Questa è la tesi di laurea in “Operatore del turismo culturale” che Romina Villa ha discusso il 25 giugno 2013 all’Università degli Studi di Ferrara.
Romina - che vive a Verderio, è nata il 3 aprile 1967, è sposata con Gianfranco e ha un figlio, Gianluca, di 18 anni – ha sempre lavorato nell'editoria, in particolare nei settimanali femminili, prima “Gioia” e ora “Elle”.
Si è iscritta all’Università dopo i quarant’anni, potendola frequentare, continuando a lavorare, grazie alla frequenza a distanza: “Non è stato facile. Gianluca era piccolo e il mio lavoro è sempre stato molto impegnativo. L'appoggio della mia famiglia e dei miei amici è stato fondamentale”.
A Ferrara ha trovato un corso in grado di unire la sua passione per i viaggi con le sue materie di elezione, in particolare la storia dell'arte
“Mi sono iscritta per pura passione – racconta - poi con il tempo, confrontandomi spesso con i compagni di corso, ho capito che la passione poteva diventare anche un lavoro. Infatti dopo la laurea ho preso il patentino di guida turistica ed oggi sto cercando di sviluppare il mio piano B. La Brianza "operosa" sta scoprendo solo in questi anni la sua vocazione per il turismo, in particolare quello culturale e sono certa che tanto avrà da dire in futuro”.
La tesi è stata l'occasione per approfondire la figura di un grande della storia che per vari periodi della sua vita ha vissuto e lavorato nei nostri territori. Un argomento che l’ha appassionata, tanto che i suoi studi su Leonardo non si sono fermati lì.
Romina è attiva anche in paese: oggi è al suo secondo mandato come presidente della giovane Proloco di Verderio. M.B.
La tesi di Romina Villa è qui pubblicata pressoché integralmente. Le modifiche che ho apportato sono dovute al fatto che, per le caratteristiche del blog, il testo non è suddiviso in pagine. Perciò ho tralasciato di indicarle nel sommario, non ho pubblicato l'indice analitico e ho trasformato le note piè di pagina in note a fine testo.
Mi sono permesso anche di aggiungere al testo le prime tre fotografie. M.B.
LEONARDO DA VINCI E GLI STUDI IDRAULICI. UN ITINERARIO LUNGO IL MEDIO CORSO DELL'ADDA.
SOMMARIO
Premessa
Introduzione
Cronologia della vita e delle opere di Leonardo
LEONARDO DA VINCI E LA SCIENZA. DA ARTISTA E INVENTORE A TEORICO DELLA NATURA. L’EVOLUZIONE INTELLETTUALE ATTRAVERSO L’ESPERIENZA DEI SOGGIORNI MILANESI
La lettera di presentazione al Duca di Milano
Leonardo e l’importanza dell’esperienza formativa nella bottega del Verrocchio
I rapporti con Lorenzo il Magnifico e il neoplatonismo della corte medicea
Leonardo lascia Firenze per Milano
Milano e gli Sforza
Il difficile esordio sulla scena milanese
L’accettazione a corte e il compimento di una brillante carriera
Leonardo e Donato Bramante
Leonardo e Luca Pacioli
Leonardo e Francesco di Giorgio Martini
LEONARDO E L’ACQUA. DALLA PRATICA ALLA FORMULAZIONE TEORICA
La natura come essere vivente alla base del metodo scientifico
Gli studi idraulici nei manoscritti leonardeschi
Acqua vettore e matrice di vita
Acqua come risorsa economica e fonte di energia
Dall’ingegneria idraulica allo studio scientifico dei flussi. Il contributo di Leonardo
Esperienza e processi mentali
I risultati di Leonardo nell’ingegneria idraulica lombarda
Il secondo soggiorno milanese
Gli studi per rendere navigabile l’Adda
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SULLE ORME DI LEONARDO. L’IMPRONTA DEL GENIO IN UN ITINERARIO LUNGO IL MEDIO CORSO DELL’ADDA
Il Parco Adda Nord. L’ambiente naturale e i caratteri storico-culturali
L’Ecomuseo di Leonardo
Il traghetto di Imbersago
Il ponte in ferro di Paderno
Il Naviglio di Paderno
La chiesa di Santa Maria della Rocchetta
Le centrali idroelettriche. Bertini, Esterle, Taccani
Il villaggio operaio di Crespi
Verso Vaprio
Appendice. I manoscritti leonardeschi
Indice analitico
Bibliografia Sitografia
Ringraziamenti
***
Costruire una sintesi di questo Grande
nell’ignoranza di tanta parte di ciò che pensò
e scrisse e nella scarsezza di monografie
coscienziose, sarebbe opera vana; né io volli
tentarla.
