venerdì 18 giugno 2021

INCONTRO CON DARIO COLOMBO, COSTRUTTORE DI TELAI DI BICICLETTA SU MISURA di Marco Bartesaghi

 

Nel mondo, gli artigiani che producono telai di bicicletta su misura sono tra i trecento e i quattrocento in tutto; in Italia non più di quaranta. Da Dario Colombo, uno di loro, voglio sapere  come è approdato a questo lavoro.
È nato a Verderio, allora Inferiore, il 28 aprile 1983. Dopo le scuole medie, frequentate a Robbiate, ha studiato elettronica e telecomunicazioni, prima all'ITIS di Vimercate, poi al Politecnico di Milano, dove, nel 2006, ha conseguito la laurea triennale in ingegneria. In seguito ha trovato lavoro come consulente alla Siemens di Cinisello Balsamo.

“Ero ricercatore. Facevamo le  schede elettroniche che raccolgono i dati in arrivo dai cellulari, le schede madre  collocate nei basamenti delle antenne: alcune le ho disegnate io e facevo anche il debug [ricerca ed eliminazione di errori e difetti]. Era un lavoro bellissimo, andava anche bene economicamente, però mi serviva qualcosa d'altro. Mi sono licenziato l'8-08-2008”.

Una data importante, perché subito dopo avviene un incontro fulminante. Una donna? Questo non lo so. Incontra la bicicletta e non l'abbandona più.

“Il giorno dopo essermi licenziato, con  altre otto persone, sono partito per un viaggio in bicicletta in Provenza. Avevamo ancora quelle bici “scascione”di una volta, sembra passata un'era geologica. È stata un'esperienza bellissima: bicicletta tenda e … vento contrario. In Provenza da qualunque parte ti giri hai il vento contrario. Abbiamo fatto tutti gli errori dei principianti: troppi chilometri il primo giorno - ma questo lo fai sempre, anche quando sei più esperto -, viveri che sembrano troppi ma poi mancano, strade sbagliate. Siamo partiti da Marsiglia e abbiamo chiuso lì l'anello dopo 12 giorni. Sono ancora in contatto con questi ragazzi. Prima di partire conoscevo solo due di loro, i fratelli Todaro, Simone e Letizia, che sono di Robbiate”.

 

bicicletta con telaio "BICE" - foto Dario Colombo (D.C.)

La bicicletta gli fa tornare la voglia di studiare. Si iscrive ancora al Politecnico per il biennio di specializzazione. Sceglie ingegneria ambientale, con l'idea di dedicarsi alla pianificazione del territorio e lavorare con i comuni.

“Un' esperienza stupenda. Ingegneria delle telecomunicazioni era stata veramente una “saccagnata”, proprio tosta; “ambientale” era molto più blanda e in più avevo dietro un'esperienza di tre anni di lavoro, quindi l'ho passata abbastanza in scioltezza. Nel frattempo ero  diventato catechista e consigliere comunale nell'ultima amministrazione comunale di Verderio Inferiore, prima della fusione dei due comuni, con Sandro Origo sindaco”.

E la bicicletta?

“Ho fatto una tesi dal titolo: Sviluppo di un modello matematico per la ciclabilità della città di Milano. Partendo dalle caratteristiche fisiche e funzionali delle strade, dalle loro intersezioni - che possono essere incroci o rotonde - e dal loro percorso, riuscivo a presumere quale sarebbe stato il tragitto che il ciclista avrebbe ritenuto migliore, e quindi scelto, per arrivare da un punto A a un punto B. Supponevo che il ciclista si sarebbe comportato secondo un principio di ciclabilità, ossia avrebbe deciso in base ad un mix fra comfort e senso di sicurezza”.

Milano, navigli - foto M.B.

L'hai proposto al comune di Milano?

“Sì, ma non ho avuto ascolto. Il modello funzionava bene ma non era recepito da chi lavorava nell'ufficio tecnico, che non sapeva cosa fosse una bicicletta e non riusciva a capire che oltre al problema di spostarsi dal punto A al punto B ce ne sono altri connessi”.
 
Ad esempio?

