venerdì 7 marzo 2014

26 MARZO 2013. DUPLICE OMICIDIO A VERDERIO di Marco Bartesaghi


Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Archivi di Lecco", n.1, anno XXXIV, gennaio/marzo 2011.


Non tutti nella capitale
sbocciano i fiori del male
Qualche assassinio senza pretese 
lo abbiamo anche noi in paese …
F. De André, G. Brassens

26 MARZO 2013. DUPLICE OMICIDIO A VERDERIO di Marco Bartesaghi

IL FATTO
Alle 21.45 del 26 marzo 1913 Ernesta Motta s’avvede dell’abbondante fumo che esce dalla legnaia  di casa Sottocornola e dà l’allarme all’osteria del Nava (1) .
Tomaso Airoldi corre fuori, s’inoltra gridando nel vicolo di fianco alla casa in fiamme e a gran voce cerca di svegliare le abitanti, Luigia Sottocornola, la proprietaria, e Francesca Pochintesta, la domestica (2) .
Gli altri avventori dell’osteria allarmano gli abitanti della “Curt de la Palasina”, coloni della Sottocornola (3) .
Agostino Mapelli, Pietro Consonni, Luigi Arlati, contadini, Vincenzo Nava, panettiere, e Antonio Stucchi, “cursore” comunale, sono i primi ad accorrere per domare l’incendio.
Poi arrivano i pompieri, prima quelli di Verderio Inferiore, più tardi quelli di Merate, e i carabinieri, di Merate e Bernareggio.
Anche il parroco, don Casimiro De Cani, si reca sul posto e, notata l’assenza delle due donne, attraverso una persiana appena accostata s’introduce in casa per cercarle. In seguito, in una sua cronaca del fatto, scriverà che non avendole trovate al piano superiore  sospettò subito “qualche delitto”(4) .
La mattina del 27, spento l’incendio, verso le ore 6 venne trovato il corpo della Sottocornola: giaceva, in parte carbonizzato, ai piedi della scala che dalla cucina scendeva alla legnaia.

Da sinistra: Francesca Pochintesta, Luigia Sottocornola, un'amica. Da: Il Secolo 17 aprile 1913
Aperta la porta della cantina, in una macchia di sangue fu ritrovata anche la Pochintesta: era stata assassinata; su di lei si contavano 26 ferite inferte con un’ arma a punta e bitagliente. Due i colpi mortali: uno al polmone destro, l’altro alla carotide.
Anche sul corpo della Sottocornola, seppur con maggior difficoltà, si rinvennero più ferite inferte alla schiena. Due, che l’avevano raggiunta al polmone destro, erano state per lei fatali. Dell’arma nessuna traccia.
Era morto anche Bombour, il cane volpino che viveva con le due donne, soffocato dal denso fumo che aveva invaso i locali.

LE PRIME INDAGINI, I PRIMI FERMI
Scoperto il duplice omicidio, non si ebbero più dubbi sull’origine dolosa dell’incendio. Un perito (5) , incaricato dal giudice istruttore, stabilì poi che esso era stato appiccato accendendo più focolai fra la legna secca della legnaia e “il bosco per i bachi” (6) accumulato nella  tinaia, che per l’innesco, data la natura del materiale accatastato, erano bastati un po’ di carta e qualche fiammifero e che il danno ammontava a 15.965,7 lire. Secondo il perito anche una sola persona poteva essere stata in grado agevolmente di dare il via all’incendio, ma non era escluso il concorso di più complici.
Il primo sopralluogo ufficiale nella casa fu svolto dal maresciallo dei carabinieri Leonardo Fernandis. Le stanze, come già era stato notato dal parroco, erano in ordine; sulla tavola, imbandita per due persone, si trovavano tre bicchieri in cui era stato versato del vino.
Furono sequestrati due libretti di credito e denaro contante: in particolare erano in bella vista sulla credenza 25 lire in monete d’argento, che si seppe poi essere il resto lasciato la mattina stessa del delitto dal parroco a seguito di un incarico affidatogli dalla signora Sottocornola.
Due elementi importanti per le indagini furono rinvenuti sulla scrivania dello studio
.

Il "memorandum" Orobia

Il primo, un foglio con l’intestazione dell’ Azienda Elettrica Orobia di Lecco, compilato a macchina, in cui si comunicava alla signora che il latore dello stesso aveva avuto l’incarico dall’azienda di verificare la possibilità di installare nel giardino della casa due o tre pali per l’energia elettrica e di trovare in proposito un accordo con la proprietaria. Avendo, su domanda degli inquirenti, l’azienda elettrica negato di aver affidato a chicchessia quel compito, fu naturale pensare che la lettera rappresentasse il sotterfugio, ancor’oggi in voga, con cui il colpevole era riuscito a farsi accogliere in casa dalle due donne.
L’altro elemento ritrovato era una busta usata, intestata alla Sottocornola, sul cui retro era stato scritto: “Il vostro nemico nominato Verte ve la fatta on cascie via più el paisan” (7) .

Il biglietto lascito dall'assassino per "sviare"le indagini
Il messaggio risultò certamente oscuro, almeno in un primo tempo, a coloro che erano impegnati nelle indagini; un po’ meno, forse, agli abitanti di Verderio Inferiore.
Alludeva ad avvenimenti accaduti anni prima, nel 1901: a seguito di uno sciopero che aveva avuto come protagonisti i contadini della Brianza, e coinvolto quindi anche quelli di Verderio, la signora Sottocornola aveva licenziato alcuni suoi coloni che erano perciò passati alle dipendenze di altri proprietari di Verderio o avevano lasciato il paese (8). Al rancore dei licenziati si faceva risalire la causa di diversi atti di vandalismo, se non di vero e proprio sabotaggio, di cui la Sottocornola era stata successivamente vittima. Tre anni prima del delitto era avvenuto l’episodio più grave, l’incendio di un fienile, mentre solo pochi giorni prima ignoti ladri avevano rubato le scorte di fertilizzanti da un “casotto” in fondo al giardino della villa.
Alcuni testimoni parlarono dell’odio di cui la Sottocornola era vittima.
Per don Casimiro, il parroco, la causa risiedeva nel fatto che la signora era molto esigente nel far rispettare i patti agrari ed era convinto che da questo clima di odio fosse potuto scaturire il delitto, tant’è che lo suppose, come già è stato riferito, ancor prima che venisse scoperto.
Più prudente il giudizio del sindaco, Giuseppe Gallavresi (9), per il quale il sentimento provato dai contadini non li avrebbe comunque mai portati ad un simile gesto, “per la natura non sanguinaria della popolazione di Verderio”. Egli riteneva che il biglietto ritrovato fosse solo un tentativo di sviare le indagini.
Se di odio si poteva parlare nei confronti della Sottocornola, altrettanto detestata era la Pochintesta, perché, parole del parroco, “nella sua ignoranza difendeva anche troppo i diritti della padrona”.