Edmondo Solmi “Leonardo” (1923)
nell’ignoranza di tanta parte di ciò che pensò
e scrisse e nella scarsezza di monografie
coscienziose, sarebbe opera vana; né io volli
tentarla.
Edmondo Solmi “Leonardo” (1923)
PREMESSA
Ernst H. Gombrich, in un saggio che dedicò a Leonardo da Vinci, scrisse: «Si dovrebbe essere Leonardo per discutere qualsiasi aspetto di Leonardo; e anche in questo caso non si arriverebbe probabilmente mai a una conclusione»(1). Parole che suonano come un ammonimento a chiunque si appresti ad affrontare l’opera vinciana, spesso fonte di dubbi e incertezze.
Leonardo è universalmente chiamato «il genio», ma nessuno come lui seppe condensare nel suo agire la vera essenza dell’essere umano, ricercando con inesauribile tenacia la verità delle cose. «Questo è il vero motivo» - ebbe a scrivere una volta Mario De Micheli - «per cui possiamo ritenerlo un contemporaneo a tutti gli effetti»(2).
Fin dalla sua prima apparizione sulla scena fiorentina, dimostrò di aver appreso la lezione del primo Rinascimento e dell’Umanesimo che aveva spalancato le porte alla visione di un uomo nuovo che ora rifiutava l’ideologia medievale e i suoi rigidi principi teologici, per andare ad occupare il centro della realtà visibile. Per Leonardo, tuttavia,l’uomo riveste un ruolo di comprimario nel complesso e mirabile sistema della natura,che egli cercherà di indagare in tutti suoi aspetti con una carica intellettuale e una meticolosità pari a pochi.
La comprensione del suo pensiero non può prescindere dallo studio dei suoi manoscritti (3). I quaderni, in cui si sono condensati gli studi di tutta una vita, testimoniano l’incursione di Leonardo in ogni campo della scienza allora conosciuta (o filosofia naturale, com’era chiamata allora) e da sempre hanno suscitato la meraviglia degli studiosi tanto quanto quella suscitata dalla sua produzione pittorica, peraltro ridotta a un numero limitato di opere. I codici leonardeschi sono un concentrato impressionante di scritti e disegni, che raccolgono non solo le riflessioni sapienti sui fenomeni da lui osservati, ma anche note che rimandano alla quotidianità, il tutto in una specie didisordine apparente, reso ancor più ostico dalla tipica scrittura speculare. Queste «stratificazioni cronologiche oltre che d’argomenti» (4) che a prima vista confondono il lettore, si fanno più chiare proseguendo la loro scoperta;testimoniano innanzitutto «l’universalità del genio leonardesco» e spianano la strada alla conoscenza di quelmetodo scientifico che egli elaborò e di cui si parlerà più approfonditamente nelle pagine che seguono. Un metodo che presupponeva un’indagine posta su differenti livelli e campi del sapere in un continuo e inevitabile confronto tra di essi.
Alla morte di Leonardo, avvenuta il 2 maggio 1519 ad Amboise in Francia,i manoscritti (si ritiene fossero 13mila fogli) e la biblioteca furono ereditati per via testamentaria dal discepolo e amico Francesco Melzi d’Eril (5) che li riportò in patria dove vennero gelosamente conservati nella villa di Vaprio d’Adda, vicino a Milano. Negli anni seguenti Melzi cercò di riordinare l’ingente materiale, distinguendo i fogli con lettere alfabetiche o sigle e aggiungendo personali osservazioni. Dando realtà poi ad un’intenzione mai realizzata del suo maestro, il fedele discepolo lesse e organizzò i fogli dedicati alla pittura costituendo il famoso Trattato che un amanuense trasferì nel codice Urbinate (ora Vaticano 1270).
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La dispersione dei manoscritti cominciò inesorabile dopo la sua morte avvenuta nel 1570, quando gli eredi non compresero il valore di quei documenti e ne permisero l’asportazione sistematica dalla soffitta della villa, dove erano stati nel frattempo relegati. La vicenda dei codici è complessa, a tratti avvincente, e merita una trattazione a parte. Per più di due secoli, chiunque entrò in possesso dei manoscritti, cercò di riordinarli secondo criteri discutibili, ritagliando e assemblando arbitrariamente i fogli, costituendo raccolte ex novo suddivise per argomento. Si stima che almeno metà dei
manoscritti siano andati perduti durante i vari passaggi di mano, tra una nazione e l’altra dell’Europa. Oggi si conservano circa 6000 fogli. Le collezioni più consistenti si trovano in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Stati Uniti (6).