“ Quando arrivo in B devo lasciare la bici e andare, mettiamo, in ufficio. Al ritorno la devo ritrovare. Solo adesso  questo fatto comincia ad essere recepito, ma siamo agli inizi, per ora si sta ancora pensando solo a come far muovere la gente, non ancora a cosa succede quando la bicicletta è lì da sola. Avevo capito che il concetto di bici nella pianificazione era troppo avanti ed era un concetto di parte: c'era chi era contro e chi invece era favorevole, a priori.  Alla fine litigavo con entrambe le parti, quella dei favorevoli e quella dei contrari. I primi mi chiedevano:si può andare in senso contrario? No, non si può . Allora si lamentavano  perché con il mio progetto non si poteva andare contromano. E chi si prende la responsabilità di dirti vai pure contromano: io?  e poi mi denunci se succede qualcosa? Adesso le cose stanno cambiando e la gente comincia a capire”.

foto M.B.

E il lavoro?

“Dopo la laurea ho fatto diverse cose. Prima ho lavorato per “Venti Sostenibili”, un'associazione di Milano che interviene nelle scuole sul tema della sostenibilità applicata alle città. Facevo lezioni nelle superiori e negli istituti professionali. Mi occupavo della mobilità. Si faceva una parte teorica in cui si parlava della smart city, cos'è la mobilità. Ai ragazzini proponevo la classica analisi swot, ossia come si ragiona per risolvere i problemi di una città.
E poi c'era la parte pratica. Avevo l'incarico di realizzare nelle scuole tante piccole ciclofficine, gestite dai ragazzi, dove imparavano a riparare le loro biciclette. Nelle scuole professionali facevano anche il retrofitting delle bici [adattamento e riconfigurazione]. Erano gli anni in cui uscivano le prime bici elettriche, che costavano veramente tanto. Allora qualcuno si era inventato il fatto di fare il retrofitting, con un motore e un pacco di batterie: il motore lo infilavi nel movimento centrale della tua vecchia bici e il pacco  batterie lo avvitavi sopra.  Era un modo per far vedere ai ragazzi che  ci sono vari gradi di evoluzione della bicicletta, cosa che adesso è palese, anche troppo. Ho lavorato con il comune di Bergamo; ho aperto ciclofficine a Gorgonzola, all’ITIS di Gallarate, di Varese, di Curno”.


Insomma, dopo il viaggio in Provenza sei entrato nel mondo delle biciclette e ci sei rimasto.

“Sì, la bicicletta è stato l'obiettivo generico. Ho provato la pianificazione ma ... mmh. Ho fatto l’insegnante: bellissimo!  Poi sono stato contattato dall’Ospedale San Raffaele di Milano. Avevo inviato il curriculum anche alla FCI, Federazione Ciclistica Italiana. Un loro dirigente, che era un dottore del laboratorio di biomeccanica del San Raffaele, aveva trovato interessante le cose che avevo fatto fino allora e  mi aveva inserito nel suo laboratorio per occuparmi di come  consapevolizzare le persone nelle proprie scelte. Era un argomento che conoscevo bene, perché ad ingegneria ambientale avevamo fatto dei corsi veramente tosti, con dentro sia calcoli che  psicologia, su come coinvolgere le persone, come favorire la partecipazione. I temi di cui si occupava il laboratorio, questo ed altri, come ad esempio la nutrizione, avevano come collante il benessere delle persone.
In quell’ambito abbiamo anche organizzato, su mia proposta, l’Università della Bicicletta (sembra una cosa esagerata, eh?). Erano corsi concentrati in due giorni. Il primo di teoria della biomeccanica, dell’alimentazione, della bicicletta, della pianificazione. Il secondo giorno era  più ludico: la classe di una quarantina di persone veniva divisa in gruppi, secondo i diversi livelli di preparazione, che  seguivano corsi  di manutenzione e  assemblaggio della bicicletta.
Era un bel laboratorio, dove si sperimentava tantissimo”.


Foto M.B.

Poi hai cominciato a costruire telai?