Don Casimiro De Cani, parroco di Verderio Inferiore all'epoca dei fatti

La signora Sottocornola è consapevole del clima di astio che la circonda e si sente oppressa dai ripetuti comportamenti dolosi nei suoi confronti. In una lettera all’amica Gina Grazioli, spedita il giorno stesso del delitto, dopo aver raccontato del più recente furto  subito, scrive: “Possano le loro preghiere sventare i progetti dei ribaldi e voglia il buon Dio lenire gli affanni che sempre accompagnano questa nostra povera esistenza e far regnare nella nostra casa la tranquillità e la pace”. Furti e danneggiamenti non sono però le uniche sue preoccupazioni: a darle pensiero è anche la situazione economica. Ritenuta una benestante, è invece oberata dai debiti, le sue proprietà hanno ipoteche per un valore di 85.000 lire. A fatica riesce a far fronte al problema tanto che, nel dicembre del 1912, deve ricorrere al parroco per un prestito di 1280 lire.
Questa realtà e il non aver potuto appurare nella casa, almeno in un primo tempo, la mancanza di denaro e di oggetti di valore, indussero gli inquirenti a credere che il movente dell’assassinio fosse da ricercare, più che nella rapina, comunque non trascurata, nella vendetta. I primi indiziati furono i contadini licenziati di cui si cercò di conoscere gli spostamenti nelle ore del delitto. Baldassarre Negri, uno di loro, era sopranominato Verdé: aveva forse scritto lui il biglietto, “Il vostro nemico nominato Verte…”, autoaccusandosi del delitto? o qualcun altro, come sembrerebbe appena più logico, aveva cercato di far cadere su di lui l’attenzione degli inquirenti?
Seguendo l’altra traccia, quella della lettera della Società Orobia, si cercava intanto di dare un volto all’individuo che l’aveva consegnata. Diverse persone l’avevano notato, anche perché, forse per rendere meno sospetta la sua presenza, sembrava avesse fatto il possibile per farsi notare. Aveva addirittura dato incarico ad un giovane, Agostino Mapelli, di acquistargli una marca da bollo, lasciandogli anche una mancia di 10 centesimi.
La sera prima del delitto, verso le 18,30, Giovanni Colombo, contadino, 50 anni, aveva visto l’uomo entrare in casa della Sottocornola da una porticina, le cui chiavi erano tenute solitamente dalla signora, che dava sulla “Curt de la Palasina”. La sera successiva, più o meno alla stessa ora, lo aveva rivisto entrare in casa dalla stessa porta. Incuriosito si era avvicinato, fingendo di dover lavorare nella stalla, e l’aveva incontrato che discorreva dell’installazione di un impianto elettrico con la signora. Sul parere espresso in merito dal Colombo – “una spesa inutile” – l’uomo aveva commentato: “È un contadino, non capisce”. A questo punto il Colombo si era ritirato.
“Sembrava un esattore o meglio un mendicante,” dirà poi dello sconosciuto, “teneva un paletot lungo, era di statura circa un metro e mezzo, molto magro, teneva un fazzoletto sulla faccia come chi tenga mal di denti”. Qualche giorno dopo preciserà che il cappotto era grigio rigato, che l’uomo portava un cappello molle e una borsetta grigia a tracolla, che  il fazzoletto intorno al volto era verde a puntini bianchi; aveva capelli e baffi grigi, viso oblungo e scarno, carnagione olivastra.
 

 
Nella fotografia via Larga, ora via Roma, con a destra, in primo piano. la “Curt de la Palasina”. Tra l’angolo dell’edificio e il muro in primo piano la via che portava a casa Sottocornola.




Il 28 marzo, due giorni dopo il delitto, irrompe a Verderio Ildebrando Sottocornola, cugino di Luigia (10). Elegantemente vestito si presenta agli inquirenti inveendo contro la Pochintesta, colpevole, secondo lui, della morte della parente: è convinto infatti che non potesse essere che lei, per l’odio da cui era circondata, l’obiettivo dell’assassino (o degli assassini, come lui pensa sia più probabile), mentre la cugina era stata solo una vittima collaterale, coinvolta perché intervenuta in difesa della domestica. Ildebrando è l’unico componente della famiglia a non possedere un patrimonio, è scapolo, spesso senza lavoro, avendone cambiati diversi, e squattrinato; nel 1896 il Tribunale di Milano l’aveva condannato a 73 giorni di carcere per offesa al pudore. Sarà il primo ad essere arrestato per l’uccisione delle due donne. Si diceva infatti che lui stesso avesse avuto motivi di rancore verso la Pochintesta, nonché verso la cugina: anni prima si sarebbe messo in mente infatti di sposare quest’ultima e, rifiutato, si sarebbe convinto che la decisione di lei fosse stata influenzata dai pareri della domestica. Aveva comunque continuato a frequentare la casa della cugina, fino a una sera in cui, irritato per i comportamenti poco riguardosi nei suoi confronti, aveva spintonato bruscamente la Pochintesta, facendosi mettere definitivamente alla porta. Questi motivi e il fatto che la morte senza testamento della Sottocornola avrebbe visto Ildebrando fra gli eredi di diritto, convincono gli inquirenti di un suo possibile coinvolgimento nel reato, non tanto come esecutore, quanto come mandante. Arrestato il giorno 28, subito dopo l’interrogatorio svoltosi nella villa del delitto , il giorno successivo viene tradotto al carcere di Lecco.
Sarà liberato il 5 aprile, dopo essere stato nuovamente interrogato e sottoposto a perizia calligrafica per il biglietto trovato sulla scrivania della vittima. A suo favore valsero le testimonianze dello zio, Monsignor Bernardo Sottocornola, del cugino, don Carlo Giovanola, con il quale abitava, e del datore di lavoro, l’ingegner Annibale Dal Negro. I primi lo descrissero come persona incapace di compiere un simile atto, l’ingegnere lo scagionò innanzitutto dall’accusa di essere l’esecutore materiale del delitto, dichiarando che era presente al lavoro quando questo era stato compiuto, e lo descrisse come persona affidabile e onesta.
L’ipotesi che il furto potesse essere stato il movente del delitto riprese quota dopo che furono trovati diversi astucci portagioie vuoti. I primi ad essere indagati furono personaggi già noti alla giustizia. A Maggianico fu fermato Quirino D’Amico, operaio elettricista che in passato aveva usato lo stratagemma di farsi passare per addetto di una società elettrica per compiere una rapina; Paolo Allione, residente a Milano, fu fermato forse più per la sua professione di ambulante che per essere conosciuto come borseggiatore.
Le indagini sulle tipografie, per scoprire quale di esse avesse stampato il falso modello della Società Orobia, indurranno il Commissario di pubblica sicurezza di Lecco, Alessandro Panini Finotti, a commettere un grosso errore. Incaricato dal Prefetto di occuparsi del caso di Verderio, aveva subito deciso di seguire le tracce lasciate dal foglio dell’Orobia. Intraprese la ricerca con la convinzione che il colpevole coincidesse con la persona che l’aveva stampato: un titolare, quindi, o un dipendente di una piccola tipografia, che avesse perciò la possibilità di restare solo a compiere il lavoro. Secondo il Commissario, infatti, nessuno si sarebbe azzardato a far stampare a terzi un foglio intestato a una ditta importante come l’Orobia, per poi utilizzarlo per compiere un così eclatante delitto.
Il Commissario inizia la sua ricerca da Bergamo, dove, chiedendo informazioni su piccole tipografie dei dintorni, meglio se in direzione della Brianza, viene a sapere di una ditta a Ponte S. Pietro, vi si reca, la rintraccia: scopre che ha chiuso da pochi giorni ed era di un certo Carlo Perego, lì residente.
Le notizie che raccoglie su di lui lo convincono di aver trovato il colpevole. Carlo Perego è originario di Bernareggio, abbastanza vicino a Verderio Inferiore quindi perché potesse essere informato dei dissidi fra la Sottocornola e i suoi contadini, è oberato dai debiti e i suoi connotati corrispondono abbastanza a quelli descritti dai testimoni.
Ha traslocato da Ponte S. Pietro il giorno 25 marzo e la notte tra il 25 e il 26, quando il cane della Sottocornola ha abbaiato a lungo, non era in casa ma in viaggio per raggiungere Monza, passando per Paderno d’Adda e, perché no?, per Verderio. Anche la notte del delitto, non l’ha passata con il resto della famiglia, ch’era rimasto a casa della suocera.
Il Commissario può anche confrontare la sua calligrafia, usata per scrivere l’indirizzo nuovo su un foglio consegnato al trasportatore del mobilio, con quella del biglietto ritrovato sul luogo del delitto: naturalmente rimane “colpito dalla grande rassomiglianza che vi era tra di essi”: alcune lettere sono, secondo lui, identiche; altre non lo sono? è perché “ad arte” sono state scritte in modo diverso.
La nuova abitazione del Perego è vicina a un edificio da poco colpito da incendio? “Tale incendio destò in lui l’idea di appiccare il fuoco a Verderio per simulare la vendetta e disperdere le tracce”.
Il presunto colpevole aveva la faccia fasciata da un fazzoletto e, come avevano affermato i testimoni, si portava spesso la mano alla bocca? “Evidentemente il misterioso individuo tentava di nascondere qualche contrassegno particolare. Il Perego infatti ha per caratteristica un labbro molto sporgente”.
Ogni elemento serve a confermare il Commissario nella sua ormai certezza: “Io sono convinto che autore del delitto sia stato il solo Perego. Egli trucidò, egli incendiò, egli, ritiensi, rubò”. E convince anche Procuratore del Re e Giudice Istruttore: il 9 aprile viene emesso mandato di cattura; la notte fra il 10 e l’11 il Perego viene cercato, ma non trovato, a casa: “Ritiensi siasi dato alla latitanza …”.


