un depauperamento delle riserve dell’albero, che vegeterà molto più tardi rispetto a un suo simile non potato, ma soprattutto corre il rischio di essere infettato dal fungo parassita.
Quali saranno state le motivazioni che hanno indotto ad imbracciare la motosega: paura? incompetenza? illusione di migliorare la condizione dell’albero? tradizione? Desiderio di dominio?
Il servizio fitosanitario è stato informato?


... e dopo la potatura.

Il platano di S. Floriano potrebbe essere un giovane e ben quotato erede del grande platano comunale, pronto a prenderne il posto  il giorno che questo dovesse, per qualche strana ragione, venire a mancare.
In quella malaugurata circostanza la rotonda del platano manterrà probabilmente il nome, ma dovranno passare numerose generazioni prima di poter godere di un nuovo spettacolo rappresentato da un nuovo platano e dalla sua voluminosa chioma.
Beati coloro che hanno potuto godere della sua ombra e della sua presenza imponente e che lo hanno lasciato, in buone condizioni, in eredità alla comunità.

Verderio, 15 marzo 2016

Giorgio Buizza


 

martedì 5 aprile 2016

CARPINI E CARPINATE di Giorgio Buizza


I CARPINI
 

Precisiamo innanzitutto di cosa si tratta: nei nostri giardini e nei nostri boschi sono presenti due specie che volgarmente vengono trattate con lo stesso nome: il Carpino bianco (Carpinus betulus) e il Carpino nero (Ostrya carpinifolia). Entrambi fanno parte della famiglia delle Corylacee, ma appartengono a due generi diversi: il genere Carpinus e il genere Ostrya.
Morfologicamente si assomigliano parecchio, soprattutto per quanto riguarda le foglie, ma ci sono altri particolari che possono consentire facilmente il riconoscimento.
Il C. bianco ha la corteccia liscia, di colore grigio cinerino e il fusto solitamente costoluto cioè la circonferenza del fusto non è proprio circolare come nella maggior parte degli alberi, ma irregolare appunto con delle costole che si riconoscono in modo evidente guardando la parte basale del fusto in alberi adulti.
Ha un accrescimento del fusto molto lento, il legno è molto duro ed ha un potere calorico eccellente.
Il C. nero ha la corteccia di colore grigio scuro, liscia in gioventù, squamosa in alberi adulti) e solitamente senza costole esterne. Cresce più rapidamente e viene solitamente governato a ceduo.
Quello che distingue le due specie è l’ambiente naturale di sviluppo: il C. bianco è una specie componente dei boschi di pianura dato che cresce e prospera all’ombra delle grandi querce, degli olmi, dei tigli; richiede un terreno abbastanza profondo e fertile, tendenzialmente umido e fresco. Mal sopporta il terreno calcareo.
Il C. nero prospera sui versanti assolati, si adatta anche a coprire pendici che dispongono di uno strato di terreno superficiale, si associa spesso con l’orniello e la roverella, si adatta anche ai suoli calcarei.
Le due specie di carpino non si escludono a vicenda perché hanno una buona adattabilità, ma nell’ambiente ideale le differenze si esaltano e a seconda delle caratteristiche di suolo e di temperatura, perciò difficilmente si ritrovano insieme grandi alberi di entrambi le specie.
Le differenze più evidenti si colgono al momento della fioritura (aprile-maggio) ma soprattutto della fruttificazione: nel C. bianco i fiori, sia maschili che femminili, sono raggruppati in amenti penduli che originano un’infruttescenza anch’essa pendula che raggruppa i semi (acheni) protetti da ampie brattee papiracee a sagoma triloba, con il lembo centrale lungo tre volte quelli laterali. Anche nel C. nero i fiori maschili e femminili sono raggruppati in amenti penduli da cui si originano però delle infruttescenze simili a quelle del luppolo composte da acheni protetti da una brattea erbacea saldata ai margini a forma di sacco lunga 1-2 cm di colore bianco giallognolo che a maturità diventa membranaceo e di colore rossiccio. 