“Sì, per hobby, ma non ancora per lavoro. Sono entrato nella cooperativa PASO Lavoro.
Con  loro ho aperto una ciclofficina alla stazione di Osnago, al circolo ARCI La Locomotiva.
Era un'iniziativa concentrata sul pendolarismo: da casa a Osnago vai in bicicletta; questa ha un problema? la lasci qua, noi te la ripariamo e alla sera, quando torni dal lavoro, la trovi pronta.
Il martedì e il giovedì, nell’orario di ritorno dal lavoro, facevamo corsi di  riparazione  per i pendolari.
Ero riuscito a realizzare anche una sorta di parcheggio automatico, tramite una scheda NFC di prossimità e un sensore. La scheda era nominale e doveva essere rinnovata ogni quattro mesi. Avvicinando la scheda al sensore aprivi la porta del deposito, poi parcheggiavi, legavi la bici e alla sera, quando tornavi, la ritrovavi. Perché se tu diventi bravissimo a ripararti la bici ma ogni mese te la fregano, ti girano le balle.  
Lo stesso progetto era stato realizzato anche alla stazione di Cernusco Lombardone. Lì lo spazio era più grande, per cui avevo chiesto, e mi era stato assicurato che l'avrei ottenuto, uno spazio per costruire i miei telai. Alla fine lo spazio non è saltato fuori e così me ne sono andato. Da quel momento in poi non ho più lavorato con i comuni, perché lo ritengo una perdita di tempo”.


Stazione di Osnago - Foto merateonline .

E sei diventato artigiano?

“Sì, ho mollato tutto e ho iniziato seriamente a lavorare  sui telai. Avevo cominciato come hobbysta; poi li ho fatti come secondo lavoro (Venti Sostenibili e San Raffaele erano il “primo”); poi  come primo (facevo ancora qualcosa al San Raffaele) e infine, verso il 2015,  come unico, quando ho capito che lavoravo bene e che i miei lavori erano apprezzati.
Il mio primo telaio  l'ho finito il 14 dicembre 2010, mentre passava  Babbo Natale. Nevicava ed io ero fuori in  bici a provarlo. A quei tempi provavo , poi lasciavo passare sei mesi perché avevo altro da fare, poi riprendevo in mano il progetto. Invece adesso tutti i giorni mi alzo e penso a questo che è il mio lavoro. La  prima bici prodotta da “Bice” ce l'ho ancora, è ancora lì.”.


La tua azienda si chiama “Bice”. Perché?

“Perché … Bice è il nome di una cascina che c'è qui vicino; perché, negli anni in cui ho scelto, le sigle delle biciclette erano di quattro, massimo cinque lettere. Perché “Bice” è anche un gioco di parole, il  singolare che non c'è della parola bici, e può essere letto anche in inglese, dove “bice” è una certa tonalità di turchese. In sintesi, perché si chiama così non lo so. In quel momento è spuntato quel nome”.

 

Il marchio "Bice" - foto D.C.

Come si diventa tuoi clienti?

“Molti arrivano a me attraverso i social,  Facebook e Istagram.  Facebook è diventato un grande calderone per quarantenni, cinquantenni e sessantenni; è molto scritto, ha una giusta quantità di foto e video  e tanta interazione. In Istagram  c'è meno interazione, ma più presentazione  e più cura della fotografia, che per me è molto importante, e la gente è molto seria. Preferisco Istagram che  è ancora molto pulito - anche se per poco, temo -  non ha tutto quel rumore di fondo, quella violenza, che c'è su Facebook, che sta veramente degenerando. Mi sto interessando anche ai nuovi social, perché devo rendermi conto di quello che ci sarà fra una decina d'anni. Tik Tok e gli altri però sono un bordello da cui ci si cava poco”.  

Quindi i clienti ti contattano direttamente ...