LE MEMORIE DI UN DELEGATO DI PUBBLICA SICUREZZA
Ma anche la questura di Milano era stata coinvolta nelle indagini: la fonderia che produceva i caratteri usati per i falsi moduli dell’ Orobia, la Società Urania, fornì un lungo elenco di tipografie che li aveva in uso. Una sistematica ricerca permise di rintracciare quella che aveva avuto l’incarico di stamparli: la tipografia Cesare Minelli, in via Monte Napoleone 37. 






Il Delegato di P.S. Giovanni Rizzo della Regia Questura di Milano, allora incaricato delle indagini, nel 1953 raccontò in un libro pubblicato da Rizzoli i casi più importanti della sua lunga carriera: fra questi “Il Delitto di Verderio” (11). Nel libro la cattura del colpevole è decisamente più avvincente che non nei documenti ufficiali,. Vale la pena quindi di fare riferimento anche alla ricostruzione di Giovanni Rizzo, con l’avvertenza che egli sembra aver esagerato un poco, ma solo un poco, il proprio fiuto di detective.




Dal tipografo Minelli il Delegato venne a sapere che nel novembre del 1912 uno sconosciuto gli aveva commissionato 50 copie dello stampato (numero che salì poi a 100 per il rifiuto del tipografo di produrne così poche copie). “Aveva [ …] l’aria di un giovane di salute cagionevole, pallido in volto e di modi riservati”. Al momento del ritiro e del pagamento della merce, l’individuo aveva posto la firma su un documento di consegna che il Rizzo poté confrontare con la calligrafia dell’assassino: “Nessun dubbio: lo sconosciuto è l’assassino delle due donne”.
Per il racconto della cattura, cedo la parola al Delegato Rizzo.
 

Lascio la cartoleria seguito da due agenti e dai miei pensieri, senza meta. «È doloroso», dico, parlando con me stesso, «pensare che l’assassino mi è forse vicino, forse vive in questa strada o nelle strade accanto, sicuro ed indisturbato, e non poter far nulla!»
Cammino guardando i passanti e sperando di imbattermi nel viso che appare alla mia mente in tutta la sua fosca espressione.
Arrivato all’altezza di via Santo Spirito mi arresto. Guardo intorno attratto da un locale frequentatissimo, il bar Mauri. Entro spinto dal desiderio vivo di tentare ogni cosa, financo di battere di porta in porta. Devo certo essere preso, e forse trasfigurato, dal mio travaglio intimo, poiché dimentico i due agenti che mi seguono docili e discreti in attesa di ordini. Sono le ore quattro del pomeriggio, che il grande orologio del bar indica ai giocatori di bigliardo. Mi dirigo alla cassa, presso la quale siede una signora, la padrona. Accanto a lei, in piedi, è il marito.
Mi rivolgo ad essi, mi qualifico, e senza preamboli sussurro al loro orecchio una domanda che viene spontanea alle labbra:
«Frequenta il vostro bar un giovane distinto, dal viso “pallido cadaverico”?».
«Sì», risponde la padrona immediatamente, «viene tutte le sere alle undici precise e gioca al bigliardo!».
«Sapete dirmi chi è, il suo nome, il suo indirizzo?».
«No, non sappiamo … Mi pare che ieri sera un paletot è stato dimenticato nella sala da bigliardo. Deve appartenere al giovane pallido», dice la donna, il cui volto si illumina ad un tratto … «Vai a vedere nel guardaroba», aggiunge, rivolgendosi al marito.
«È un miracolo», mormoro come se parlassi a me stesso …
I due proprietari del bar hanno tutta l’aria di una coppia leale, e io sento di potermi confidare. Il padrone vola, e dopo pochi istanti è di ritorno. Ha in mano il paletot! Esamino l’indumento, infilo una mano nelle tasche e tiro fuori una cartolina illustrata. Leggo. Porta il timbro di Paderno d’Adda, il paese vicino al luogo del delitto, e l’indirizzo completo del destinatario: nome cognome e professione, via, numero e località!
 




 
La cartolina trovata nella tasca del cappotto del presunto assassino


Si tratta dell’esercente di una grande panetteria in Milano, corso Buenos Aires. Sorpresa e ammutolimento generale! Io e i miei due nuovi amici, che si dimenticano del bar, della cassa e dei loro affari, siamo presi dall’emozione. Vorrei volare con i miei uomini che aspettano sulla strada, ma la prudenza mi consiglia di avere pazienza e di operare sicuramente, lontano dall’abitazione, dove l’assassino ha forse mille occhi che scrutano. Decido di attendere le undici della notte. Dalla  soglia del bar ordino agli agenti di rimanere al loro posto. Rientro, mi adagio su di una sedia  e lì rimango senza prendere un boccone, un caffè, senza cedere alle affettuose insistenze dei padroni. Il mondo sembra non esistere per me. Vedo solo la soglia del bar e la gente che entra.
Il tempo scorre lentamente e angosciosamente. Sono le dieci. Manca solo un’ora. La padrona, incinta di otto mesi, dovrebbe lasciare la cassa al marito e andare a riposare … È presa dalla febbre anche lei. Mi è venuta vicino e vuol saper e rimanere alzata, e rimane fino all’ultimo, attratta dalla realtà che si delinea e che accenna a precipitare da un momento all’altro.
La vita nel bar si svolge normalmente, tutti ignorano, camerieri e giocatori. I clienti si avvicendano festosamente. Si avvicina l’ora. Il padrone mi assicura che saprà lui indicarmi l’uomo! L’orologio segna le 22,55. Una scena muta si svolge. Un giovane elegante senza paletot appare sulla soglia. Io mi alzo senza attendere. Gli vado incontro. Senza parlargli, toccandogli la spalla, lo invito a seguirmi. Egli intuisce. Il suo viso si imbianca funereamente. L’uomo è inebetito, sembra folgorato. Ubbidisce. Lo affido agli agenti …
 «A “San Fedele” », dico
(12).
Ho bisogno di rimanere pochi minuti con me stesso, e mi avvio a piedi, solo, respirando a larghi polmoni.
Si è fatto veramente tardi. Tutto intorno a me è silenzio e pace. Il cielo è stellato …


L’ARRESTO DI GIUSEPPE RIPAMONTI
È la notte fra il 13 e il 14 aprile 1913; l’uomo tratto in arresto si chiama Giuseppe Ripamonti, nato l’8 dicembre 1889 a Paderno d’Adda, dove il padre Francesco è panettiere
Insieme a lui viene arrestato, per presunta complicità, Paolo Picciotti, suo zio, anch’egli presente al bar.
Il tipografo Minelli, convocato immediatamente in questura riconosce “senza ombra di dubbio” nel Ripamonti la persona che gli aveva commissionato la stampa dei moduli. Dopo la sua testimonianza gli agenti si recano a casa dell’arrestato in Corso Buenos Aires. Alla moglie, Luigia Gerosa, chiedono se il marito sia mai stato elettricista o abbia lavorato per la società Orobia e se sappia di una sua ordinazione di stampati con l’intestazione di questa ditta. Alle risposte negative della donna, iniziano la perquisizione dell’appartamento. In un comodino della stanza trovano dodici copie dello stampato. La Gerosa si precipita, invano, per impossessarsene e distruggerle e per questo viene arrestata.



Giuseppe Ripamonti
La perquisizione porta al sequestro di diversi gioielli, alcuni nascosti in un armadio della stanza, altri avvolti in un pezzo di carta strappato da una copia della Gazzetta dello Sport, nella credenza in cucina. Viene trovata e sequestrata anche una polizza del Monte di Pietà, relativa ad altri gioielli.
Il giorno 19 si presenta spontaneamente in questura Luigi Molina, proprietario della panetteria che il Ripamonti ha in gestione: consegna una polizza del Monte di Pietà, che l’accusato gli ha dato per far fronte ad un debito. Il documento è relativo a oggetti preziosi che risulteranno essere molto simili ad alcuni di quelli spariti dalla casa della Sottocornola.


DIVERSE VERSIONI DEI FATTI E NUOVI ARRESTI
Nei primi interrogatori il Ripamonti protesta con forza la propria innocenza e nega risolutamente di aver ordinato la stampa dei moduli al Minelli. Dopo il ritrovamento, in casa sua, di alcune delle copie e la scoperta dei gioielli e delle polizze nascoste cambia la versione dei fatti, ma si attribuisce ancora un ruolo assolutamente marginale.