 
Il carpino bianco





Il carpino nero
IL CARPINO BIANCO
 

La specie che più ci interessa in questo momento, dato che desideriamo approfondire il tema delle carpinate, è il Carpino bianco che, da tempo immemorabile, viene utilizzato per la formazione di siepi regolari, quinte verdi, recinzioni vegetali e grandi pareti verdi.
Per sua costituzione genetica il carpino bianco presenta un carattere fondamentale per quest’uso, cioè dispone, prevalentemente nei tessuti giovani, ma anche nei rami già lignificati, di numerose gemme dormienti, cioè gemme nascoste e indifferenziate che nei momenti di necessità si risvegliano e germogliano.
Si dice che una specie reagisce bene alla potatura quando dopo una potatura il risveglio vegetativo è celere e si formano numerosi nuovi getti in prossimità del taglio o nelle vicinanze. E’ il caso del carpino bianco.
Proprio in forza di questa caratteristica il carpino si adatta ad essere sagomato secondo le regole e le forme imposte dal giardiniere (questa manipolazione va sotto il nome di ars topiaria).
Nel giardino rinascimentale (giardino all’italiana) le specie più utilizzate per la formazione di arazzi verdi, siepi, labirinti, pareti verticali erano il bosso, l’alloro, il cipresso, tendenzialmente specie sempreverdi, a foglia persistente. Per le sue caratteristiche e dimensioni il bosso (Buxus sempervirense e sue varietà) è quello più impiegato per la formazione di siepi geometriche di piccole e medie dimesioni.
Il carpino pur essendo una specie spogliante, è stato impiegato con successo nelle aree a clima più freddo, soprattutto per siepi di grandi dimensioni, pareti verdi, gallerie verdi, berceaux e simili. Anche nella stagione invernale mantiene le foglie disseccate perciò l’effetto di barriere vegetale permane anche nella stagione in cui altre specie sono completamente spoglie. Solo gli sprovveduti pensano che le piante stiano morendo o siano già morte. Il carpino bianco mantiene sulla chioma, una discreta parte delle foglie appassite la cui caduta avverrà nella primavera successiva, poco prima della emissione della nuova vegetazione.
Mentre nelle piante a crescita libera la chioma primaverile, contemporaneamente alla emissione delle foglie, si riempie di amenti penduli che vivacizzano la chioma con tonalità di colore delicate, nelle piante costrette in forma obbligata e costantemente assoggettate a potatura le gemme a fiore non si formano e quindi non si può godere dello spettacolo della fioritura.
Per la formazione di queste architetture verdi si parte di solito da pianticelle di piccola dimensione piantate piuttosto fitte che vengono allevate con grande cura consistente soprattutto nelle ripetute potature (2/3/4 per ogni stagione) finalizzate a guidare lo sviluppo verso le forme desiderate.
Per formare cespugli globosi si può iniziare anche con pianticelle ramificate fin dal basso che tendono a crescere anche in larghezza oltre che in altezza.


IL CARPINO BIANCO E LA CACCIA
 

I roccoli di caccia erano tradizionalmente dotati di uno spazio alberato creato ad arte in prossimità della torre (il roccolo) in cui sostava il roccolatore. Per le loro origini questi impianti verdi sono chiamati “bresciane” e sono formati da due pareti verdi concentriche disposte in circolo o a pianta di ovale, formate da carpini allevati e potati e condotti a formare le pareti verdi su cui vengono disposte le reti per la cattura degli uccelli.
Al centro dello spazio circolare od ovale vengono piantati alberi da pastura, ricchi di bacche colorate, di frutti appetibili dagli uccelli, che vengono richiamati anche utilizzando i richiami (vivi o artificiali).
Nel momento in cui il roccolatore ritiene di aver richiamato un numero sufficiente di uccelletti dalla torre del roccolo lancia gli “spaventi”, sagome di legno o di vimini intrecciati, per simulare l’arrivo di un rapace. Gli uccelletti intenti a beccare, spaventati, prendono il volo nelle varie direzioni e restano intrappolati dalle reti distese tra i carpini.
La cura dei carpini è quindi essenziale per la funzionalità del roccolo e devono essere dedicate molte ore di lavoro per fare in modo che la carpinata raggiungala sua piena funzionalità che deve allo stesso tempo nascondere i movimenti del roccolatore che si sposta nel tunnel naturale formato dalle fronde, e lasciare le aperture giuste per la stesa delle reti e per far volare gli uccelli verso l’esterno, finendo nella rete.
Esistono ancora alcuni roccoli funzionanti, ma le catture sono oggi finalizzate agli studi scientifici, ai censimenti, ai controlli dei numeri di popolamento; gli uccelli vengono ancora catturati con le reti, ma immediatamente liberati, dopo averne riconosciuto la provenienza (per quelli già inanellati) oppure dopo aver provveduto all’inanellamento.