Tornando infine all’incertezza e ai dubbi espressi all’inizio di questa riflessione, appare saggio rivolgersi proprio a Leonardo per cominciare a dipanare la matassa. Egli scrisse:
«Noi conosciamo chiaramente, che la vista è delle veloci operazioni che sia, e in un punto vede infinite forme, nientedimeno non comprende se non è una cosa per volta.Poniamo caso: tu, lettore, guarderai in una occhiata tutta questa carta scritta, e subito giudicherai, questa essere piena di varie lettere, ma non conoscerai in questo tempo,che lettere sieno, né che voglian dire; onde ti bisogna fare a parola, verso per verso, a voler avere notizia d’esse lettere; ancora se vorrai montare a l’altezza d’un edifizio ti converrà salire a grado a grado, altrimenti fia impossibile pervenire alla sua altezza. E così dico a te, il quale la natura volge a quest’arte, se vogli avere vera notizia delle forme delle cose, comincerai alle particule di quelle, e non andare alla seconda, se prima non hai bene nella memoria e nella pratica la prima; e se altro farai, getterai via il tempo e veramente allungherai assai lo studio. E ricordoti ch’impari primo la diligenza, che la prestezza» (7).
La conoscenza si raggiunge facendo piccoli passi, uno dietro l’altro. E senza fretta.
INTRODUZIONE
La riscoperta dell’opera di Leonardo da Vinci ebbe inizio nel XIX secolo, quando i suoi quaderni - o meglio, ciò che rimaneva di tutto il materiale ereditato da Francesco Melzi dopo la sua dispersione - rivide la luce dopo secoli di oblio. Dalle polverose collezioni private i manoscritti vinciani presero la via delle grandi istituzioni culturali pubbliche, come i musei, le biblioteche nazionali e gli archivi di Stato, che da allora promuovono lo studio e la divulgazione della sua opera.
Nell’odierno immaginario collettivo Leonardo da Vinci continua ad occupare un posto di primaria importanza; nonostante la storiografia recente abbia ridimensionato il suo contributo di inventore e di scienziato, sbriciolando luoghi comuni nati più dalla leggenda che da certezze storiche, la sua popolarità non conosce battute d’arresto.
Dei seimila fogli manoscritti che sono pervenuti a noi, gli studiosi ne hanno studiato ogni riga e analizzato ogni disegno, mettendo a confronto l’opera di Leonardo con quella dei suoi contemporanei; eppure l’estrema complessità del suo pensiero, unita alla scarsità di notizie certe, generano continue revisioni e nuove ipotesi da parte della critica, costretta a esprimersi su di lui sempre con molte riserve.
Per il mondo scientifico quindi Leonardo da Vinci rimane una sfida e una fonte di probabili sorprese; nel 1967, la casuale scoperta di nuovi manoscritti presso la Biblioteca Nacional di Madrid ha da allora nutrito la speranza di ritrovare altro materiale, che potrebbe – ancora una volta – rimettere in discussione le tesi finora affermate e svelare l’incerto. Per il grande pubblico, Leonardo rimane una superstar, il genio unico e inarrivabile. E l’artista che ha dipinto il quadro più famoso di tutti i tempi.
Leonardo e Milano. Nelle pagine che seguono si è deciso di analizzare l’evoluzione del pensiero scientifico di Leonardo alla luce delle sue esperienze di vita e di lavoro in Lombardia come tecnico e ingegnere, prima al servizio di Ludovico il Moro (1482-1499) poi come celebrato artista presso la corte francese a Milano (1506-1513). Questi due lunghi soggiorni, che messi insieme corrispondono a più di un terzo della sua esistenza, vedono la sua lenta e difficoltosa trasformazione da inventore e ingegnere praticante a teorico della scienza.
L’analisi della sua evoluzione intellettuale ci offre l’occasione per mettere in luce un lato di Leonardo meno noto, o, se vogliamo, quello debole. E’ difficile – ad esempio -immaginarsi il genio per eccellenza in difficoltà, nel tentativo di farsi notare alla corte sforzesca o intento a colmare le sue carenze di formazione con studi tardivi. La storiografia recente ci ha restituito un Leonardo diverso, forse più “umano” ma proprio per questo, più straordinario. Curiosità scientifica e tensione intellettuale uniche gli hanno permesso di oltrepassare dei confini come nessun altro prima di lui aveva saputo fare.