Titolo de "Il Secolo", 17 aprile 1913

Racconta di aver fatto stampare i fogli su richiesta di un conoscente, un abitante di Verderio Superiore di professione cameriere, noto con il soprannome di “Mugnon”, il quale non lo avrebbe messo al corrente delle sue losche trame. Solo dopo aver commesso il crimine, il “Mugnon”, poi identificato in Achille Ponzoni (13), si sarebbe presentato da lui raccontandogli di essere penetrato in casa della Sottocornola per commettere un furto e di essere stato costretto a uccidere le due donne perché scoperto; prima di andarsene avrebbe lasciato al Ripamonti alcuni dei gioielli rubati.
Anche questa storia non regge a lungo: il Ponzoni, che avendo saputo dai giornali di essere ricercato si è costituito spontaneamente, può dimostrare, grazie alla dichiarazione del proprietario del locale, di aver lavorato per tutto il mese di marzo, compreso il giorno del delitto, al buffet della stazione di Savona.



"Il Secolo", 18 aprile 1913

Accusato e accusatore vengono messi direttamente a confronto: il Ripamonti si rende conto che Ponzoni ha un validissimo alibi e quindi, nuovamente, racconta una storia diversa. Questa volta ammette di aver partecipato al delitto, ma come complice di altre tre persone, tutte di Paderno d’Adda: Annibale Ripamonti, 23 anni, sellaio, suo zio; Giuseppe Viganò, 24 anni, meccanico; Angelo Buratti, 29 anni, oste.
Quest’ultimo, nel novembre 1912, avrebbe dormito per due o tre notti a casa sua a Milano e dopo aver cercato di coinvolgerlo nel progetto di far assassinare l’ing. Musatti, direttore della centrale Edison in riva all’Adda, colpevole di voler far chiudere a suo padre Pompeo l’osteria che gestiva in un cantiere presso la centrale, lo avrebbe convinto a partecipare al furto in casa Sottocornola, suggeritogli dal Baldassarre Negri, il “Verdé” già incontrato in questa storia. Avendo il Ripamonti accettato, gli sarebbe stato affidato il compito di procurare i moduli dell’Orobia.
Secondo il racconto del Ripamonti, il 25 marzo, vigilia del delitto, Annibale si era presentato alla Sottocornola con la lettera dell’Orobia, allo scopo di entrare in casa per conoscere l’ubicazione dei locali. La sera dopo Giuseppe Ripamonti e il Buratti erano restati di guardia all’esterno della casa, Viganò e Annibale Ripamonti erano entrati. Quest’ultimo aveva il coltello che portava sempre con sé. Dopo poco più di un’ora avevano lasciato la casa, si erano riuniti ai compagni e, trafelati, avevano raccontato loro che Annibale era stato costretto a colpire le due donne con il coltello, perché li avevano scoperti mentre rubavano nelle stanze.
Il sabato successivo, 29 marzo, Ripamonti sarebbe stato raggiunto a Milano dai soci, venuti in città con la scusa di accompagnare un amico, Arnaldo Ponzoni, alla punzonatura della bicicletta per la corsa ciclistica Milano – Sanremo. I tre lo avrebbero messo al corrente di un alibi da loro elaborato e gli avrebbero consegnato la sua parte dello scarso bottino frutto dell’impresa.



"Il Resegone", 18 aprile 1913
Agli inquirenti, propensi a credere che il delitto fosse stato commesso da più persone, le dichiarazioni di Giuseppe Ripamonti, rilasciate il 18 aprile, sembrarono convincenti. Il giorno 19 furono arrestati a Paderno d’Adda Annibale Ripamonti e Giuseppe Viganò e a Imbersago, dove era fuggito (così dice il verbale), Angelo Buratti; il 23 aprile i tre vennero denunciati, insieme a Giuseppe, per il duplice omicidio, che si riteneva fosse stato premeditato. Luigia Gerosa, la moglie di Giuseppe Ripamonti, e Paolo Picciotti, lo zio presente al bar la notte dell’arresto, furono accusati di favoreggiamento, Baldassarre Negri, “Verdé”, di complicità.
Buratti, Viganò e Annibale Ripamonti negarono con forza di aver partecipato ai fatti, ma non avevano un alibi che li potesse scagionare. Viganò e Ripamonti, verso le 16.00 del giorno del delitto si erano recati, con altre persone, da un frate a Baccanello (14) per confessarsi (la Pasqua era passata da soli due giorni), ma alle 18.00 erano già tornati a Paderno e, a loro dire, si erano coricati poco dopo aver desinato. Buratti aveva trascorso il pomeriggio nella cantina della sua osteria a imbottigliare il vino ed era stato visto, ma solo verso le 20, dal capo mastro Luigi Picciotti
La loro situazione migliorò nei giorni successivi all’arresto dopo i drammatici confronti con Giuseppe Ripamonti a cui ognuno di loro si dovette sottoporre: il principale imputato ribadì punto per punto la sua versione dei fatti, ma non aggiunse niente che potesse supportare le sue accuse. Inoltre i testimoni di Verderio Inferiore, Giovanni Colombo e Rodolfa Mapelli, seppur con qualche tentennamento iniziale, riconobbero in Giuseppe sia colui che la sera stessa del delitto e quella prima aveva parlato in cortile con la Sottocornola, sia l’uomo che nel pomeriggio precedente al fatto “gironzolava per la strada guardando anche nell’interno del cancello della casa”.
Anche la perizia calligrafica, che aveva confrontato campioni di scrittura degli accusati con i fogli trovati sul luogo del delitto, fu sfavorevole a Giuseppe Ripamonti, riconosciuto come autore sia del biglietto con cui era stato coinvolto Baldassarre Negri, “Verdé”, sia del modulo dell’azienda Orobia (15).



UNA CONFESSIONE CON MOLTE RISERVE

Il 28 maggio alle ore 11 nel carcere di Lecco dove è detenuto, durante un “commovente e lungo” colloquio con il padre Francesco e davanti all’autorità giudiziaria, Giuseppe Ripamonti, in lacrime, confessa di essere stato lui solo a commettere i delitti di omicidio e furto; afferma di essersi deciso a parlare per il rimorso di aver accusato gli amici e coinvolto la moglie e lo zio Paolo Picciotti, persone innocenti. Nega però di aver dato volontariamente fuoco alla casa, affermando che l’incendio era stato appiccato casualmente da alcune candele abbandonate accese nella tinaia e nella legnaia.
 



Invitato a ricostruire con esattezza l’accaduto, il suo racconto inizia ancora una volta dall’incontro a Milano, nel novembre del 1912, con Angelo Buratti. Questi gli aveva parlato della voglia che aveva  di vendicarsi del direttore della società Edison gettandolo nell’Adda e dell’ipotesi di fare “un bel colpo”, ai danni della Edison stessa, magari travestendosi da elettricista. Gli aveva raccontato anche che Baldassarre Negri aveva dato fuoco alla casa di una “danarosa” signora di Verderio Inferiore, la Sottocornola, con la speranza che rimanesse bruciata nel suo letto.
Rimuginando su queste parole il Ripamonti aveva deciso di elaborare un piano e di compiere lui stesso il colpo: conosceva la Sottocornola e la sua casa per esservisi recato spesso da ragazzo, con il padre, ad acquistare la farina per il prestino di Paderno.
Perché un furto? Per bisogno di denaro, aveva molti debiti. avendo acquistato il negozio di via Buenos Aires da pochi mesi. Il precedente, in via Paisiello, era bruciato e dall’assicurazione aveva ricavato solo 3600 lire: per il negozio nuovo gliene mancavano ancora 3500 e altre 1000 gli servivano per saldare i debiti con i fornitori di farina.

Ripamonti confessa le proprie responsabilità avendo cura di renderle più “leggere” agli occhi dei giudici, cercando cioè di far cadere l’ipotesi della premeditazione. La decisione di uccidere, dice, era maturata quando aveva capito che le due donne si erano insospettite del suo comportamento e la Pochintesta si era avviata a chiedere aiuto a qualche contadino; per far credere inoltre di essere giunto sul posto disarmato afferma di aver usato, come arma, un coltello preso dalla cucina della vittima.
Un coltello da cucina era stato rinvenuto, fra le macerie provocate dalle fiamme, durante il primo sopralluogo sulla scena del delitto. Vicino era stato trovato uno straccio bianco sporco di macchie indefinite, che lasciavano supporre potesse essere stato utilizzato per ripulire il coltello. Le analisi effettuate sui due oggetti avevano però escluso la presenza di tracce di sangue e le caratteristiche del coltello si erano dimostrate incompatibili con quelle delle ferite sui corpi delle vittime.
 


