mercoledì 18 dicembre 2024

LE EMOZIONI DI UN CHIRURGO TRAPIANTISTA, PAOLO ASENI di Marco Bartesaghi

Paolo Aseni è un medico chirurgo che ha dedicato la sua carriera professionale ai trapianti di fegato. Con lui voglio parlare delle emozioni legate al suo lavoro: la gioia, il dolore, la paura, …

Nato nel 1950 a Palo del Colle, in provincia di Bari, si è trasferito a Milano quando aveva 5 anni …


Paolo (P) – Il Papà era già qui da un anno quando noi, io la mamma e mia sorella, l’abbiamo raggiunto, nel 1955. Quando siamo arrivati a Milano lui era un ambulante, si alzava alle quattro ogni mattina ed era sul mercato alle cinque e mezza. Qualche volta l’ho accompagnato per vedere quanta fatica facesse. Dopo cinque anni era riuscito a mettere da parte un gruzzoletto e aveva aperto un negozio di maglieria intima, camice e calze. La mamma gli dava una mano.

Papà era una bellissima persona, positiva, ottimista; molto severo, autoritario, ma anche molto gioviale. Vedevo ed ero colpito dai sacrifici drammatici che i miei genitori dovevano fare, per permettere a me e a mia sorella di studiare. Questa è stata una delle molle che mi hanno fatto pensare: “Bisogna che io restituisca qualche cosa al buon Dio, che mi ha dato tutta questa fortuna”.

Marco (M) – Si è laureato a Milano?

P – Sì, all’Università Statale, nel 1975, dopo 6 anni di medicina. Prima mi sono diplomato al liceo scientifico Alessandro Volta, dove ho avuto un professore di lettere straordinario, che sicuramente, anche se involontariamente, mi ha portato verso la scelta di iscrivermi alla facoltà di medicina. Questo professore, che è stato il miglior allievo di Giovanni Gentile, il grandissimo filosofo Giovanni Gentile, ha condotto me e i miei compagni, lungo un percorso di riflessione, fatto di studi e di racconti. Perché le sue lezioni non erano solo Seneca, piuttosto che Pascoli, che a lui piaceva tantissimo, erano anche il racconto della sua vita: dalla sua storia di partigiano che non aveva mai sparato un colpo, perché l’aveva detto subito “io non sparo”, ad altre situazioni in cui si era trovato che ci avevano commosso. Ci aveva fatto capire che qualcosa bisogna fare per le persone che vivono dove c’è ingiustizia, dove c’è sofferenza. Io e un gruppo di compagni della mia classe ci trovammo nei bagni della scuola chiedendoci “Se vogliamo combattere la sofferenza, cosa dobbiamo fare?”. La conclusione fu “Facciamo medicina”.

M - Come si chiamava il professore?

P - Carlo Salani, una persona straordinaria; eravamo un po’ intimoriti, ma nello stesso tempo innamorati di lui; una personalità estremamente variegata, di un’umanità che colpiva con i suoi gesti. Ci aveva fatto prendere coscienza che noi eravamo molto fortunati e tanti altri, invece, non lo erano e bisognava un po’ pareggiare i conti: era etico che chi aveva di più mettesse a disposizione qualcosa in termini di buona volontà: alcuni miei compagni andarono in Burundi, a fare un po’ di servizio civile; c’era chi andava a dare una mano, tramite la chiesa, nella periferia di Milano, o nella Bassa Milanese; c’era Mani Tese che portava i ragazzi in varie parti del mondo a fare volontariato.

M - E dopo la laurea?

P - Dopo la laurea sono entrato in un pronto soccorso, come avevo visto fare da un collega.

Mi serviva come esperienza, perché eravamo stati molto mal seguiti durante gli anni di medicina. Avevamo avuto professori forse validi professionalmente, ma certamente non validi dal punto di vista didattico e come tutor; non voglio neanche esprimere giudizi, perché non sarebbero molto eleganti, sulle persone. Sei anni di medicina trascorsi tra il panico e la noia di materie meravigliose, rese noiosissime; sei anni un po’ così, comunque importanti per sviluppare la mole di conoscenze necessarie.