“Sì, ora sì. I primi anni mandavo un telaio ad alcuni negozi di cui mi fidavo e loro mi facevano avere i clienti. Ho visto che non funzionava bene e allora faccio il contrario: sono io la porta d'ingresso, il collettore che riceve il lavoro e  lo distribuisce ad altri professionisti. Il mondo del ciclismo è un mondo molto piccolo, semplice e pieno di “zabette”, in un attimo si sa tutto di tutti. Ma è tutta gente legata dalla passione. Quando ci troviamo ai raduni, parliamo solo di bici e così nascono gli agganci professionali, che poi diventano anche amicizie. È molto importante perché ci si scambiano esperienze: io do a te tu dai a me. Ci si dà una mano, anche perché in confronto a quella della motocicletta, l'industria del ciclismo è veramente piccola. Il giro di soldi dell'industria ciclistica italiana è pari a una parte – dico una parte -  di quello della Piaggio. Solo della  Piaggio”

PER CONTINUARE LA LETTURA CLICCA SU "CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO" 

L'officina "Bice" di Dario Colombo - foto M.B.


Mi sembra ci sia sempre più gente che va in bicicletta … magari anche con la bicicletta elettrica. Cosa ne pensi?

“La gente vuole  vivere in un ambiente più tranquillo, non tutti i giorni incolonnata in macchina. Vuole vivere nella natura e quindi, quando può, sceglie di spostarsi in bicicletta.
Ora molti si orientano verso la soluzione più comoda - noi italiani siamo maestri nel trovare la soluzione più comoda - che è la bicicletta elettrica. Secondo molti non si dovrebbe più parlare di bicicletta normale: ci sarebbero la bici “muscolare”, quella tradizionale,  e la bici “elettrica”. Io mi incazzo perché non è vero: c’è “la bicicletta” e la “bici elettrica”, che è un'altra cosa, è una moto. Sulla bici elettrica sta andando gente, anche giovane, che: uno: non è mai andata in bici; due: è veramente pigra. Gente senza esperienza che va a Montevecchia o sul monte Canto in bergamasca: sai quanta? E sai qual è il problema? Se tu con la bici normale sai fare tanti chilometri e sai andare in cima al monte Canto è perché negli anni hai accumulato tanta esperienza e con questa esperienza dopo sai andare in discesa, sai muoverti nel bosco, sai come dare le precedenze. Questa gente, invece, pensa di poter andare dove cazzo vuole. E no, non funziona così. È come la montagna: la montagna è di tutti, ma non è per tutti”


Mialno, navigli 2015 - foto M.B.

Io sono rimasto a quando oltre alla normale “bicicletta” c'era solo “la bicicletta da corsa”: aggiornami.

“Quando c'era solo la bici da corsa noi italiani eravamo i più grandi produttori di telai al mondo, ne producevamo quasi il 90% . Con la crisi del 1993- 94 la produzione si è spostata a Taiwan perché gli statunitensi, molto pragmatici, hanno investito lì dove c'erano saldatori navigati, che per  loro saldavano già gli aerei. Così sono nati i telai in alluminio. In più è stato introdotto l’MTB. L' Italia, che aveva la tradizione delle bici da corsa con le giunzioni, non riusciva a fare l’MTB e quindi era tagliata fuori. Tutti i soldi sono stati spostati in Asia, prima a Taiwan, poi in Cina e poi in Vietnam: vanno dove il costo del lavoro è più basso. Col passare del tempo  l’MTB è diventata sempre più importante. Sono aziende relativamente giovani in cui si fa molta ricerca: l’ammortizzatore di un MTB  tecnologicamente è dieci volte più avanti di qualsiasi ammortizzatore di motocross; il freno a disco da dove arriva?  da MTB”.

Come ti sei inserito in questo ambiente?