Lecco – rotonda all’inizio di viale Valsugana in prossimità della sede della ditta Fiocchi Munizioni.
Per analogia con l’attività della caccia nell’aiuola è stato riproposto, a scopo pubblicitario, un roccolo formato da una struttura esterna di carpino bianco. All’interno alcuni alberi di richiamo (sorbo degli uccellatori – Sorbus aucuparia- biancospino - crataegus monogyna - e altri fruttiferi - meli e peri selvatici, sambuco, ecc. Si precisa che nella cattura al roccolo gli uccelli venivano catturati con i richiami e con le reti ma senza uso delle armi.


LE SIEPI ORNAMENTALI
 

Il Carpino si adatta ad assumere le forme imposte dai giardinieri ma per le architetture più ardite (le volte, le gallerie) deve essere accompagnato e guidato, almeno inizialmente da sostegni rigidi (archetti di ferro, palerie inchiodate) su cui i germogli del carpino vengono legati quando sono teneri e flessibili in modo che lignificando mantengano poi la sagoma assegnata.
In questo modo, poco alla volta, potando accuratamente e frequentemente si riescono a formale le pareti, le volte, gli archi, i berceaux. Una volta raggiunta la consistenza e la rigidità prevista i fusti del carpino si conservano eseguendo le potature ed eliminando i germogli che si sviluppano nella direzione indesiderata.
Si potrebbe pensare che una volta raggiunta la sagoma voluta i problemi siano risolti, ma non è così.
La pianta (di qualunque specie) ripetutamente potata esaurisce prima il proprio vigore vegetativo perché ad ogni sottrazione di chioma deve impegnare energie per risvegliare nuove gemme, per originare nuovi germogli, nuove foglie e nuovi rametti. I carpini delle carpinate vanno quindi soggetti ad invecchiamento precoce; se in natura, in bosco, un carpino a crescita libera, in condizioni ambientali idonee può campare anche 200 anni, un carpino ripetutamente potato e costretto in forma obbligata esaurisce le proprie energie nel volgere di qualche decennio (30 - 40 anni) poi muore e deve essere sostituito altrimenti nello spazio prima occupato dalle fronde si forma un vuoto, un fallanza, che compromette l’integrità della siepe o del roccolo.
Altro fattore di cui è necessario tenere conto è la capacità di emissione di nuovi germogli che diminuisce progressivamente con l’aumentare dell’età. In sostanza sono solo le parti giovani del fusto (i rametti terminali, ricchi di gemme) che sono in grado di rivegetare. Più i fusti invecchiano e minore sarà la risposta della pianta alla sollecitazione del potatore.
Per questo motivo se si lascia invecchiare e ingrandire oltre misura una siepe o una carpinata a galleria non sarà facile riportarla alla dimensione originaria perché si dovranno effettuare tagli su rami vecchi e grossi i quali in buona parte non saranno in grado di rivegetare.
Ovviamente anche le siepi e le carpinate importanti trovano gran beneficio dalle irrigazioni nelle stagione estiva (si rammenta che il carpino è specie da mezz’ombra, e prospera all’ombra di alberi più grandi) e dovendo far fronte alla continua perdita di foglie e rametti trova giovamento se gli viene fornito la giusta nutrizione con qualche concime di sintesi o organico.



 
Olgiate Calco – Villa Sommi Picenardi - Carpinate laterali ondulate allungano la prospettiva attorno al labirinto di bosso


 
Potsdam (Berlino)


Bamberga - Palazzo dei Vescovi



 
Bamberga - Palazzo dei Vescovi


 
Heremitage



 
Verderio - La siepe di carpini ai lati del viale che porta a Cascina Bergamina


 Giorgio Buizza