Avevo il papà malato di fegato e quindi, facendo di necessità virtù, le mie attenzioni erano rivolte particolarmente a questo organo. Al terzo anno scelsi di fare la tesi di laurea in un reparto specialistico di malattie del fegato e in seguito decisi di coltivare questo interesse anche dal punto di vista chirurgico.

Non fu facile all’inizio, perché non conoscevo l’ambiente, e così andai al Fatebenefratelli. Anche lì, purtroppo, l’insegnamento e la capacità di fare da tutor, anche su una base puramente psicologica, non c’era.

La svolta avvenne durante il servizio militare, dove incontrai un bravo collega che mi mise al corrente di tante situazioni molto interessanti. Lui, anestesista intensivista, mi parlò della terapia intensiva a livelli molto alti e dell’ospedale Niguarda. Facendo servizio in aeronautica, a Milano in piazza Novelli, avevo un certo numero di notti libere. Le trascorrevo in rianimazione presso il reparto Bozza, della terapia intensiva di Niguarda, dove imparai moltissimo. Stavo in piedi fino alle due, dalle due alle sei dormivo su una poltrona o su un divano e poi tornavo in caserma presso il Comando dell’Aeronautica Militare, dove mi firmavo il permesso per poter rientrare. Me lo consentiva il Maggiore che, anche lui medico, mi dava una mano.

In questo periodo ho avuto la fortuna di vedere operare due tra i migliori chirurghi con competenze specifiche sul fegato: il professor Lino Belli, che poi è diventato mio primario e mio maestro, e il professor Piero Belinazzo. Pensai così di lasciare la terapia intensiva e l’anestesia per un percorso di chirurgo interessato, in particolare, alla chirurgia del fegato. Parlai con gli assistenti del professor Belli, perché era molto difficile parlare con lui direttamente, metteva molta paura, aveva occhi grigi che perforavano il buio.

M - Era molto anziano?

P - No, non era una persona anziana, in quegli anni, 1975, aveva meno di 50 anni, era diventato primario giovanissimo; veniva dalla grande scuola chirurgica di Padova, poi era stato al Policlinico.

Alla fine i suoi assistenti mi accolsero e capii, con molto timore, che era una squadra davvero speciale, dove si giocava ad altissimo livello. Sono stato volontario per quattro anni prima di essere assunto. Per la mia professione ho imparato non tantissimo: di più!

Facevamo di tutto: chirurgia polmonare, epatobiliare, esofagea, vascolare.

E trapianti. Era già iniziata l’epoca in cui i trapianti di rene andavano bene.

Tutto, come dicevo. In particolare la chirurgia dell’ipertensione portale, che è attinente alle gravi malattie del fegato e che nessuno faceva perché estremamente complessa. Il mio primario è stato il primo in Italia a praticare un intervento imparato a New York da un famoso chirurgo che aveva messo a punto questa tecnica. Eravamo un riferimento per tutta l’Italia.

Un episodio mi aveva convinto che quella sarebbe stata la mia strada: si presentò da noi un giovane affetto da una gravissima malattia epatica, che occludeva le vene di sbocco del fegato. L’intervento necessario non era stato provato che in pochissimi posti e in questo caso c’era una complessità superiore, che rendeva impossibile l’intervento consueto. Dovemmo confrontarci con un caso analogo, operato da un cardiochirurgo a Zurigo, che si era riproposto di ideare un intervento possibile in questi casi. Lo studiammo per parecchio tempo e alla fine ci decidemmo, con grande paura da parte del primario, perché non lo aveva ancora tentato nessuno: l’intervento consisteva nel collegare la vena del fegato al cuore, quindi senza un’esperienza diretta di cardiochirurgia. Andò molto bene e, se il ragazzo avesse superato i primi giorni, poi sarebbe stato definitivamente guarito.

Quando il primario uscì dalla sala operatoria confortò subito il papà e la mamma del ragazzo. La suora che aveva ascoltato queste parole, chiamò tutti gli infermieri che fecero un applauso. Mi commossi, anche se c’entravo molto poco dato che avevo tirato solo le valve, perché mi sentivo parte di una squadra particolare, che mi avrebbe permesso di dedicarmi a quella parte di chirurgia un po’ particolare, per la quale non è facile trovare un’equipe così specializzata.