“Sono stato fortunato, perché ho lavorato subito con MTB, con il “disco” e con geometrie stranissime. Ho iniziato facendo telai MTB, poi  ho fatto ciclocross . Il ciclocross è una specialità che tradizionalmente si fa d’inverno, quando non puoi fare 150 Km su strada se no muori di freddo.
Tra il 2012 e il 2014 circa, in pianura Padana avevano iniziato a usare le stesse bici del ciclocross per fare, in tarda primavera, dei “lungoni”, sugli argini dei fiumi: la Lodi Lecco Lodi, lungo l’Adda; la Milano Cremona, che poi è diventata la CrePaMi: Cremona, Pandino Milano; la Crepuscolami: Cremona Pandino Milano di notte. Mille eventi che usavano le bici veloci, con copertone stretto lungo gli argini. Non lo sapevamo ma stavamo facendo quello che adesso è il “gravel”, che in inglese vuol dire ghiaia. Negli stessi anni succedeva la stessa cosa negli Stati Uniti. Perché è nato il gravel? Io mi sono fatto quest’idea: c’è molta richiesta di bicicletta, però l’asfalto è pericoloso e c'è un incidente ogni tre per due, dove spesso ci scappa il morto. Allora prendo la bici e la metto nei sentieri. Così nasce l’MTB, che adesso però è diventata troppo  “cattiva”,  richiede una preparazione tecnica pesante, veramente forte.  Molti però vogliono godersi  lo sterrato come facevamo vent’anni fa col rampichino. Ti ricordi il rampichino? Così è esploso il “gravel”, che non è una moda, ormai è stabile. Lo facevamo quando ancora non sapevamo che cosa fosse, lo facevamo perché ci piaceva. Adesso la bici da gravel , che è una sorta di ciclocross con ruote un po’ più larghe, è una parte fondamentale dell’economia del settore, la parte più importante – circa il 50% - dei telai che produco”.









Tre bicilette con telaio Bice: da strada, gravel e MTB









 

 

 

Le famose ditte italiane - Legnano, Bianchi eccetera -  esistono ancora?  

“Si, però sono dei marchi, fanno più niente in casa. Anche Colnago faceva fare tutto in Asia. Solo una piccola parte di Colnago Top era fatto in Italia e serviva  per poter scrivere “Colnago – made in Italy”. Molti non sanno che se fai arrivare dall'estero un telaio pagandolo 100 e in Italia lo vernici e lo metti in vendita a 200 puoi mettere il marchio Made in Italy: basta che tu faccia un'operazione che aumenti del 60% il valore del prodotto..  Per queste cose non ha più senso parlare di made in Italy. Del resto l'abbiamo visto col covid che i confini non esistono più: se un telaista taiwanese, o cinese, è bravo è bravo, punto. Per la  “battuta” di Fassona, che nasce e vive in Piemonte ed è una mucca veramente buona il made in Italy ci sta; così come ci sta per il vino Ruchè, buonissimo, che si può fare solo nel Monferrato. Ma per le cose fatte dagli uomini? Se io sono importante per quel che faccio è perché ho qualcosa da dire con i miei telai, con la mia storia, perché seguo il cliente, lo seguo gli faccio domande: mi deve dire non solo le sue misure, ma anche che lavoro fa,  se ha fatto incidenti, quanto chilometri all'anno percorre, se li fa in bici da corsa o in MTB. Li tiro scemi, però dopo ti ringraziano, ti dicono “io non sono mai stato seguito così”. Un sacco di domande che, come le faccio io, le può fare anche   Ju Chai in Cina.  L'importante è mettersi lì e dire: voglio seguire il cliente dalla A alla Z e poi farlo davvero. Per questo produco solo cinquanta telai in un anno. Altrimenti potrei farne due al giorno”.

Parlami del tuo cliente “tipo”.

“È  uno di indole tranquilla, che fa delle gare per “amatori”; è un appassionato di bicicletta, ma non cerca la prestazione; vuole stare anche comodo e quindi si rivolge a me che faccio telai in acciaio, più pesanti ma più comodi.
Non è il “grammomaniaco” del carbonio, uno che ti rompe le scatole, che ti dice “ho preso queste nuove viti che fanno guadagnare 5 grammi” . Ma ragazzo, se ieri magari hai mangiato la pizza dove caspita vuoi andare?  Anch'io faccio gare, ma lì l'obiettivo non è dare tutto nella gara,  ma nell'”opening party”, nella festa iniziale. Mangi, bevi. Domani c'è la gara? E vabbè, ci pensiamo. Ho visto gente arrivare dal Belgio in Molise,  dove abbiamo fatto  gli europei di MTB (amatori, s'intende), “spaccarsi” alla sera e il giorno dopo non presentarsi: si sono fatti 2 o 3 mila chilometri per  mangiare e bere in Molise. Le mie biciclette, sia MTB che ciclocross possono essere trasformate in “single speed”, ossia senza cambio, con un solo pignone dietro e una sola corona davanti. C'è una comunità bellissima in tutta Europa che usa “single speed”. Facciamo i mondiali, i nazionali e gli europei MTB: ci si conosce tutti. C'è anche gente che va molto forte, ma così, in amicizia. Adesso nello sport sono tutti  tirati “devo, devo, devo ...” Ma dove devi andare, che hai quarant'anni e  una moglie a casa? vai a giocare a briscola e a divertirti.