"Il Secolo", 8 giugno 1913

Gli inquirenti non abbandonano l’ipotesi della premeditazione, ma il fatto che non sia stata ritrovata l’arma del delitto rappresenta per loro un’oggettiva difficoltà che si risolve solo quando, il 9 agosto, nella cantina del negozio che era stato del Ripamonti, da sotto il mucchio della carbonella, affiora un fagotto contenente indumenti, fra cui un paio di pantaloni con macchie di sangue e di cera, un pugnale con la punta rotta, anch’esso sporco di sangue, un fazzoletto verde “con cerchietti bianchi”, una borsa di cuoio rettangolare contenente alcuni “memorandum” della società Orobia - altri erano in una tasca dei pantaloni -, un cappello “color oliva, alla tirolese”, una barba finta nuova. Era stato Angelo Pirotta, garzone al servizio di Giuseppe Ripamonti e poi del nuovo proprietario, Ambrogio Colombo, a trovare il fagotto. Angelo era già stato interrogato nei mesi precedenti e aveva dichiarato, e lo aveva sostenuto anche in un confronto diretto, che l’accusato teneva in un cassetto del negozio uno stiletto a lama bitagliente, a punta e con manico fisso, il tipo di arma che gli inquirenti cercavano.
Il 26 novembre 1913 il Procuratore Generale del Re in Milano formula, in ordine di gravità, le accuse contro Giuseppe Ripamonti. Egli deve essere processato per aver ucciso con premeditazione, allo scopo di occultare il furto commesso e di ottenere l’impunità, Luigia Sottocornola e Francesca Pochintesta; per essersi impossessato, allo scopo di trarne profitto, di denaro e oggetti preziosi; per aver appiccato il fuoco al deposito della legna e all’edificio rustico; per aver calunniato Annibale Ripamonti, Angelo Buratti e Giuseppe Viganò; per aver simulato tracce e indizi dei delitti di omicidio allo scopo di far ricadere i sospetti su Baldassarre Negri; per aver portato fuori dalla propria abitazione, di notte, in luoghi abitati, un coltello a lama fissa, oggetto considerato arma insidiosa (16).


UNA VITA DISGRAZIATA

Chi è Giuseppe Ripamonti, l’uomo che a 23 anni rischia una condanna all’ergastolo, pena prevista per la prima imputazione?
A Paderno lo considerano uno scansafatiche. Per ottenere la licenza elementare, alle scuole del paese, ha avuto bisogno di un paio di anni in più di quelli previsti.
Dopo la scuola lavora per un periodo con il padre, che ha un forno, il più importante del paese, e un negozio di pane e pasta in via Maggiore 33 e un altro negozio, per la vendita degli stessi prodotti, al n. 10 della stessa via; poi si trasferisce a Milano dove fa il garzone di fornaio.
Dimostra anche al lavoro scarsa volontà e impegno: è più interessato allo sport, soprattutto il ciclismo, e ai divertimenti; si veste elegantemente e a Milano ha un’amante, una prostituta di nome Bice.
Dopo il suo ritorno a Paderno, nel 1910, viene arrestato per un furto di 1700 lire all’ufficio postale: gli indizi contro di lui non bastano però a condannarlo e viene assolto per insufficienza di prove.
Si sposa nel 1912, gli nasce un figlio, torna a Milano e, con i soldi portati in dote dalla moglie e altri prestatigli dal padre, acquista un prestino in via Paisiello, poi distrutto da un incendio che gli frutterà il rimborso dell’assicurazione con il quale acquisterà il negozio con forno in corso Buenos Aires. 



Giuseppe Ripamonti


La salute cagionevole e le malattie contratte nell’infanzia e in età adulta verranno utilizzate dalla difesa per giustificare in parte il suo  comportamento e ottenere attenuanti al processo Da piccolo sarebbe stato malato di tifo e di meningite, anche se nessun medico che lo ha avuto in cura lo ricorda. Verso i 20 – 21 anni è colpito da emottisi, che gli provoca diversi episodi di “vomito sanguigno” e fa temere per la sua vita: per questo lascia il lavoro e abbandona anche la bicicletta. Le cure però lo guariscono o comunque relegano la malattia in uno stato latente che gli permette di vivere normalmente.
Di carattere chiuso e taciturno, soffre di fenomeni depressivi che gli fanno desiderare la morte, tanto da chiedere aiuto, per ottenerla, ai suoi medici e da tentare per ben tre volte il suicidio.





I dottori Attilio Nitti e Carlo Momo, psichiatri che avevano avuto l’incarico dal giudice di osservare l’imputato per stabilire se al momento del delitto potesse essere considerato responsabile delle sue azioni, lo descrivono come individuo di ottima intelligenza, rapportata al suo grado di cultura, con perfette capacità di ideazione e ottima memoria e considerano pertanto “sotto ogni rapporto integra la sfera intellettiva”. Essi ritengono che il delitto, nei tre stadi della preparazione, dell’esecuzione e dell’occultamento delle prove, sia stato realizzato con abilità, con astuzia e con freddo calcolo di cui è prova il biglietto lasciato sul luogo del delitto, in cui non appare traccia di tremore. Questo giudizio, secondo i due medici, non è inficiato dall’unico suo errore, seppure grave perché condurrà gli investigatori sulla giusta pista: l’aver lasciato nella casa della Sottocornola il finto stampato dell’Orobia.
Ripamonti è un bugiardo, affermano Nitti e Momo, che mente spudoratamente, sapendo di farlo, e che non retrocede dalle sue menzogne se non ha la certezza di essere stato smascherato; un violento e prepotente, nascosto dietro un carattere ombroso; un cinico sempre padrone di sé e delle sue azioni. I due periti pensano che anche i tentativi di suicidio possano essere stati simulati per ottenere dai famigliari soddisfazione per i suoi desideri.
In tutta la documentazione consultata, nei verbali di interrogatorio, nelle lettere, ufficiali e clandestine, ai suoi famigliari non c’è una parola di commiserazione per le vittime. Nel suo egocentrismo, considera vittima solo se stesso: “ Voglio farvi sentire la mia sofferenza, lo stato che sono caduto. Non avrei pensato che io dovessi essere venuto a finire la mia vita in carcere”, lettera al suocero, 6 giugno 1913; “piango i miei giorni la mia vita così amara per me dove non o potuto godere della felicità che tanti anno potuto avere”, lettera a una cugina, 18 giugno 1913.
E per questa sua vita disgraziata c’è, a suo avviso, anche una colpevole, la moglie: “Gina non volle obbedirmi e venire a casa mia ed io per poterla sposare o abbandonato i miei genitori per cadere in questo baratro per sempre …”, scrive nella lettera al suocero già citata, e in quella alla cugina “ quanti dispiaceri incontrai nella vita per aver troppo amato una ragazza che poi doveva essere la mia rovina”.



UN PROGETTO DI FUGA

Alla moglie però chiede aiuto per un suo progetto di fuga dal carcere di Lecco dove è rinchiuso, lusingandola con la promessa di ritornare alla vita di prima: “appena fuggito mi rinchiuderò in un posto da non potermi più riprendere e godere ancora con te quella vita a me così cara”. Pretende l’aiuto come dimostrazione d’amore: “se mi vuoi ancora bene mi dovrai aiutare”, e, a mo’ di ricatto morale, presenta il suicidio come unica alternativa alla fuga: “io non posso cara Gina continuare questa vita così orribile, perché in me sono due pensieri: il suicidio o la fuga”.
Il suo piano, per il quale ha un complice, prevede il taglio delle sbarre di ferro della finestra e la fuga attraverso i tetti: una cosa semplice, a suo avviso, per la quale gli mancano solo gli arnesi. Il suo socio li ha già, avendoglieli procurati la sorella, lui li pretende da Gina.
Ha bisogno di un “reseghino… piccolo, ma non piccolo piccolo” con 6 lame di ricambio. Gina li deve comperare, o meglio farli comperare dall’amica Carmela Villa (“che mi ha sempre aiutato, e anche ora mi aiuterà”), a Monza o a Bergamo o a Vimercate. Poi glieli porterà durante un colloquio: le lame dovrà metterle in una bottiglia di vetro scuro, piena di vino rosso; il telaio dovrà nasconderlo sotto la gonna: durante l’incontro si recherà in bagno e lo lascerà nella vaschetta dell’acqua. Lui avrebbe poi pensato a come recuperarlo. Gina era disposta a collaborare? Se sì, gli avrebbe dovuto inviare un espresso con la seguente frase: “Verrò a Lecco e porterò con me il nostro bambino così lo bacerai”  Se no, la frase convenuta sarebbe stata: “Non posso portare nostro figlio perché è ammalato”.
La posta che partiva dal carcere veniva aperta e controllata. Questa lettera a Gina sarebbe quindi dovuta uscire clandestinamente: qualcosa evidentemente andò storto e fu scoperta, tant’è che si trova fra gli atti del processo. Il piano di fuga fu comunque tentato e, come si vedrà più avanti, ebbe un epilogo “bizzarro”.