M - In che anni siamo?

P - Stiamo parlando della fine degli anni settanta, inizio anni ottanta, quando cominciammo ad affrontare anche il problema del trapianto di fegato. Nel 1984 eseguimmo il primo trapianto in un povero ragazzo che venne trasferito, già morente, in elicottero dalla Sardegna. Andò male. Sapevamo che sarebbe stato molto difficile, ma piangemmo tutti, perché ci sentimmo impotenti di fronte a una malattia devastante, di fronte a questo giovane che non ce l’aveva fatta.

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M - Il trapianto era stato totale?

P - Sì, era stato un trapianto totale. Quel giorno c’erano cinquanta persone in camera operatoria, anche un cardiologo che assisteva il primario in caso avesse avuto bisogno. Non sapevamo quante ore avremmo dovuto resistere lì dentro.

Uno dei primi trapianti durò 25 ore: il primario uscì un paio di volte per fare la pipì, io una sola volta. Questa era l’attività che dovevamo affrontare.

Non si trattava solo di trapiantare, bisognava anche andare a prelevare gli organi, in una circostanza in cui ci veniva anche imposto di essere partecipi delle attività del pronto soccorso. Quando erano in successione il turno in pronto soccorso, il turno ad andare a prelevare e poi quello a trapiantare, si arrivava a dover lavorare 36 ore consecutive ed era una cosa molto pericolosa. Magari uscivamo dal pronto soccorso alle otto di sera, dovevamo andare a Napoli a prendere il fegato, arrivavamo a Napoli la mattina alle 4, prelevavamo il fegato, tornavamo indietro e stavamo lì a vedere come andava il trapianto. Dopo 36 ore tornavamo a casa con la macchina che andava a zig zag.

Stavamo pagando un prezzo molto elevato in termini fisici, però in termini psicologici questa fatica veniva azzerata dal fatto che vedevamo persone in coma, che, dopo 48 ore dall’intervento, tolto il tubo, si svegliavano, sorridevano, parlavano. Sembrava davvero che Qualcuno da lassù ci suggerisse “Guardate che i miracoli esistono, però siete voi che in qualche modo dovete essere attori di questo compito”.

Da lì è nata una percezione un po’ particolare del mio lavoro, perché ci si affeziona alla specialistica del trapianto e anche a quella del prelievo, che è molto particolare e da cui si impara tantissimo. Nel prelievo hai a che fare con una famiglia che mette a disposizione un congiunto deceduto: il rispetto deve essere altissimo. Poi ci sono le problematiche medico-legali: se la persona è deceduta in un incidente il magistrato potrebbe avere bisogno di informazioni sulle lesioni riscontrate e quindi devi refertare tutto con la massima attenzione. Infine devi essere sicuro che il donatore non abbia malattie che possano essere trasmesse a chi riceve.

M - E questo come si può sapere?

P - C’è una rete di collaboratori a disposizione H24 e da loro impari porzioni di sapere che sono normalmente nascoste alla maggior parte dei colleghi. Ad esempio, solitamente si pensa che a una ragazza che è deceduta per la meningite non puoi prelevare un organo. Invece, in circostanze normali, lo puoi fare tranquillamente, senza nessun rischio. Questo lo abbiamo imparato dall’infettivologo che ci seguiva ed era sempre a nostra disposizione.
Poi impari moltissimo in termini umani, l’attività del trapianto da questo punto di vista è una scuola stratosferica. Io mi sono legato a tutti questi pazienti, che mi abbracciavano, mi baciavano, e io li abbracciavo; succede ancora adesso, quando mi riconoscono in pronto soccorso. Diventa una sorta di fratellanza, è come aver partecipato a una guerra, contro il nemico comune, la malattia: tu fai la tua parte da paziente, io la mia da medico e insieme cerchiamo di tirar pugni a questo avversario, per metterlo a KO.
Per concludere rispetto a queste riflessioni, in termini di crescita professionale e umana, dire che i sei anni di università sono valsi poco è già troppo, direi nulla. Ho imparato dai miei pazienti, sono loro che mi hanno messo in condizione di imparare, che mi hanno parlato del loro star male. Ho approfondito la mia conoscenza attraverso i loro racconti e seguendo i loro percorsi di sofferenza.
Ho studiato e continuo ancora a studiare tantissimo: sono revisore di 40 riviste mediche, da cui ricevo articoli da rivedere e per le quali scrivo articoli, ma da lì ho imparato poco. Quello che è scritto sui libri è solo una parte, non molto pregnante, del sapere. Quando invece ascolti quello che il paziente ti racconta, allora “pam!”, il sapere diventa vivo, ti si appiccica dentro e non si stacca più.
C’è una seconda cosa importante …