Leonardo e l’acqua. La progressione delle sue conoscenze e il passaggio dalla pratica alla teoria scientifica si può ravvisare con chiarezza negli appunti e nei disegni che trattano il tema delle acque. L’acqua, in tutti i suoi significati, fu insieme alla pittura,l’argomento di studio prediletto da Leonardo. Per comprendere meglio il suo approccio alla scienza ci si è domandati in queste pagine cosa hanno significato per lui l’elemento acqua con le leggi fisiche e meccaniche che da essa derivano, seguendo quell’intreccio tra invenzioni ingegneristiche e teorie sul moto dei fluidi che, come un filo conduttore, attraverserà tutto l’arco della sua carriera.
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Leonardo e l’Adda. Acqua significa fiume e fiume significa Adda. E’ la storia di un incontro vissuto soprattutto durante il secondo soggiorno milanese, quando per un periodo Leonardo fu ospite a Vaprio d’Adda presso la villa del nobile Girolamo Melzi, padre dell’allievo prediletto Francesco. Nei territori abduani si dice che questo fiume sia “femmina”, ed è proprio nel tratto tra Lecco e Vaprio (quello – per intenderci -frequentato e studiato da Leonardo) che l’Adda manifesta i tratti “femminili”, perché come una donna, ora è placida, ma un attimo dopo diventa capricciosa; così le sue acque tranquille nel giro di pochi chilometri si fanno turbolente e si vorrebbero imbrigliare e domare, come anche Leonardo progettò di fare.
Egli rimase affascinato da questo fiume e dalla natura che lo circonda. Ne furono contagiate sia la sua arte sia la sua scienza. Oggi è possibile rivivere le sue sensazioni percorrendo un itinerario – esclusivamente ciclo-pedonale – che segue il corso del fiume, a sud del lago di Lecco e prosegue per poco meno di trenta chilometri in un ambiente naturale di selvaggia bellezza, tra gli echi della presenza di Leonardo e le opere che l’uomo ha saputo fare dopo di lui seguendo il suo esempio, per sfruttare il fiume senza danneggiare l’ambiente circostante. Una vera fortuna questa, se si pensa a quanto siano state antropizzate queste zone.
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CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE DI LEONARDO (8)
1452 – Leonardo nasce il 15 aprile ad Anchiano, frazione di Vinci, nei pressi di Firenze. Figlio illegittimo di Ser Piero da Vinci, notaio, e di una giovane contadina di nome Caterina. E’ allevato dal nonno paterno e dallo zio Francesco, ed educato secondo le consuetudini borghesi. Essendo figlio naturale, non può accedere agli studi universitari, ma per tutta la vita cercherà di colmare la mancanza di una dotta istruzione.
Primo periodo fiorentino 1464/1469 – Dopo la morte del nonno va a vivere con il padre a Firenze, il quale –intuito il talento del figlio – lo introduce nella bottega di Andrea del Verrocchio, a quel tempo tra le più prestigiose in città. Lì Leonardo fa il suo apprendistato con Botticelli, Perugino e Lorenzo di Credi.
1472 – Il nome di Leonardo compare negli elenchi della corporazione dei pittori fiorentini, quella di San Luca. Continua comunque a lavorare nella bottega del Verrocchio. La formazione prevede non solo l’esercizio della pittura, ma anche quello del disegno. Apprende differenti tecniche di scultura, di oreficeria e nozioni di meccanica, ingegneria e architettura.
1473 – E’ datato 5 agosto un disegno a penna raffigurante una Veduta della Valdarno (Firenze, Galleria degli Uffizi). E’ la prima opera datata e firmata dell’artista a noi nota. Il disegno preannuncia i fondamenti di tutta la produzione vinciana con due importanti innovazioni: il paesaggio, fino ad allora concepito nel campo dell’arte come elemento secondario, assume il ruolo di protagonista della composizione. E’ inoltre un ritratto reale e non composto attraverso un processo mentale dell’artista. Inizia così la ricerca da parte di Leonardo della resa dell’atmosfera e dell’effetto vibrante dell’aria.
1473/1475 – Un olio su tavola raffigurante l’Annunciazione (Firenze, Galleria degli Uffizi) testimonia il superamento dell’esperienza condotta presso la bottega del Verrocchio. Leonardo si lascia alle spalle l’uso della linea di contorno tipica della pittura fiorentina (che si basa sul disegno) e intraprende la sperimentazione della fusione tra luce e ombra. E’ l’origine del cosiddetto «sfumato», una peculiarità di Leonardo che raggiungerà la perfezione nelle opere del periodo milanese.
