All'estremità nord-orientale di Verderio, in via Porto d'Adda, abita la famiglia Rostagno, conosciuta come “i piemuntes”, perché venuta, nel lontano 1952, dal Piemonte.
Quanto segue me lo ha raccontato a voce Antonello, nipote dei due contadini che sono all'origine di questa storia.
Mancano le fotografie dei protagonisti, che spero di poter aggiungere in un secondo tempo
Con l'aiuto di Fabrizio Oggioni ho cercato di precisare meglio l'identità delle persone citate. Il risultato lo trovate fra parentesi quadre. M.B.
"I PIEMUNTES" - LA FAMIGLIA ROSTAGNO A VERDERIO NEL RACCONTO DI ANTONELLO ROSTAGNO
Mio nonno e mia nonna erano di Entracque, in provincia di Cuneo, un paese della val di Gesso, in pieno parco dell'Argentera. Il paese si chiama così perché è ricchissimo di acqua: è attraversato da tre torrenti: uno di fianco, uno sopra e uno che gli passa in mezzo.
Il nonno, Antonio Rostagno, era nato nel 1904; la nonna, Mariuccia Quaranta, nel 1911. Come tutti gli abitanti della zona in quel tempo, il nonno faceva il contadino e, soprattutto, il boscaiolo.
Ma in quelle valli, c'era da fare la fame, come spesso succede in montagna, dove i terreni sono in salita e d'inverno vengono (o meglio: venivano) un paio di metri di neve.
Entracque in una cartolina del 1953 |
Entracque è a due passi dalla Francia, ci si poteva andare a piedi attraverso la montagna; molti facevano contrabbando, di caffè e di zucchero; molti emigravano.
Oltre il confine le occasioni di lavoro e di ricchezza erano decisamente maggiori che in valle, così anche i nonni decisero di emigrare. Si stabilirono a Ramatuelle, vicino a Saint-Tropez, dove il nonno trovò lavoro da un viticoltore e continuò anche a fare il boscaiolo.
Nel 1933, nacque mio papà. Lo chiamarono Pietro Germano, perché Germàn era il nome del padrone delle vigne e suo padrino di battesimo.
Per la famiglia le cose andavano relativamente bene. Quando scoppia la guerra, però, per gli italiani, che già erano considerati gli ultimi, la vita diventa più difficile. Dovendo scegliere se fare la fame in Francia o farla a casa propria, i nonni decidono che è meglio farla a casa propria, e ritornano in Italia, dove riprendono il lavoro di sempre mentre il papà, che di là aveva già frequentato la quarta elementare, non conoscendo una parola di italiano deve riprendere dalla terza.
Il territorio intorno ad Entracque, fino a qualche anno fa, era ricco di caserme militari. Una sorella della nonna conobbe un soldato, lo sposò e andò a vivere a Olginate, il paese del marito. Dopo qualche anno fece sapere a casa che i padroni di un paese vicino vendevano terreni. Erano gli Gnecchi e il paese era Verderio Superiore.
Il nonno, che aveva sempre avuto il pallino della terra, decise di comprarla e ne comprò tanta, perché il lotto a cui era interessato gli Gnecchi non volevano dividerlo. Dovette fare un debito enorme, ma allora era più facile di adesso. All'inizio erano del nonno anche i terreni a monte della strada che porta all'Azienda Agricola Boschi. Poi li ha venduti, perché stava veramente facendo fatica, e così ha finito di pagare i debiti. Adesso la proprietà è di cinque ettari, compresa la casa.
Per un periodo, intanto che veniva costruita la casa, i nonni fecero avanti e indietro da Entracque.
Una volta finita la stalla, che per il nonno era la cosa principale, si trasferirono definitivamente a Verderio. Era il 1952. Arrivarono con un camion e tre mucche; arrivarono in quattro: il nonno, la nonna, il papà e sua sorella, Antonietta, che non aveva ancora sei anni. Adesso abita a Brivio, ma viene a Verderio quasi tutti i giorni. Arrivarono a fine agosto e a fine settembre la zia Antonietta iniziò ad andare a scuola, in prima elementare, con la maestra Pirovano. Il papà di anni ne aveva 21.
La casa era la metà di quella di adesso; fu ampliata per il matrimonio di papà. La prima parte fu costruita, se non sbaglio, dal nonno di Danilo Parolini, l'altra dal papà di Roberto Sirtori [Antonio Sirtori, 1921-1981].
Entracque, l’ho già detto, era un luogo ricchissimo di acqua: in tutto il paese, poco più grande di Robbiate, c’erano forse un’ottantina di fontane; tutti avevano già l’acqua corrente in cortile.