M - Mi dica ...

P - È fondamentale imparare dall’errore. L’errore rimane tale se tu da lui non impari qualcosa. Noi chirurghi facciamo spesso dei piccoli errori, per fortuna riparabili, e dobbiamo assolutamente imparare da quegli errori. Io avevo un pacco “così” con tutti gli errori che avevo commesso, avevo anche intenzione di pubblicarli, errori di chirurgia quasi tutti rimediabili. Li avevo insieme in una piccola valigia, in un’auto che poi mi hanno rubato, però, bene o male, mi sembra di ricordarli abbastanza. Da questi errori, di cui spesso faccio menzione, ho imparato tantissimo e mi sono serviti.
Ho imparato dai miei pazienti e dai miei errori; è stata necessaria certamente anche una forte base di conoscenza teorica, che però senza i pazienti sarebbe servita molto poco.
L’esperienza del pronto soccorso del Niguarda e del nostro reparto è stato qualcosa di ineguagliabile in termini numerici; penso che questa sia stata una grande fortuna, che cerco di restituire continuando a fare il volontario.

M - E poi le è successo un fattaccio ...

P - Quale …?

M - L’incidente …

P - Ah, bé sì, quello fa parte della mia crescita.
23 giugno 1999; eravamo sull’autostrada Brescia-Milano; tornavamo dopo aver prelevato a Brescia un fegato e un pancreas. Ho sentito un gran botto e visto delle scintille. “Ci hanno tirato una bomba”, ho pensato, poi ho perso conoscenza. Mi sono risvegliato riverso nella Mercedes, insieme all’autista, cosciente di avere un dolore pazzesco al torace. Il mio carissimo amico, giovane specializzando persiano, era fuori dalla macchina. Era policontuso ma riusciva a muoversi e mi diceva “Paolino, Paolino come va, ci sei” “Sì, sì ci sono, ma cosa è successo?” “Ci hanno speronato”. Eravamo praticamente bloccati lì. I due contenitori di fegato e pancreas, con tutto il ghiaccio, erano sull’autostrada; i camion ci passavano a destra e a sinistra. Il mio collega aveva avvertito subito dell’incidente la sala operatoria di Niguarda, per bloccare l’intervento chirurgico. La paziente era già in sala operatoria però, per fortuna, l’intervento non era ancora iniziato. A un certo punto il suo cellulare, che era un un po’ vecchiotto, si era spento perché scarico e il cellulare dell’autista era stato sbalzato via, così non poté chiamare i soccorsi.
Dopo 50 minuti arrivarono le ambulanze e la polizia. Gli agenti, molto intelligentemente, presero i pacchetti con gli organi e li portarono a Niguarda.
Io dovetti combattere con l’ambulanza perché ci volevano portare in un ospedalino del bresciano poco attrezzato. Dovetti convincere la mia collega del 118 a farci portare in un grande ospedale, perché se avevo delle lesioni toraciche e mi portavano in un ospedaletto, con un pronto soccorsino, sarei morto, sarei diventato anch’io un donatore, dissi proprio così, con un filo di voce. Si convinsero a portarci a Brescia. Lì era di servizio uno specializzando, neanche il medico titolare del pronto soccorso. Le prime lastre ce le fecero, a me e all’autista, un’ora e mezza dopo, la prima ecografia nel pomeriggio: il buon Dio ce l’ha mandata buona.
L’autista aveva delle fratture vertebrali, io sei coste e tre vertebre rotte.
C’era anche il sospetto della rottura dell’aorta toracica ma, per fortuna, si era trattato di un falso radiologico. Vedevo i miei colleghi bianchi in volto, preoccupati perché non sarebbero stati in grado di provvedere a questo, lì non c’era una cardiochirurgia. Questo però me lo dissero dopo.
Invece il fegato e il pancreas miracolosamente arrivarono a destinazione illesi e furono ottimamente trapiantati, il fegato da noi, il pancreas al San Raffaele.