1474/1478 – Il Ritratto di Ginevra de’ Benci (Washington, National Gallery) propone uno schema differente rispetto ai consueti canoni fiorentini. La nobildonna è ritratta in figura a tre/quarti e collocata in un suggestivo ambiente naturale che si dissolve in una luce azzurrina. Lo stile rivoluzionario di Leonardo si evidenzia in un'altra opera commissionata al Verrocchio e realizzata con l’ausilio degli allievi. E’ il Battesimo di Cristo (Firenze, Galleria degli Uffizi) in cui si riconosce la mano di Leonardo nella morbida resa dell’angelo visto di profilo e della rarefatta atmosfera del paesaggio che
circonda la scena del battesimo.
1478/1481 – Risalgono a questo periodo i primi scritti e i primi disegni oggi riferibili al Codice Atlantico e ai fogli conservati nella raccolta di Windsor. Nonostante la giovane età, i suoi appunti mostrano già elaborazioni teoriche complesse che spaziano dalla scienza meccanica alla matematica, dall’astronomia alla fisica, dalla botanica all’anatomia. Compaiono anche le prime invenzioni. Nel 1481 i monaci del convento di San Domenico a Scopeto gli commissionano l’Adorazione dei Magi (Firenze, Galleria degli Uffizi). L’opera, un olio su tavola, rimarrà incompiuta, ma rivoluzionerà nella composizione e nel suo significato più profondo l’iconografia di uno dei temi pittorici più in voga dal 1300. Laddove i dettami dell’epoca prevedevano il tradizionale corteo di
personaggi in adorazione, Leonardo sostituisce una folla in tumulto attorno alle figure placide della Madonna e il Bambino. Le espressioni dei volti, i cavalieri in affanno e i ruderi che fanno da sfondo testimoniano lo stupore e lo sbigottimento per la venuta sulla terra del Figlio di Dio. E’ il manifesto della sua poetica e della sua capacità di trasporre sui volti i moti dell’animo umano. Sono di questo periodo altre importanti opere tra cui
spiccano: la Madonna con Bambino o Madonna Benois (San Pietroburgo – Ermitage) in cui colpiscono la familiarità dei gesti e gli scambi affettuosi tra Maria e il Bambino; e il San Girolamo (Roma – Pinacoteca Vaticana), incompiuto. Per Leonardo però sembra essere giunto il tempo di grandi cambiamenti.
Primo periodo milanese 1482 – Leonardo lascia Firenze per Milano. Secondo le fonti è Lorenzo il Magnifico che lo invia come ambasciatore alla corte di Ludovico il Moro. Per Leonardo però è anche l’occasione per allontanarsi dall’ambiente delle speculazioni intellettuali che caratterizzano la cerchia del Magnifico e nel quale egli non è mai riuscito ad inserirsi.
La corte sforzesca gli appare come il luogo ideale in cui poter approfondire i suoi studi scientifici. Milano è una città vivace e piena di stimoli. Il Moro è un ottimo stratega e intrattiene rapporti diplomatici con le corti di tutta Europa. Nel Codice Atlantico è contenuta una lettera – ritenuta autentica anche se non è autografa – in cui, offrendosi al servizio di Ludovico, egli elenca le sue capacità di inventore e architetto, esperto nei campi della meccanica e dell’ingegneria militare. C’è solo un accenno alle sue doti artistiche e questo la dice lunga sul ruolo che Leonardo ambisce a ricoprire a corte.
1483 – Insieme ai fratelli Evangelista e Ambrogio De Predis firma un contratto con i frati dell’Immacolata Concezione per la decorazione di una pala d’altare. Gli è affidata la parte centrale del trittico che prevede la Madonna con il Bambino, ma contravvenendo alle precise indicazioni stilistiche e di contenuto ordinate dai frati, dipinge un’opera destinata a scatenare il malcontento dei committenti. Aveva dipinto la Vergine delle rocce (Parigi, Louvre). La tavola raffigura l’incontro tra il Battista Bambino che si reca nel deserto e Gesù di ritorno dall’Egitto. I due infanti e la Vergine formano un gruppo reso omogeneo da un mirabile gioco di gesti, uniti in uno schema a piramide. Tutt’attorno la natura composta da rocce, acque correnti e vegetazione,
modulata da un uso sapiente di luci ed ombre, rivela uno studio meticoloso dei fenomeni naturali.