UN TENTATIVO, VERO O FALSO, DI SUICIDIO. LE CARTE DELLA DIFESA

La data d’inizio del processo viene fissata per il 17 marzo 1914, nella prima sessione della Corte d’Assise di Como.
Nella notte tra il 14 e il 15 marzo, verso le ore tre, i compagni di cella del Ripamonti, svegliati da insoliti rumori, lo trovano appeso al cardine di una finestra, con un laccio di stoffa, ricavato da una camicia o da un asciugamano, intorno al collo. È vivo; insieme alle guardie lo soccorrono e lo portano in infermeria. Quando si riprende viene interrogato: non ricorda, dice, di aver tentato il suicidio. Racconta di soffrire di epilessia e di essere incosciente durante le crisi che questa malattia gli provoca.
Era stata l’équipe di psichiatri proposti dalla difesa, il dottor Dario Valtorta e la dottoressa Lia Noseda, figlia del difensore del Ripamonti, avvocato Angelo Noseda, a ipotizzare che le crisi convulsive a cui l’imputato sarebbe stato soggetto (non riscontrate però da nessuno dei medici che l’aveva avuto in cura), così come i tentativi di suicidio e gli episodi di violenza contro le cose di cui c’erano state testimonianze, fossero stati “i primi albori”, sono le loro parole, della “pazzia epilettica”, malattia che a loro avviso poteva aver spinto il Ripamonti al duplice omicidio : “..soltanto la epilessia può metter capo in pochi minuti ad una sintesi così spaventosamente antisociale, alimentando idee criminose, reggendone l’esecuzione, provocando l’esplosione di stati vertiginosi – vera quintessenza della pazzia – con impulsioni sanguinarie, necrofiliache, incendiarie, fulminee, feroci, violentissime”. I due periti avevano affermato inoltre che nei malati di epilessia il ricordo dei fatti commessi può mancare del tutto o essere preciso in un primo momento e poi dissiparsi oppure, ancora, “insorgere ed integrarsi a poco a poco; può mostrarsi pressoché fedele sin dall’inizio del risveglio e tale persistere”. I due medici terminavano la loro relazione affermando la necessità di un periodo più lungo di osservazione da effettuarsi presso un ospedale psichiatrico. Il tentativo di suicidio alla vigilia del processo sembra tagliato su misura per rinforzare l’ipotesi espressa dai due periti e fatta propria, ovviamente, dalla difesa dell’imputato.
Ma il medico del carcere che per primo visita il Ripamonti nota che il segno rosso provocato dal laccio si interrompe, sul davanti, per circa quattro centimetri, come se il “suicida” si fosse appeso per la parte posteriore del collo, metodo utilizzato solitamente quando il suicidio lo si vuole solo simulare
Il dubbio che si sia trattato di un falso tentativo di uccidersi lo insinua anche il Procuratore del Re nella sua relazione sul fatto al Presidente della Corte d’Assise di Como. Egli pensa che la messinscena sia servita al Ripamonti per addurre la presunta epilessia come causa dei suoi comportamenti in mancanza di coscienza, per i quali quindi non potrebbe essere considerato responsabile. 




 


 
Dalla perizia psichiatrica dei dottori Momo e Nitti

L’avvenimento comunque fa rinviare il processo, poiché la difesa dell’imputato chiede, e ottiene, che venga sottoposto di nuovo a perizia psichiatrica. Il Ripamonti lascia il carcere e viene trasferito al manicomio di Mombello, dove è tenuto sotto osservazione dal dottor Momo, incaricato dal Tribunale, e dal dottor Valtorta, indicato dalla difesa.
La relazione del primo non si discosta da quella che lui stesso aveva elaborato  in precedenza insieme al dottor Nitti: il tentativo di suicidio, o meglio, come lui pensa, la sua simulazione non fa che rinforzarlo nel suo giudizio che il Ripamonti sia un impostore e simulatore, perfettamente cosciente delle sue azioni.
Il Valtorta affronta l’analisi del Ripamonti ponendosi due domande: è un criminale o un folle? il suo delitto ha caratteri delinquenziali o pazzeschi? Abbraccia la seconda ipotesi, a cui giunge dopo aver evidenziato, dell’imputato, il “tipo somatico” e l’aspetto psicologico e comportamentale, concludendo che “La responsabilità penale di Giuseppe Ripamonti deve ritenersi diminuita ai sensi dell’art. 47 del codice di P.P.”.
Interessanti le sue considerazioni sul “tipo somatico” in quanto testimonianza del periodo storico in cui si svolgono i fatti, quando l’antropologia criminale si basava su teorie il cui massimo esponente era Cesare Lombroso. Si legge infatti che “… il tipo somatico dell’omicida, [...] lo troviamo nell’individuo dalla statura alta, dallo sviluppo muscolare robusto, dalla faccia a prominenze ossee dalla mandibola grossa”. Ancora, più avanti: “Nei violenti noi troviamo il tipo somatico a torace ampio, cuore grande, addome esteso, caratteri atavici ed atipici”. Caratteristiche opposte a quelle del Ripamonti, che rientrerebbe invece nella categoria dei criminali non – violenti, ladri, borsaioli ecc., riconoscibili “dal torace stretto, cuore piccolo, caratteri degenerativi e morbosi”. Come si spiega allora che  questo “non – violento” aveva ucciso brutalmente due donne? “… Se gravi reati contro le persone si osservano in individui con costituzione somatica debole, l’esperienza dimostra spesso l’intervento di coefficienti di ben altra natura, di impulsività morbose, per lo più di natura epilettica”. Così è provata , secondo il Valtorta, la natura “pazzesca” dell’assassinio delle due donne e di conseguenza una certa irresponsabilità dell’ esecutore.


 IL PROCESSO

Il processo ha inizio alle ore 10.00 del 31 luglio 1914, presso la Corte d’Assise di Como, presieduta dal cavalier Vittorio Pasini. Luigi Mellini è il Pubblico Ministero. L’imputato è difeso dagli avvocati Angelo Noseda e Rinaldo De Grandi. Di lui il cronista de “Il Resegone” dice: “…è una figura giovanile, non volgare né segnata dalle stimmate esteriori del delinquente. Appena entrato nella gabbia si siede e si copre la faccia con le mani tenendosi un fazzoletto bianco contro gli occhi” (17).
 

 
Corriere della Sera, 2 agosto 1914


Gli eredi Sottocornola sono assistiti dall’avvocato Pirani. Angelo Buratti, Giuseppe Viganò e Annibale Ripamonti, anch’essi parte lesa, sono rappresentati dall’avvocato Beltramini e da un altro avvocato. Si sono costituiti parte civile e questo fatto provoca la rabbia dell’imputato, che il 4 agosto, quando i tre vengono interrogati, ritratta la sua confessione e addirittura torna a sostenere, ma senza successo, la versione precedente, in cui aveva dichiarato che essi erano stati suoi complici e, in particolare, che suo zio Annibale aveva commesso il duplice omicidio.
Su richiesta della giuria, il giorno 5 agosto il processo si trasferisce a Verderio Inferiore, per un sopralluogo nella casa del delitto. Ad attendere il Ripamonti a Verderio c’è una folla di quasi duemila persone, che lo accoglie al grido di “assassino, assassino”.
 