M - Vi avevano speronato apposta?

P – Sì. Era una banda di albanesi che speronava auto di grossa cilindrata sul tratto Milano-Venezia. Normalmente si fermavano, puntavano il coltello alla gola dell’autista, poi lo lasciavano sull’autostrada e se ne andavano via. La macchina rubata finiva a Brindisi dove il motore veniva smontato e portato in Albania per 4 milioni di lire. Tutto questo casino per 4 milioni di lire.
Siccome l’incidente era stato molto grave, l’auto si era accartocciata e non era più utilizzabile, ci lasciarono lì.
La notizia comparve su tutti i giornali più importanti. Qualcuno scrisse che volevano depredare gli organi. No, non erano gli organi l’obiettivo, ma l’auto.

M – Perché questo fatto è stato importante per la sua crescita?

P - Prima di tutto perché se non passi dall’altra parte della barricata e da medico diventi paziente, non capisci tante cose: non capisci la sofferenza, neanche la morte. Io avevo pensato di morire, perché non arrivava nessuno, i TIR passavano a destra e a sinistra, avevo un dolore lacerante al polmone. Da chirurgo sapevo che poteva anche essersi rotto il cuore o l’aorta; pensavo: “Se devo morire, buon Dio, sono qua, vedi di non farmi soffrire troppo”.

Solo quando passi attraverso la sofferenza e sei costretto a vedere il momento della morte che ti viene incontro, ti metti nell’ottica di dire “Quelli che io cerco di aiutare sono un po’ come me in quel momento” e allora diventi un pochettino più empatico. Questa è stata la prima lezione, la più importante.

M – La seconda lezione?

P - Seconda lezione: l’importanza di tornare sulla “bicicletta” subito dopo essere caduto. Sembra un modo di dire, ma in verità è stato salvifico.
Quaranta giorni dopo l’incidente mi rimisi in pista e detti la disponibilità per ulteriori prelievi. Caso volle che il primo fosse a Brescia. Ho pensato: “Qui c’è il buon Dio che mi vuole incoraggiare”. Per prima cosa ho detto all’autista “Sono reduce da un incidente sulla Milano-Brescia, mi metto in ginocchio: vada piano!” “Non si preoccupi dutur”. All’ospedale naturalmente mi hanno riconosciuto.  
Dopo l’incidente ho mandato una lettera agli organizzatori dei prelievi chiedendo che diventasse obbligatorio segnalare che le nostre erano macchine in servizio e non macchine da “sciuri”. In seguito hanno messo a disposizione auto con la scritta “trasporto di organi” e con un lampeggiante.

Altra lezione: è molto facile individuare in un’etnia la causa dei propri mali. Non sono così stupido, però è facile cadere in questa trappola e quindi bisogna stare molto attenti a non farlo.
Uno dei primi fegati che andai a prelevare dopo l’incidente, era destinato a un ragazzo albanese a cui mi affezionai. Questo ragazzo aveva una malattia particolarmente rara e aggressiva. Quando è stato bene gli ho detto “Guarda io ho avuto un’esperienza con dei tuoi connazionali che non ti ho mai raccontato. Ti voglio bene” “Anch’io le voglio bene”.