1484/1488 – Milano è colpita da un’epidemia di peste. Leonardo si dedica ad un lungo programma di studi (ottica, botanica, urbanistica, volo degli uccelli, geologia). Conosce Donato Bramante con il quale collabora al progetto per il tiburio del Duomo. Sono di questo periodo due opere significative: Ritratto di musico (Milano, Pinacoteca Ambrosiana) e Dama con l’ermellino (Cracovia, Czartoryski Museum). Quest’ultima raffigura Cecilia Gallerani, la favorita di Ludovico. Con questo ritratto conquista il pieno favore del Moro e una certa notorietà, anche fuori dai confini del Ducato.
1489/1490 – Ludovico gli affida il compito di realizzare una statua equestre per onorare il padre Francesco I. Leonardo si dedica anima e corpo al progetto di un monumento in bronzo di grandi dimensioni; compie studi accuratissimi sull’anatomia e il movimento del cavallo rintracciabili in molti suoi disegni, ma si applica a questo progetto in maniera incostante, tanto da indurre il Moro a sollecitare più volte la consegna.
Leonardo è però molto impegnato a corte. Tra i lavori degni di nota c’è la realizzazione dell’allestimento per la Festa del Paradiso, una rappresentazione allegorica i cui versi sono scritti dal poeta Bernardo Bellincioni e messa in scena in occasione del matrimonio tra Gian Galeazzo, il legittimo erede del ducato, e Isabella d’Aragona, nipote del re di Napoli. In questi anni approfondisce i suoi studi di anatomia (cranio,stimoli visivi, sistema nervoso, muscoli) e quelli concernenti le proporzioni umane (disegna L’Uomo vitruviano). Conosce l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini, del quale Leonardo conosce bene il Trattato di architettura e che sarà una figura fondamentale per la sua formazione; con lui si reca a Pavia per compiere studi sul duomo in costruzione; la città è un forte stimolo per l’artista: studia il corso del Ticino e le piante di numerose chiese; visita la prestigiosa biblioteca dell’università dove conosce e allaccia proficue relazioni con alcuni dotti come il matematico Fazio Cardano e il pittore Agostino da Pavia.
1491/1494 – Leonardo è impegnato nell’organizzazione dei festeggiamenti per il matrimonio di Ludovico con Isabella d’Este, ma allo stesso tempo lavora alla
realizzazione di un modello in argilla del cavallo, che – date le imponenti dimensioni – viene chiamato il «colosso». I problemi su questo fronte sono notevoli: il progetto è fin troppo ambizioso e per questo motivo viene rivisto più volte. Sono necessari studi approfonditi sulla fusione dei metalli e complicati calcoli matematici per scongiurare il fallimento totale del progetto. Nel frattempo compie un viaggio, probabilmente al seguito della duchessa Bianca Maria – figlia illegittima di Ludovico – destinata a sposare a Vienna l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo. Visita il lago di Como e la
Valtellina, descrivendo meravigliato nei suoi appunti la Fonte Pliniana,l’orrido di Nesso, Fiumelatte e Bellagio. Non è comunque il suo unico viaggio di questo periodo:nel 1494 si reca a Vigevano per seguire i lavori di ristrutturazione del castello sforzesco.
E’ in questi anni che Leonardo matura il suo interesse per le acque. Al suo arrivo a Milano aveva già avuto modo di osservare le imponenti opere di canalizzazione realizzate sotto il dominio dei Visconti in tutto il territorio. Il suo contributo come ingegnere ducale prevede dunque anche gli interventi di miglioramento della fitta rete idrica, così importante per l’economia del ducato.