 
Il Secolo, 4 agosto 1914


Durante il sopralluogo l’imputato racconta – senza “un tremito nella voce”“un singhiozzo” - lo svolgimento dei fatti, senza più menzionare le tre persone in precedenza coinvolte. Il giudice ha in programma anche di interrogare sul posto i testimoni previsti per quella giornata, tutti residenti in paese, ma le manifestazioni ostili all’imputato, che si stanno svolgendo davanti a casa Sottocornola e che fanno temere che qualcosa di grave possa accadere, lo inducono a rinviare gli interrogatori al pomeriggio presso la pretura di Merate.
Il Ripamonti, terminato il sopralluogo, riesce a fatica a salire sulla carrozza, poiché i manifestanti cercano di impedirglielo e imprecano contro lui e il suo avvocato e, quando la vettura parte al galoppo, la inseguono urlando.
 

 
Corriere della Sera, 5 agosto 1914


Il giorno successivo, Pirani, avvocato della famiglia Sottocornola, chiede che vengano interrogati i carabinieri che avevano scortato il Ripamonti nella trasferta a Verderio. A loro, quando la carrozza era inseguita dalla gente del paese, l’imputato aveva infatti confidato di aver dovuto uccidere le due donne per paura che riuscissero ad allarmare i paesani che lui conosceva come “facili a passare alle vie di fatto”.
Il 10 agosto, alle ore 20.00, il Presidente della Corte d’Assise legge la sentenza. La giuria ha condannato Giuseppe Ripamonti a 30 anni di carcere per ognuno degli omicidi, 8 per il furto, 7 per l’incendio, 8 e 4 mesi per calunnia, 6 e 8 mesi per simulazione di reato, 1 per porto abusivo d’armi: in tutto 91 anni di carcere. Ne avrebbe dovuti scontare però solo 30, la pena massima prevista dall’articolo 68 del Codice Penale.
Appellandosi ad un presunto vizio di procedura, relativo all’accusa di calunnia, la difesa del condannato fa ricorso alla Corte di Cassazione, chiedendo la cancellazione dell’intero giudizio o almeno della sentenza. Il 17 ottobre 1914 la Corte respinge la richiesta.


 LA STAMPA, LOCALE E NON SOLO

Il settimanale cattolico lecchese “Il Resegone”, attento fin dall’inizio al caso di Verderio, il 5 settembre tornò a parlare del Ripamonti. Rivelò che era stato trasferito dal carcere di Como ad “un penitenziario”, poiché il Procuratore del Re, cav. Mellini, in visita alla sua cella, aveva trovato due sbarre segate. Perquisito il prigioniero, nelle suole delle scarpe  gli furono trovate alcune lame da traforo. Il Ripamonti confessò che quello non era stato il suo primo tentativo di fuga: già aveva tagliato le sbarre della cella in cui si trovava prima del trasferimento al manicomio di Mombello. Gli investigatori collegarono queste  dichiarazioni a un fatto avvenuto il 25 maggio di quell’anno: dal carcere di Como erano evasi due prigionieri; uno non era più stato ripreso e pare fosse riuscito a fuggire in America; l’altro, catturato dopo un mese di latitanza, aveva dichiarato che né lui né il suo socio avevano dovuto segare le sbarre, avendole trovate già tagliate da qualche loro predecessore.

“Il Resegone” per almeno 19 volte affrontò l’argomento del delitto di Verderio: con articoli più o meno ampi, tenne informati i suoi lettori sugli sviluppi dell’inchiesta. Il resoconto, molto dettagliato, che il giornale dedicò al processo così chiudeva:
“E così è finito uno dei più clamorosi processi che si siano svolti in Italia nell’anno volgente, e che per l’efferatezza del delitto, e malgrado dei gravi avvenimenti odierni, aveva suscitato il più vivo interessamento anche fuori della nostra Provincia”.
Il clamore suscitato dal crimine è testimoniato dall’interesse che provocò sulla stampa, non soltanto locale. Il Corriere della Sera tornò sulla vicenda per ben 20 volte, pubblicando un articolo in occasione di ogni fatto nuovo che si verificava nell’inchiesta. La Stampa, di Torino, non diede la notizia del delitto quando avvenne, ma seguì puntualmente il caso a partire dall’arresto del Ripamonti, dedicandogli in tutto una dozzina di articoli.


REAZIONI E NARRAZIONI IN PAESE

I più impressionati dall’episodio furono naturalmente gli abitanti di Verderio Inferiore, alcuni dei quali dovettero subire anche il torto di essere fra i primi sospettati e indagati. La rabbia, come abbiamo visto, si manifestò durante la seduta del processo che si svolse in paese. Il desiderio che il colpevole venisse severamente punito dalla giustizia fu espresso, in un modo che provocò l’ilarità del pubblico presente, da un testimone locale, Giovanni Colombo, che alla fine della sua deposizione, al momento di allontanarsi, si rivolse alla giuria dicendo: “Buon giorno giovanotti: vi raccomando: condannate come si conviene” (18).
Il ricordo del delitto fu tenuto vivo in paese anche dal passaggio periodico di uno o forse più cantastorie. Già nel 1913 circolava in paese un foglio con la seguente intestazione :


ORRIBILE DELITTO
DI
VERDERIO (Lecco)
DUE DONNE
barbaramente assassinate
Descrizione in versi di DOMENICO SCOTUZZI
-    Cantastorie –

 

Il foglio è stato stampato nel 1913 a Milano dalla tipografia Ranzini di via S. Sisto n.4. Il testo di Domenico Scotuzzi, composto da dieci sestine, così comincia: “Sentite o buona gente il gran delitto / Commesso da un birbante un dì a Verderio, / Ed ora l’assassin piange pentito / nella prigion il caso suo ben serio, / Or la Giustizia scoperto ha già il mister / E l’assassino e complici andranno prigionier”; descrive poi sommariamente i fatti e termina con un’esortazione ai giovani a non lasciarsi indurre in tentazione e a rispettare “la roba altrui” poiché “Questo è il dovere di tutte le persone / La vita è sacra a tutti o miei lettor / ed il delitto piomba tutti nel disonor” (19).

Il cantastorie Domenico Scotuzzi in una fotografia della prima metà del novecento. Archivio A.I.C.A./De Antiquis

Il signor Alessandro Comi di Verderio Inferiore, nato nel 1928, ricorda ancor oggi la presenza di un cantastorie che negli anni trenta del novecento girava settimanalmente per i cortili del paese radunando bambini e adulti ad ascoltare i suoi racconti accompagnati con la fisarmonica suonata ad orecchio: “Si spostava con la carrozzella perché privo di gambe. Rientrava nella categoria dei ‘puerett’, che giravano per il paese chiedendo l’elemosina.[…]  A Verderio ricordava a tutti le vicende di quel delitto così efferato. In realtà non ce n’era davvero bisogno: era ancora molto vivo nella memoria di adulti e anziani quanto era successo e, soprattutto, il pericolo che essi avevano corso quando le autorità impotenti, cercando di spaventare gli eventuali omertosi, avevano minacciato di incarcerare i capifamiglia a turno per un mese se non si fossero trovati i colpevoli. Anche noi bambini così ascoltavamo quella storia a tinte fosche, recitata con un certo pathos. Una delle scene più vive nella nostra immaginazione infantile era di certo quella delle ventidue coltellate inferte alla domestica in cantina” (20).
Anche la signora Antonia Origo, nata nel 1946, da sempre abitante della “Curt de la Palasina”, che del delitto sa quello che le raccontava il nonno contadino nelle sere d’inverno, ha presente il particolare delle minacce delle forze dell’ordine per ottenere il nome del colpevole. In più il nonno le parlava di un intervento quasi profetico del parroco, don Casimiro De Cani, “ul cüratin vecc”, che ai contadini preoccupati rispondeva: “Cuiuni de cuiuni!” – pare fosse una sua tipica espressione – “Sti tranquei che vedarì ch’entru ‘na setimana el culpevul el vegnarà foeura”, cosa che poi puntualmente si sarebbe verificata. Vivo è anche il ricordo, nella signora Antonia, del sentimento di paura che da bambina, e non solo, provava nel salire dalla cucina, in cortile, alla camera da letto, al primo piano, dovendo passare davanti alla “porticina” del locale dove una quarantina di anni prima era avvenuto il delitto. Negli anni cinquanta del novecento si era invece probabilmente già persa la tradizione del cantastorie, dei cui passaggi nelle corti la signora Antonia non ha alcun ricordo (21) .