Questa è stata la mia attività, che mi ha insegnato tante cose belle. Dico sempre ai miei colleghi, soprattutto ai giovani “Se fate i chirurghi e non fate un percorso che passa anche dai prelievi e, perché no, dai trapianti, non sarete mai dei chirurghi completi”. Intanto perché le conoscenze di chi ha sviluppato ed è vissuto tra i trapianti di rene, di pancreas e di fegato e, alla fine, dando una mano anche a chi preleva cuore e polmoni, sono conoscenze anatomo-chirurgiche trascendentali (uso questa parola forse un po’ a sproposito, ma penso che possa rendere l’idea).
Non solo: le complicanze di un trapianto sono talmente complesse da fronteggiare che fanno sì che l’esperienza di chi affronta anche questa attività sia particolarmente ricca. Per questo consiglio di fare una attività di prelievo e di trapianto multi-organo anche solo per qualche anno. Ho scritto questo in un capitolo di un mio testo e ho colleghi, anche tra i più bravi al mondo, che sostengono questa mia tesi. Per carità, anche se non passi attraverso questo percorso puoi essere un bravo chirurgo, ci mancherebbe altro, ma ti mancherà sempre qualcosa.
È una scelta faticosa, certo, perché devi essere sempre sul pezzo, sempre disponibile in reperibilità, sia per il prelievo che per il trapianto: 20 reperibilità al mese, 10 quando ti va bene. Per me che ero a Verderio, 40 chilometri da Milano, non era sempre semplice, l’inverno, la nebbia, no, non era semplice. Però se ci fosse la possibilità di nascere un’altra volta vorrei poter fare quello che ho fatto, né più, né meno...anche l’incidente ah, ah, ah.

M – Lei ora insegna. Dice queste cose anche ai suoi studenti?

P - Ho un certo numero di ore di insegnamento all’Università Statale di Milano. Non sono molte, però mi permettono di suscitare curiosità per l’anatomia chirurgica e per i trapianti, negli studenti del primo e secondo anno.
Ho un trucco formidabile per attirare la loro attenzione, partendo dalla mitologia. Gli parlo di Prometeo, al quale Zeus aveva ordinato di non dare il fuoco agli uomini, perché strumento troppo potente per loro. Prometeo disobbedisce e viene punito: è legato nudo a una rupe e un’aquila gli strappa pezzettini di fegato. Ma il fegato gli ricresce e quindi la sua pena è eterna.
Da qui, dalla capacità prodigiosa del fegato di rigenerarsi, faccio partire la storia stupenda del fatto che si possa prelevare il 60% del fegato di un donatore, certamente un eroe coraggioso, per darlo a un suo congiunto, al figlio, al genitore, al coniuge.
Così attivo la curiosità partendo dal mito, poi inserisco qualche pietra miliare della storia dei trapianti e quindi comincio a parlare di anatomia chirurgica. Come? La introduco facendo vedere dei piccoli videoclip di interventi chirurgici, con l’obiettivo di far capire che per i trapianti le conoscenze dell’anatomia chirurgica, devono essere straordinarie, extra-ordinarie, irrinunciabili se si vuole affrontare questa attività molto particolare, molto complessa. Così riesco ad affascinare questi ragazzi. Ogni volta che finisco le due ore di lezione non riesco a trattenere le lacrime perché applaudono e questa cosa mi fa star bene, perché se applaudono, cosa che non gli è minimamente richiesta, vuol dire che li ho coinvolti in modo positivo, li ho coinvolti in modo da renderli curiosi ed empatici rispetto alla storia del trapianto.
Dall’Università Milano Bicocca ho ottenuto anche di insegnare a coloro che sono già laureati. Sono 80 medici in formazione per essere poi specializzandi in medicina dell’urgenza. Se vogliamo etichettarli sono “urgentisti”, coloro che avranno un posto di lavoro nei Pronto Soccorso.
Una lezione su nodi e suture durante una lezione agli studenti di medicina