A Verderio invece dovevano andare a prenderla in paese, con il carro trainato dal cavallo e le taniche da 200 litri. C’era la fila per approvvigionarsi. Fu una brutta sorpresa, loro non erano abituati.
Grazie al papà di Orazio, il nonno di Beatrice, il daziere [Renzo Fumagalli], che si impegnò a risolvere le difficoltà burocratiche, dopo un po’ di anni dal centro del paese fino a cascina Alba fu scavato un canale e furono posati i tubi dell'acqua. Lo scavarono a mano, una cosa oggi impensabile: a lavorare c’erano il nonno, il papà, il Cúnsu [Cunsulen - Antonio Cassago 1913-1988], il papà di Gigi [Giuseppe Sala, classe 1918] e altri che non ricordo.
Allora, dal centro del paese a casa mia c’erano solo il cimitero, la cascina dei Muleta [cascina Provvidenza], il Betulino [Betulén, bettola - osteria], la cascina Isabella, la Casinéta [cascina Malpensata]. Oltre si trovavano la cascina di Rho [cascina Amalia] e la cascina Alba, una delle poche che aveva un pozzo.
La cascina di Rho era nello spazio dove poi è sorta la fabbrica dei caschi Nava. L’hanno abbattuta quando avevo 11 anni. Mi ricordo che per buttarla giù vennero con un mezzo con la palla d’acciaio. Vicino alla cascina c’era una parte di prato più verde, dove c’era sempre acqua, a camminarci ti bagnavi i piedi. Il nonno andava lì ad abbeverare le mucche. Dopo la distruzione della cascina e alcuni lavori fatti sulla strada, l'acqua non c'è più stata.
Per lavare i panni andavano alla Roggia Annoni, che adesso, purtroppo, è chiusa; un tempo ci facevano anche il bagno.
I nonni avevano sei o sette mucche e un toro. Avevano un cavallo e una falciatrice. Vendevano il latte, al lacé, che era il papà di Emilio [Arialdo Villa]; vendevano qualche vitello ogni anno e il fieno che non serviva per gli animali. Coltivavano il granoturco, più che altro per dar da mangiare alle galline, e il grano: per 100 chili di grano avevano in cambio 70 chili di pane (oggi ti danno, al massimo, 19-20 euro). Con questo sono riusciti a pagare il debito. Adesso sarebbe impossibile.
A lavorare con gli animali era soprattutto la nonna. Ogni tanto faceva anche il formaggio: non ho tanti ricordi, perché le mucche ci sono state finché ho avuto circa 4 anni, ma la ricotta avvolta in uno straccio e appesa me la ricordo. Il nonno e il papà invece lavoravano la terra: soprattutto il nonno perché poi papà, quando il mondo ha cominciato a cambiare e sono arrivati i primi trattori, le prime macchine, ha trovato lavoro in fabbrica, come operaio alla Michelin, in corso Sempione a Milano. Una scelta di cui è sempre stato felice.
Sai che i piemontesi hanno sempre le nocciole in tasca? Il nonno, da buon piemontese, per prima cosa ha piantato una fila di noccioli. Poi ha piantato più di 100 alberi da frutta. Aveva tre orti. Sapeva innestare, era bravo, un vero contadino e boscaiolo.
Era un tipo abbastanza solitario; andava al bar a bere un liquore assurdo, che non so se esiste ancora, il mandorlato; andava a messa a Natale. Per il resto non usciva mai di casa, anche se aveva amici. Appena arrivati a Verderio si era presentato da loro Tugnin [Antonio Colombo 1917-2005]. Era uno che portava sempre un guanto perché aveva una mano offesa. Era nato a cascina Alba, ma abitava a Paderno d'Adda con la moglie, una signora bresciana. Quando i nonni sono arrivati a Verderio, Tugnin s'è presentato e, con una gentilezza estrema, gli ha detto: “se avete bisogno di qualcosa chiedete”. All'inizio i nonni avevano fatto molta fatica a comunicare con gli altri, perché tutti parlavano in dialetto e loro non lo capivano, la nonna parlava addirittura francese. Tugnin era uno dei pochi che parlava italiano. Era un comunista sfegatato. Secondo lui il più buon vino che potevi trovare era quello del circolo di Paderno: era il più buon vino d'Italia, non ce n'erano di migliori.