1495/1497 – Gli viene affidato l’incarico di affrescare il refettorio dei Frati Predicatori presso il complesso di Santa Maria delle Grazie, la cui chiesa aveva già raggiunto il massimo splendore con la realizzazione della cupola firmata da Bramante. Il tema è quello dell’Ultima Cena di Gesù e gli apostoli. Leonardo esegue numerosi schizzi preparatori e sceglie con cura i modelli. La leggenda lo vuole aggirarsi tra i vicoli della città alla ricerca dei volti che possano incarnare i personaggi del sacro banchetto. La fretta è sua nemica e nelle sue opere è abituato a procedere con lentezza. Proprio per questo motivo non sceglie la consueta tecnica dell’affresco, ma decide di usare i colori a tempera per poter lavorare sull’intonaco asciutto e poter operare così gli opportuni aggiustamenti richiesti dai suoi continui ripensamenti. Fu un tragico errore ed è risaputo che l’opera cominciò a deteriorarsi solo dopo pochi anni dal suo compimento. I disastrosi interventi di restauro operati nei secoli e il lavoro di recupero dell’originale compiuto da Pinin Brambilla nell’arco di un ventennio a partire dal 1977, mostrano oggiun’opera sostanzialmente diversa (soprattutto nella resa del colore) da quello che dovette sembrare allora, ma certo rimane un’opera che desta stupore e meraviglia, così com’era capitato per i contemporanei di Leonardo che avevano visto l’opera. Con intensa tensione drammatica, egli dipinge il momento immediatamente successivo alle parole del Cristo che annuncia il tradimento. Gli apostoli sono pervasi da un’intensa
emozione e i loro volti mostrano reazioni diverse. La scena sembra prendere vita nel refettorio grazie anche al mirabile gioco di prospettiva che prolunga lo spazio reale e che lo fa sconfinare in un paesaggio luminoso appena scorto attraverso una finestra dipinta sul fondo. Nel frattempo a Milano era giunto dalla Toscana un frate domenicano, Luca Pacioli, un matematico già attivo in molte città della penisola, considerato uno dei più eminenti studiosi di aritmetica ed algebra del tempo. L’incontro con il Pacioli è fondamentale per Leonardo; è una profonda amicizia destinata a durare nel tempo e che permetterà a Leonardo di approfondire i suoi studi matematici, in particolare la teoria di Euclide. Sono di Leonardo le mirabili illustrazioni dei poliedri nel trattato «De divina proportione» che il Pacioli scriverà di lì a poco e che oggi ritroviamo anche nel Codice Atlantico. Di questi anni è il noto ritratto ad un’altra
favorita di Ludovico, Lucrezia Crivelli, conosciuto oggi con il titolo di «Belle Ferronnière» (Parigi, Louvre).
1499 – La situazione politica del ducato si è fatta difficile. I Francesi, già scesi in Italia qualche anno prima alla guida di Carlo VIII, rivendicano i diritti della casata d’Orléans, imparentati un tempo con i Visconti e reclamano Milano con i suoi territori. Il re Luigi XII si allea con i veneziani e mette a capo del suo esercito il nobile milanese Giangiacomo Trivulzio. A settembre i Francesi entrano in città, costringendo il Moro a fuggire. Dopo diciassette anni al servizio di Ludovico, a dicembre Leonardo lascia Milano con Lucia Pacioli e uno dei suoi allievi, il Salaì. Il gigantesco modello del cavallo è distrutto dai soldati francesi e cala per sempre il sipario sulle vicende della
dinastia degli Sforza.
Secondo periodo fiorentino 1500 – Durante gli ultimi giorni a Milano, Leonardo aveva provveduto a trasferire i suoi risparmi a Firenze con l’intenzione di ritornarvi. Prima di arrivarci fa però tappa a Mantova e poi a Venezia. A Mantova è ospite di Isabella d’Este, che in passato aveva avuto modo di ammirare il dipinto raffigurante Cecilia Gallerani; non esita quindi a chiedere per lei stessa un ritratto. Leonardo ricambia l’ospitalità ricevuta schizzando su un cartone il volto di Isabella con la promessa di ritrarla, cosa che mai fece, nonostante le continue richieste della marchesa che giungeranno a Leonardo tramite i suoi
ambasciatori. A Venezia propone i suoi servigi come ingegnere militare ed ha anche l’opportunità di visitare l’entroterra della Repubblica, studiando in particolar modo i corsi d’acqua. Nel Codice Atlantico possiamo oggi ravvisare i progetti militari (tra cui il noto palombaro) che egli fece in gran segreto per i veneziani impegnati a difendere i confini orientali dal pericolo turco. A primavera è già a Firenze, dove risiede probabilmente presso il complesso della Santissima Annunziata, ospite dei Frati Serviti.
1502 – Su incarico di Cesare Borgia, comandante generale delle truppe papali, si reca in Romagna, dove svolge principalmente il ruolo di architetto ed ingegnere militare.
Disegna una mappa di Imola. Visita Pesaro e Urbino. Si ferma a Cesena dove fa dei rilievi per le fortificazioni della rocca. Progetta il porto di Cesenatico e ne segue i lavori.
E’ durante questo soggiorno che conosce Niccolò Machiavelli, con il quale condivide parte del viaggio.