Dario Colombo su Bice Bicycles - foto DU RUE

 I miei clienti sono gente tranquilla. Mi chiedono : “Quanto ci metti ha farmi il telaio?” “Quattro o cinque mesi” “tranquillo ...”   
 Quando è morta  mia mamma, all'inizio di quest'anno, ho capito quello che ho creato in questi anni, trattando bene chi meritava di essere trattato bene. Quando è stato il momento di dire “Ragazzi, non è periodo, non posso”, tutti, ti dico tutti, mi hanno detto: “Dario, la famiglia prima di tutto, nessun problema”. Sono in ballo ancora adesso a recuperare i telai di quest'inverno, sono  in ritardo, però nessuno ha sollevato problemi. Mi sono arrivate condoglianze da tutto il mondo”.

Sempre sui clienti: ne hai di italiani e di stranieri. Le differenze?

“Adesso sto lavorando molto con gli italiani. È  un bene, ma non è facile. Perché l'italiano classico tende sempre a chiederti qualcosa in più, cercando di spendere qualcosa in meno. È un'ottima scuola la scuola del mercato italiano, perché ti fa capire l'importanza di dire “Oh, basta, alla prossima parte il vaffanculo”. Non è così con il mercato straniero, dove il prezzo è sacro e rispettato. Americani, inglesi, olandesi, tedeschi hanno un rispetto per l'artigiano che in Italia è impensabile. Da noi c'è molta più creatività, girano molte più idee, ti metti molto più in gioco, ma a un certo punto arrivi a dire “Ragazzi non ho più vent'anni, non posso starvi dietro come la mamma. Ditemi cosa volete, troviamo la quadra e poi non cambiate idea ogni tre per due”. Però adesso cominciano a capire” 

 


 








Dario al lavoro








Donne o uomini?

“Misto, anche se la percentuale di maschi è molto più alta. Però nell'ultimo mese ho fatto un telaio per una veneta e adesso ne sto facendo due per due sorelle austriache. Il gravel, che è un ambito molto più tranquillo, ha aperto molto anche alle donne. Ma l'industria del ciclismo non è pronta ancora, secondo me, per il mondo femminile. Non è ancora ferma al “colore per le donne”, per fortuna, ma non  è andata molto oltre. Non ha ancora recepito che fra uomo e donna le caratteristiche fisiche sono molto differenti. Ad esempio, la donna è molto più flessibile dell'uomo e quindi la sella può restare molto in alto rispetto al manubrio, molto più che per il maschio. Anche il cosiddetto “soprassella” è diverso. Eppure, vai a vedere online quante sono le selle pensate per le donne: pochissime. Le mani generalmente sono più piccole e quindi i freni devono essere più vicini. La bicicletta da donna di un tempo era solo una questione di costume, perché la donna con la gonna non doveva stare “così”  ma doveva stare “cosà”, insomma doveva stare “composta”. Adesso bisognerebbe andare un po' più in là”.

Ci sono particolari problemi del tuo lavoro  che stai cercando di risolvere?

“Stare dietro agli sviluppi tecnologici, ai cambiamenti di standard. Vorrei i giorni di 48 ore. Datemi i giorni di 48 ore che lavoro di più, io non mi stanco; ho solo bisogno di più tempo, datemelo. Ogni giorno lavoro almeno 10 ore. Più tempo ho, più posso sperimentare; io ho bisogno di sperimentare.  I colori, ad esempio, sono una cosa infinita, un mondo a parte: ho mille provini di colore che sto sperimentando  con investimento mio. Con 48 ore al giorno avrei tempo anche di andare in bicicletta: uno che lavora per le bici e non va in bici, è un controsenso. Però è una regola triste ma vera: chi lavora per le bici ha poco tempo per andare in bici. Parti per passione e poi sei imbrigliato. Piuttosto che andare in bici preferisci dare al cliente il telaio in anticipo”
.