LA MORTE IN CARCERE

Giuseppe Ripamonti morì il 14 dicembre 1924 nel carcere di Alghero, in Sardegna dove scontava la sua pena (22). Il parroco, don Casimiro De Cani, annotando della morte nel Liber Cronicus, terminava la sua cronaca chiedendosi se il condannato, all’ospedale dove era stato trasferito dal carcere e dove era deceduto, avesse “pianto il suo delitto, chiedendo a Dio il perdono” (23).


NOTE

(1)  Cfr. F5 nell’elenco delle fonti (quando non diversamente specificato, le informazioni contenute nell’articolo provengono da questa fonte). L’ “osteria del Nava” si trovava dove oggi c’è l’omonimo panificio, in via Tre Re n.7 a Verderio Inferiore.

(2)  Luigia Sottocornola di Luigi ed Emilia Rizzi, 59 anni, nubile, nata a Milano. Francesca Pochintesta di Bartolomeo, 53 anni, nubile, nata a Pianella Val Tidone, Piacenza. Cfr. F3 nell’elenco delle fonti.
Nel 1879, alla morte del padre, Luigia Sottocornola era subentrata a lui come proprietaria dei beni che la famiglia possedeva a Verderio Inferiore.

(3)  La “curt de la Palasina” è la corte al numero 15 di via Roma a Verderio Inferiore. Come“Palasina” è ancora oggi conosciuta la casa dove fu commesso il duplice delitto, alla quale la corte era legata per la comune proprietà. Il termine “Palasina” la distingueva dalla casa della famiglia Annoni, conosciuta come “Palas”.

(4)  Cfr. F1 nell’elenco delle fonti. Don Casimiro De Cani (1863 – 1954) è stato parroco di Verderio Inferiore dal 1909 al 1939.

(5)  Come perito era stato designato il geometra Luigi Martelli di Acquate sopra  Lecco.

(6)  I “Boschi dei bachi” erano gli intrecci di rami secchi, in particolare di ravizzone, “ravisciun”, che i contadini predisponevano affinché i bachi da seta vi si attaccassero per costruire il bozzolo.

(7)  “Il vostro nemico nominato Verdé ve l’ha fatta, non caccerete più via i contadini”.

(8)  Sugli scioperi contadini del 1901 notizie in Virginio Longoni, Imbersago – il fiume, le torri, le chiese, le ville nella storia di Imbersago, Missaglia, 2002, pp.245 - 247.

(9)  Giuseppe Gallavresi  (1879 – 1937), storico, docente presso la R. Università di Milano, fu il primo sindaco di Verderio Inferiore dopo la separazione da Verderio Superiore avvenuta nel 1905.

(10)  Ildebrando Sottocornola, nato a Milano nel 1861, era cugino della vittima in quanto figlio di Giuseppe, fratello del padre di lei, Luigi.

(11)  Cfr F6 nell’elenco delle fonti. Giovanni Rizzo, di Messina , aveva 28 anni al momento del processo ed era Delegato di P.S. presso la Questura di Milano.

(12)  In piazza S. Fedele c’era la sede della Questura di Milano.

(13)  Achille Ponzoni, che aveva allora 24 anni, era reduce dalla guerra di Libia. Quattro sue lettere, inviate dalla Libia a Vittorio Gnecchi Ruscone, sono conservate nell’Archivio Storico di Verderio e due di esse sono state pubblicate sul sito del comune di Verderio Superiore sotto la voce Archivio in Web.

(14)  Baccanello è una frazione del comune di Calusco d’Adda (BG) in cui sorge un convento francescano.

(15)  La perizia calligrafica fu svolta dai professori Enrico Agnelli e Vincenzo Marazzi.

(16)  Gli articoli del codice penale allora in vigore, a cui le imputazioni facevano riferimento, vengono qui di seguito elencati nello stesso ordine utilizzato nel testo per le imputazioni  : artt. 364 – 366; 402 – 404; 300; 212 – 213; 464 – 469 – 470.

(17)  Cfr. F4 nell’elenco delle fonti: questo e i successivi corsivi riguardanti il processo provengono da questa fonte.

(18)  Cfr. F4 nell’elenco delle fonti.

(19)  Sul cantastorie Domenico Scotuzzi si vedano: Lorenzo De Antiquis, I maestri dei cantastorie – Domenico Scotuzzi, rivista “Il Cantastorie”, N.26 (45), Nuova Serie, Agosto 1978, pp. 23 – 25; Gian Paolo Borghi – Giorgio Vezzani, C’era una volta un “treppo” – Cantastorie e poeti popolari in Italia Settentrionale dalla fine dell’ottocento agli anni ottanta,Vol.1, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese (BO), 1988, pp. 34 – 44; A. Virgilio Savona – Michele L. Straniero, I canti del mare nella tradizione popolare italiana, Mursia, Milano, 1980, pp. 536 – 537.

(20)  La testimonianza del signor Alessandro Comi è stata raccolta dalla figlia Carla. Nella loro famiglia erano conservati il foglio con i versi di Domenico Scotuzzi e alcune copie di giornali dell’epoca (Il Resegone, Il Secolo, Corriere della Sera), indizio anche questo dell’interesse che in paese aveva suscitato il fatto.

(21)  La testimonianza orale della signora Antonia Origo è stata da me raccolta il 21 novembre 2010.

(22)  Registro defunti, comune di Paderno d’Adda.

(23)  Cfr. F1 nell’elenco delle fonti.

ELENCO DELLE FONTI

F1 - Cronaca di don Casimiro De Cani, parroco di Verderio Inferiore, in Liber Cronicus, da pag 15 a pag 19, Archivio Parrocchiale di Verderio Inferiore. Quando, il giorno stesso del delitto, don Casimiro iniziò a scrivere la cronaca del fatto lasciò alcune pagine bianche per poterla aggiornare. Il testo copre quindi in un’unica soluzione tutta la vicenda, dal delitto alla morte del colpevole.

F2- Cronaca di Don Luigi Galbiati, parroco di Verderio Superiore, in Liber Cronicus 1913 – 1936, Archivio Parrocchiale di Verderio Superiore:  p. 5, il delitto; p. 7, l’arresto di Ripamonti e dei presunti complici; p. 11, la liberazione dei coimputati. Non ho utilizzato direttamente questa fonte per la redazione del testo. Essa però è quella che per prima mi ha messo a conoscenza del l’avvenimento.

F3 –Comune di Verderio Inferiore, Atti di Morte 1906 – 1915.

F4 - IL RESEGONE, settimanale cattolico lecchese. Anno 1913: 28-29/3 p. 3; 4-5/4 pp. 3, 4 e 5; 11-12/4 p. 4; 18-19/4 p. 4; 25-26/4 pp. 2 e 3; 2-3/5 p. 4; 30-31/5 p. 4; 13-14/6 p. 4; 14-15/8; 22-23/ p. 4. Anno 1914: 9-10/1 p. 4; 30-31/1; 20-21/2; 20-21/3; 3-4/7; 7-8/8; 13-14/8; 4-5/9.

F5 – Archivio di Stato di Como, fondo Tribunale di Lecco, anno 1914, fascicolo 504. Questa fonte comprende  gli atti dell’inchiesta (le dichiarazioni dei testimoni, la perizia sull’incendio e quelle calligrafiche e psichiatriche, gli interrogatori dei sospettati, le lettere dell’imputato e le fotografie che lo ritraggono) e gli atti del processo. Da essa proviene la gran parte delle notizie utilizzate per la redazione del testo, pertanto non ho ritenuto utile indicarla ogniqualvolta ne ho fatto uso.

F6 – Giovanni Rizzo, I segreti della polizia, Rizzoli, Milano 1953 (Segnatura Biblioteca Braidense, Milano: NSQ8317).

Grazie
Per la testimonianza, al signor Alessandro Comi; a sua figlia Carla per averla raccolta; a tutta la loro famiglia per avermi donato l’originale del foglio con la canzone di Domenico Scotuzzi e i giornali dell’epoca che erano in loro possesso.
Alla signora Antonia Origo per il racconto dei suoi ricordi.
A Gianmaria Calvetti per la consueta, severa, supervisione e per i preziosi consigli


Marco Bartesaghi, Verderio Superiore , 17 gennaio 2011




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