Chi fa questo corso può essere un neurologo, un cardiologo, un piccolo chirurgo per le procedure base: quando è in Pronto Soccorso, deve affrontare, in prima battuta, tutto. In questa scuola faccio la parte di formazione “chirurgica”, fra virgolette perché non parliamo di interventi chirurgici, ma di procedure chirurgiche d’emergenza: un’intubazione a rapida sequenza; il controllo chirurgico della via aerea in ostruzione, che deve essere risolto in pochissimi minuti; l’inserimento di sonde speciali, che sono conosciute da pochissimi chirurghi; suture un po’ complesse - dare punti in alcune zone anatomiche o darli in un certo modo; metter un drenaggio salvavita nel torace quando un paziente sta morendo e se non glielo metti muore in pochi minuti. Situazioni che sono allarme rosso, perché il paziente in queste situazioni può perdere la vita in brevissimo tempo.
Uso modelli su cui simulo queste procedure. Ad esempio, per il drenaggio toracico uso tavole di legno e bistecche di maialino con le coste su cui faccio fare per simulazione anche l’anestesia locale, l’incisione con il bisturi e la messa in sede dei drenaggi salvavita. Una simulazione molto, molto vicina alla realtà. Simulare procedure che non si presentano quotidianamente in Pronto Soccorso, alcune rare, altre rarissime, permette di avere meno paura e avere la necessaria freddezza quando le si deve affrontare, significa poter dire “io questo l’ho già fatto, so che devo fare questi step, devo semplificare il problema cercando di ricordare gli step più importanti e lo faccio …”.

M - Ma, nella realtà, ci saranno delle varianti?

P - Le varianti, per fortuna, in queste situazioni drammatiche sono pochissime. Chiaramente vengono prese in considerazione, ma sono veramente molto poche. Quando c’è una vera emergenza, ossia pochissimi minuti, qualche volta una manciata di secondi, bisogna semplificare al massimo. La difficoltà è affrontare un problema che appare molto complesso in un flash di luce: devi capire che devi entrare nella via aerea attraverso la sequenza più rapida, quella che per te, che non sei un chirurgo, è la più semplice in assoluto, ma può salvaguardare il paziente da complicanze drammatiche.

Anche con questi ragazzi ho molte gratificazioni: mi riempiono di complimenti e di affetto e questo per me è impagabile, perché capisco che quel pochissimo che so non viene perso nel nulla.

Spesso capita che uno ha delle competenze, a volte straordinarie per la sua specialità, e che tutto vada perso, venga buttato nella pattumiera: per un medico questo, in termini di etica, è inaccettabile: io so qualcosa e non lo condivido? La prima cosa che dico a tutti, studenti del primo anno o specializzandi dell’ultimo, è che il sapere, se non è condiviso, non serve a nulla. Solamente condividendolo il sapere si accresce.

L’insegnamento è stato scuola anche per me: dovendo raccontare in modo semplice cose estremamente complesse ho affinato le mie conoscenze, così come le ho affinate grazie alle domande e alle riflessioni dei miei giovani colleghi/allievi.

                                                                                                

M - “Le emozioni legate al proprio lavoro” è il tema che ho pensato per una serie di interviste che voglio realizzare. Lei ha parlato delle sue emozioni fin dall’inizio di questa chiacchierata, senza che ancora le abbia fatto una domanda specifica. Ora gliela faccio: mi parli della gioia.

P – Gioia è quando qualcuno che stava male ti sorride, ti abbraccia; sono le lacrime, sì le lacrime, dei congiunti che vedono il loro parente, che stava malissimo, riprendere vita. Questa è una gioia indescrivibile, non ci sono parole. Se il Buon Dio ci ha dato ... mi perdoni se ogni tanto mi scappa di dire “il Buon Dio”, scriva quello che vuole però io dico così per farmi capire …

M - Lo dice anche perché ci crede …

P - Mah, io non so quanto creda a quello che dico, ma, in buona sostanza, nel mio modo ci credo; un modo che magari potremmo discutere, non in modo banale, bigotto. Detto questo ringrazio per davvero il Buon Dio, di avermi dato questa possibilità, che credo sia un seme che qualcuno a sua insaputa, ha gettato e poi da questo seme è cresciuto qualcosa.

                                                                                      

M - L’opposto sarà l’emozione del dolore?

P - Sì. Il dolore è quando non ce la fai, non dormi, ti metti a piangere.

C’era un ragazza marocchina, giovanissima, aveva neanche 19 anni. Mi sono innamorato di questa ragazza, innamorato perché era una delizia, sorrideva sempre.