Prove colori di Dario Colombo

 
Dopo la Provenza quali altri viaggi hai fatto?

“L'anno dopo ho fatto la Sicilia, poi un po' di Toscana, la Croazia. Questi giri li ho fatti sempre in compagnia. Nel 2011 mi sono lasciato con la ragazza e sono partito da qui, da solo e sono andato a Roma. I primi tre giorni, senza allenamento, ho fatto tre tappe pesantissime, esagerate. Poi ho detto ALT, fermiamoci se non non arriviamo a Roma vivi. Arrivato a Roma, cercando su Google fra “ostelli Francigena”, ho trovato “ostello Roma”,  una ex lavanderia. Era una casa occupata da ragazzi del rione Monti; un edificio che era stato la lavanderia dell'ex manicomio Santa Maria della Pietà. I ragazzi avevano preso in mano questo edificio per coinvolgere la popolazione. Li hanno buttati fuori il mese scorso, dopo 10 anni di occupazione. Per combinazione, quando ero da loro ho scoperto che facevano un corso di saldatura: è così che ho cominciato a saldare. A Roma, sono stato tre giorni. Poi ho scavallato, sono passato da Amatrice, Ascoli e infine ho fatto la scelta peggiore della mia vita: ho fatto l'Adriatica e la via Emilia. In tutto sono stato via venti giorni”.

Concludi.

“La bicicletta è solo una questione di triangoli. Se conosci la trigonometria - che in fondo son due o tre cose: seno, coseno, ... – e hai un po' di malizia tiri fuori la bicicletta perfetta che, alla fin fine non è altro che otto tubi giuntati ( sarebbero di più, ma alcuni pezzi sono chiamati scatole, non tubi). Però sopra questi otto tubi ''ci deve andare  un cristiano'' come diceva Dario Pegoretti: semplice quanto vuoi, ma deve stare assieme, deve essere fatta bene.. E il cristiano che ci va sopra, uno: non si deve spaccare; due: deve stare comodo. In questi anni stanno uscendo delle cose... Da quando poi è morto il Pegoretti che ti metteva in riga... Dario è stato il più grande, irraggiungibile telaista del mondo, il ponte di passaggio dai telai su larga scala al telaio su misura. Lui ha capito per primo che nel modo vecchio non si poteva andare avanti, perché era impossibile avere gli stessi prezzi dei cinesi. Allora ha iniziato con i telai su misura, verniciati a mano, rifiniti bene. Ha insegnato tanto a chi sapeva ascoltare. Ti richiamava all'ordine e quando facevi la cazzata te lo diceva. Poi se vedeva che non avevi orecchie per ascoltare ti lasciava andare per la tua strada. È morto abbastanza giovane, a 65 anni. È un lavoro duro questo, ti spacca il fisico. Ogni giorno c'è un problema da risolvere. Hai tante soddisfazioni, ma non è  né il lavoro d'ufficio né il lavoro di fabbrica. Devi essere creativo, tenere d'occhio i conti,  star dietro agli standard sempre nuovi e, soprattutto, al cliente, a cui devi tirar fuori di bocca le cose che ti serve sapere e che lui non ti dice, o perché si vergogna o perché non ci pensa”.

Un'ultima curiosità. Mi ricordo di una bicicletta che  avevi esposto in una fiera del paese. Era lunga e dicevi che poteva trasportare fino a 100 chili di materiale. Che fine ha fatto?

“Sì, la cargobike. Era il periodo in cui sperimentavo tanto: avevo preso una bici vecchia, le avevo tolto la ruota dietro e infilato questo cargo rinforzato. In più avevo aggiunto un motore elettrico. Era una cargobike elettrica. Ce l'ho ancora, è di là appesa”.


Marco Bartesaghi

Nessun commento:

Posta un commento