Avevano anche altri amici. Ricordo che c'era Giuvanin di Géta [Giovanni Battista Motta 1905-1996]; c'era “il Gianni” [Gianni Villa 1942-2020], che quando ero piccolo mi aveva insegnato a barare a briscola: a Paderno abitava vicino al Tugnin e anche lui era nato a cascina Alba. Alla domenica la mamma di Gianni, la moglie di Tugnin e “la Rusina” venivano a giocare a briscola con la nonna e si fermavano tutto il pomeriggio.
I rapporti della mia famiglia con Entracque non si sono mai interrotti. Ogni anno i nonni tornavano almeno una volta al paese e quando sono morti, sono stati sepolti là, perché era sempre stato un loro desiderio.
Papà e mamma si sono sposati nel 1966, un anno prima che nascessi io, il loro unico figlio. La mamma si chiama Renata Lucia Tomasoni, è di origine bergamasca, della val Seriana, di una frazione di Clusone. Quando ha conosciuto papà abitava già a Porto d'Adda, poco lontano da casa nostra, in quella cascina che si trova sulla destra, prima di arrivare a Porto. Era l'ultima di una fila di fratelli, muratori che dalla val Seriana erano spessissimo in trasferta a Milano: così decisero di avvicinarsi e costruirono la cascina. Anche loro avevano qualche mucca e qualche capra. Erano una famiglia numerosissima: quando ci si trovava a mangiare si era sempre in sessanta, settanta persone: era bellissimo.
In valle la mamma lavorava come operaia e poi aiutava in casa perché aveva da lavare per tutti quei fratelli. Anche dopo sposata ha fatto l'operaia, prima da Vertemati, una fabbrica di divani vicino alla cascina La Salette, poi da Bertolotti e alla Last. Quando la nonna, sua mamma, ha cominciato a non star bene lei è stata a casa per assisterla. Però i suoi fratelli l'hanno assunta come dipendente, così ha potuto maturare la pensione.
Il papà è morto nel 2010, quando aveva 77 anni.
Morti i nonni, i miei vecchi per anni hanno fatto lavorare la terra ad altri: mettevano il granoturco o il grano; hanno provato anche con la soia. A fine anno il saldo era sempre negativo: meno 2000 euro circa. Una cosa assurda!
Ho pensato per anni su come coltivare quella terra, ma fare il contadino adesso è come fare l'industriale e con 5 ettari di terra non lo fai: un trattore, anche usato, vale di più di tutta la terra che abbiamo. Forse se avessi ereditato l'attrezzatura qualche cosa sarei riuscito a fare, partire da zero, invece, è una cosa da pazzi.
Ho pensato di coltivare la paulonia, una pianta che si usa soprattutto in nautica perché il suo legno ha la caratteristica di bere pochissimo; una pianta che cresce velocemente, ma ha bisogno di molta lavorazione, perché ogni volta che gemma devi togliergli le gemme, non deve avere i nodi eccetera. Per coltivarla però hai bisogno di un impianto di irrigazione che ci metti 10 anni a ripagare.
Da un sacco di anni faccio il gelatiere: prima la gelateria era mia, adesso lavoro in una gelateria di un'altra persona.
Però ho intenzione in qualche modo di riavvicinarmi alla terra, perché in fondo è la mia vita.
Coltivo zafferano per diletto. Lo zafferano è una piantaccia, se solo gli lasci il terreno asciutto cresce dappertutto.
Ho provato ad allevare lumache, andava anche bene, ma in pratica è come se avessi aperto un ristorante per ratti e topi. Hanno capito che c'era tanto da mangiare ed è stata un'invasione. Trovavo tutti i gusci rosicchiati.
Ho allevato cani per un sacco di anni, cani da show, da expo. Ho allevato weimaraner e bassotti a pelo lungo. Se potessi e avessi le energie sarei pieno di animali: cani, capre pecore, alpaca asini. Anche le galline di razza particolare mi piacciono.
Antonello Rostagno con alcuni weimaraner... |
... e con un bassotto a pelo lungo. |
o due pecore, Oscar e Mario. Due anni fa ho dovuto tagliare tanta di quell'erba che ho deciso che bisognava trovare il modo di tagliarla senza dover fare tutto quel lavoro. Allora ho portato a casa Oscar e Mario che ci pensano loro: ho messo in pensione la falciatrice a filo e ho preso quella "a pelo", Oscar e Mario appunto. Devi dargli solo un po' di fieno in inverno, che non apprezzano molto, ma piuttosto che morire di fame lo mangiano.
Prima o poi avrò un asino, anzi due.
Oscar e Mario al lavoro |
* Racconto orale di Antonello Rostagno, registrato nel marzo del 2021. Salvo le ultime tre, le fotografie di questo articolo sono di Denise Motta.
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