Per mio padre e per noi (1) in ogni modo le parole del proclama di Badoglio erano chiare: l'Italia si era arresa agli Alleati, ormai sbarcati a Salerno, si dovevano deporre le armi ma si doveva resistere a ogni attacco da qalunque parte venisse. Per noi questo voleva dire, senza dubbio, che dovevamo opporci alla occupazione tedesca. Abbiamo cercato invano di trovare nei paesi intorno alla Bergamina qualche reparto ancora integro a cui unirci ma alla fine di qualche giorno di ricerche, con un crescente sentimento di frustrazione e vergogna, abbiamo dovuto ammettere che c'erano solo accantonamenti abbandonati, in qualcuno anche armi e munizioni sparse.
Foto n.1 Gianfranco Gnecchi Ruscone e la moglie, Antonia Caccia Dominioni |
Queste le abbiamo raccolte, portate a casa, pulite, oliate, impaccate e sepolte: pensavamo che avremmo potuto usarle quando, di lì a pochi giorni, gli Alleati sarebbero arrivati dalle nostre parti.
In realtà credo saino state usate al momento della Liberazione, un anno e mezzo più tardi, ma io allora ero altrove.
Il nostro primo problema e occasione di agire non l'avevamo previsto: un fiume di ex prigionieri di guerra Alleati, usciti dai campi di concentramento dell'Italia settentrionale, aperti l'8 settembre, che cercavano di raggiungere il confine con la Svizzera
Un'organizzazione a scala e conduzione famigliare, collegata a qualche amico nei dintorni provvedeva fienili sicuri dove nascondersi, mangiare e riposare di giorno, abiti civili per passare inosservati, sentieri sicuri verso Como e la frontiera, con guide fidate per le prossime tappe.
Qualche gruppo, ovviamente non era di militari Alleati, c'erano anziani, donne e bambini, si presumeva famiglie ebree, ma c'era da nostra madre (2) il severissimo divieto di far domande: inammissibilmente indiscreto.
È stato il mio primo contatto da un lato col mondo dei profughi e fuggiaschi, di chi doveva nascondersi, braccato come selvaggina, dall'altro con la straordinaria umanità, affidabilità e generosità, con il coraggio inconscio e spontaneo della gente, quasi sempre famiglie contadine.
Nessuno faceva domande o distinzioni, nessuno si aspettava ricompense, nessuno metteva in conto i proclami sempre più frequenti e minacciosi affissi nei paesi dai tedeschi e poi dai repubblichini.
C'era gente che aveva bisogno di aiuto, come forse in quelle stesse settimane qualcuno dei loro famigliari in altre parti d'Europa, e l'aiuto veniva spontaneo, generoso, concreto.
Da loro ho imparato anche un'altra lezione. All'inizio insieme al desiderio di aiutare e alla compassione provavo anche un'ombra di risentimento se questi fuggitivi non dimostravano un'immediata, piena fiducia in me. Questi contadini sapevano meglio di me cos'era giusto aspettarsi, partecipavano in modo istintivo ai timori e all'angoscia dei fuggitivi e semplicemente, praticamente si davano da fare per aiutarli.
Di quelle settimane, in un mosaico quasi indistinto di facce viste per breve e quasi sempre al buio, ricordo con chiarezza solo un episodio. Una sera, al momento di mettersi in cammino, uno di un gruppo di cinque o sei ufficiali del Sud Africa ha avuto una crisi isterica: voleva rimanere per consegnarsi ai tedeschi. Gli altri, in fila davanti a lui, con calma determinazione, un dopo l'altro, gli hanno riempito la faccia di sberle finché si è persuaso a seguirli.
Il mio compito, quando veniva la notte era solo quello di precedere in bicicletta i gruppetti e assicurarmi che le strade scelte fossero sicure. Dopo una decina di chilometri, a un cavalcavia sopra la ferrovia chiamato, chissà perché "el salt del gatt", li affidavo alla loro guida e tornavo a casa.
Un'organizzazione a scala e conduzione famigliare, collegata a qualche amico nei dintorni provvedeva fienili sicuri dove nascondersi, mangiare e riposare di giorno, abiti civili per passare inosservati, sentieri sicuri verso Como e la frontiera, con guide fidate per le prossime tappe.
Qualche gruppo, ovviamente non era di militari Alleati, c'erano anziani, donne e bambini, si presumeva famiglie ebree, ma c'era da nostra madre (2) il severissimo divieto di far domande: inammissibilmente indiscreto.
È stato il mio primo contatto da un lato col mondo dei profughi e fuggiaschi, di chi doveva nascondersi, braccato come selvaggina, dall'altro con la straordinaria umanità, affidabilità e generosità, con il coraggio inconscio e spontaneo della gente, quasi sempre famiglie contadine.
Foto n.2.Francesco Gnecchi Ruscone, autire e protagonista del libro, fotografato nel giugno1945, dopo aver partecipato alla liberazione di Trieste dall'occupazione iugoslava |
Nessuno faceva domande o distinzioni, nessuno si aspettava ricompense, nessuno metteva in conto i proclami sempre più frequenti e minacciosi affissi nei paesi dai tedeschi e poi dai repubblichini.
C'era gente che aveva bisogno di aiuto, come forse in quelle stesse settimane qualcuno dei loro famigliari in altre parti d'Europa, e l'aiuto veniva spontaneo, generoso, concreto.
Da loro ho imparato anche un'altra lezione. All'inizio insieme al desiderio di aiutare e alla compassione provavo anche un'ombra di risentimento se questi fuggitivi non dimostravano un'immediata, piena fiducia in me. Questi contadini sapevano meglio di me cos'era giusto aspettarsi, partecipavano in modo istintivo ai timori e all'angoscia dei fuggitivi e semplicemente, praticamente si davano da fare per aiutarli.
Di quelle settimane, in un mosaico quasi indistinto di facce viste per breve e quasi sempre al buio, ricordo con chiarezza solo un episodio. Una sera, al momento di mettersi in cammino, uno di un gruppo di cinque o sei ufficiali del Sud Africa ha avuto una crisi isterica: voleva rimanere per consegnarsi ai tedeschi. Gli altri, in fila davanti a lui, con calma determinazione, un dopo l'altro, gli hanno riempito la faccia di sberle finché si è persuaso a seguirli.
Il mio compito, quando veniva la notte era solo quello di precedere in bicicletta i gruppetti e assicurarmi che le strade scelte fossero sicure. Dopo una decina di chilometri, a un cavalcavia sopra la ferrovia chiamato, chissà perché "el salt del gatt", li affidavo alla loro guida e tornavo a casa.
Francesco Gnecchi Ruscone
NOTE
(1) Il padre Gianfranco e il fratello Cesare.
(2) Antonia Caccia Dominioni
La fotografia n.1 è tratta dal libro Verderio - la storia attraverso le immagini e i personaggi, autori vari, 1985; la n.2 è proviene invece dal libro sulla Missione Nemo da cui ho trascritto il brano e di cui in questo blog si è già parlato il 26 febbraio 2011, dopo la sua presentazione alla libreria Mursia di Milano.
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