Ebbe un trapianto complicatissimo, perché al fegato che avevo prelevato per lei avevo procurato una lesione che complicava il trapianto. Andando a casa ho pregato sempre qualcuno di lassù che mi assistesse nel riparare il danno che avevo creato. Mi venne in aiuto un bravissimo collega libanese, parecchio più giovane di me, era un fulmine di guerra. Io ero stanco, perché avevo prelevato l’organo, lui fresco. Ci mettemmo insieme e mi dette la carica per ripararlo. L’intervento andò benissimo - ero la persona più felice di questo mondo – ma ci furono complicazioni, perché chi aveva donato il fegato era affetto da una forma molto rara di tumore cerebrale. L’anatomo patologo aveva visto questa lesione cerebrale, ma non aveva dato l’informazione in tempo utile per capire che si trattava di un tumore; sembra che addirittura abbia tenuto per 6 mesi l’esame istologico nel cassetto. La ragazza si ammalò dello stesso tumore, partito da un linfoma cerebrale del donatore. Maledimmo il nostro collega, ma il buon Dio ci venne ancora in aiuto: la nostra oncologia trovò un protocollo formidabile per curare il linfoma e la ragazza, dopo un anno di terapia, guarì perfettamente. L’abbracciavo ogni volta che la vedevo, le dicevo “tu sei un miracolo vivente”, ero diventato un suo fan, quando la vedevo mi si aprivano gli occhi, “fantastica, tu sei semplicemente fantastica”.

Tre anni dopo, in vacanza in Marocco, ebbe un incidente stradale e morì: e allora?… “qual è l’insegnamento, buon Dio?, perché io questo insegnamento non lo capisco”; è troppo difficile. È come davanti ad Auschwitz: “che cosa ci vuoi insegnare?”.

                                                                               

M - E la paura?

P - La paura? Tantissima, a tonnellate. La paura è la nostra migliore amica, è la nostra compagna, quella che ci salva la vita e la salva al paziente.

Il chirurgo che non ha paura è estremamente pericoloso; è come uno che guida un automezzo in stato di ubriachezza e va a 180, 200, 220 all’ora ed esce di strada. Se hai un compito estremamente delicato, dove si tratta della vita e della morte, e non hai paura, non sei sufficientemente preparato per il tuo compito.

Però devi essere tu a controllare lei, non lei a controllare te. Il limite, per ognuno, è quando la paura diventa incontrollabile. Spesso, arrivati a questo punto, per scaricare la tensione, i chirurghi diventano aggressivi, nei confronti degli strumentisti, nei confronti dei colleghi. Quando sei in difficoltà, la prima cosa che devi fare è capire che hai paura e cercare di non oltrepassare il limite della perdita del controllo. Anche se la tua paura è un po’ vistosa, anche se addirittura tremi, devi dirti e dire agli altri, far capire loro che sei ancora nel controllo pieno della situazione, che sei lucido.

Sono cose che ho imparato con il tempo, con l'esperienza. Non ho mai perso il controllo, ma sono arrivato al punto di capire che da lì a un momento avrei anche potuto perderlo. Pian pianino, con l’esperienza, ho imparato alla scuola di: “ho paura ma devo rimanere consapevole, devo rimane lucido, non devo permettermi di offendere il collega e di dargli una responsabilità che lui non ha e sbraitare contro di lui”. Se offendi un collega, gli fai un rimprovero, crei una situazione di tensione, lo metti in condizione di essere anche lui in tensione: è il serpente che si mangia la coda.

Questa cosa del controllo mi è rimasta anche adesso che non faccio più né prelievi, né trapianti. È stata salvifica in pronto soccorso, dove posso dire di aver evitato situazioni di dramma, anche di potenziali sparatorie, grazie alla capacità empatica di capire la situazione. Ho salvato un collega dalla morte certa da parte di un criminale, abbracciando il criminale. Ho abbracciato il papà di una bambina che stava in condizioni gravissime, un papà arabo che aveva perso la trebisonda e dava la responsabilità all’anestesista e voleva spaccare tutto con la piantana. In qualche modo ho capito che il fatto di rimanere lucidi e potenzialmente comprensivi di quello che può capitare nella perdita della lucidità dell’altro può salvarti la vita o comunque semplificartela.

M - Grazie


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