1503/1505 - Di ritorno a Firenze è incaricato dal gonfaloniere della Repubblica Pier Soderini di affrescare una parete nella Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio. La rinata repubblica fiorentina vuole celebrare il suo glorioso passato affidando a Leonardo il tema storico della Battaglia di Anghiari, che nel 1440 vide i fiorentini aver la meglio sull’esercito milanese. Ad un altro grande artista, Michelangelo, è affidata la decorazione di un’altra parete della sala con la rappresentazione della Battaglia di Cascina, avvenuta nel 1364 tra fiorentini e pisani. Secondo il Vasari, tra i due «era sdegno grandissimo» ed è facile supporre quanta rivalità ci fosse anche in questa occasione. E’noto però che entrambi non portarono a termine l’incarico. Michelangelo lasciò solo un cartone prima di ripartire per Roma nel 1506. Per quanto riguarda Leonardo, il suo affresco – di nuovo realizzato con tecniche sperimentali – non viene terminato e nel 1563, già in rovina, scomparirà dalla parete con le modifiche apportate alla sala da Vasari. Grazie ad alcuni suoi schizzi e a copie realizzate dai contemporanei, sappiamo che l’artista aveva, ancora una volta, dipinto un’opera di grande potenza figurativa e di forte impatto emotivo, esaltato da un vortice di uomini e cavalli avvinghiati tra loro nel momento più terrificante della battaglia. Gli impegni con la Repubblica non si limitano però alle commissioni artistiche. Per Firenze svolge compiti di ingegnere idraulico e militare. Viaggia infatti per tutta la Toscana, in stretto contatto con Machiavelli; progetta fortificazioni per Piombino e anche un’ambiziosa deviazione dell’Arno per mettere in difficoltà gli eterni nemici pisani. Nel 1504 riceve la notizia della morte del padre che sarà presto motivo di contrasto con i fratelli per via della contestata eredità. Intanto il grandioso progetto di deviazione dell’Arno prende avvio tra mille difficoltà con l’impegno di ingenti mezzi economici e centinaia di uomini. Il fallimento è dietro le porte e causa un raffreddamento dei rapporti con le autorità fiorentine, che cominciano a dubitare di lui. Anche i lavori dell’affresco a Palazzo
Vecchio vanno a rilento tra mille difficoltà. Le opinioni su Leonardo vanno più o meno tutte nella stessa direzione; il malcontento è evidente e, tra le accuse di essere troppo lento e di portare avanti progetti irrealizzabili, nessuno immagina quali “assurdità” –almeno per quel tempo – riempiano la mente dello scienziato. Un sogno lo ossessiona fin da quando era bambino: librarsi nell’aria come un uccello. Nel Codice sul volo degli uccelli, oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, sono fissate le importanti teorie leonardesche sul moto dei corpi nell’aria. Ancora una volta quindi, è pronto a
lasciare Firenze.
Secondo periodo milanese
1506/1508 – E’ di nuovo a Milano, questa volta al servizio del re di Francia; il governatore del ducato Carlo d’Amboise, suo grande ammiratore, l’ha reclamato a corte. Si tratta inizialmente di un permesso di trasferimento temporaneo, concesso dai fiorentini che ancora pretendono da lui di terminare la Battaglia di Anghiari. Questa volta a Milano Leonardo si trova in una condizione privilegiata; gli sono messi a disposizione tempo e denaro che egli utilizza principalmente per approfondire i suoi studi sulle acque; sta meditando di raccogliere i suoi appunti sull’argomento in un unico Trattato. Nel 1507 conosce Francesco Melzi d’Eril, un giovane nobile che diventerà presto suo allievo prediletto e seguace. Per alcuni mesi soggiorna presso la villa Melzi a
Vaprio d’Adda. In questo periodo ha modo di studiare il fiume Adda e i territori circostanti. A Windsor si conservano numerosi disegni che ritraggono il paesaggio abduano e i suoi progetti idraulici per rendere navigabile il fiume in questo tratto.
Continua inoltre la oramai ventennale disputa con i frati domenicani per la Vergine delle Rocce; insieme ad Ambrogio de Predis mette a punto una nuova versione (Londra, National Gallery) che mira ad andare incontro alle richieste della committenza. Non mancano però trasferimenti temporanei a Firenze per portare avanti commesse e seguire gli affari di famiglia. Durante uno di questi soggiorni, compie l’autopsia sul corpo di un centenario presso l’ospedale di Santa Maria Nuova.
1509/1510- Al rientro a Milano, ricomincia a dipingere. Continua a lavorare su alcune opere iniziate nel precedente soggiorno a Firenze. Lì, quasi dieci anni prima aveva realizzato un cartone della Sant’Anna con la Vergine e il Bambino molto ammirato, tanto che Vasari racconta che «finita ch’ella che fu, nella stanza durarono duoi giorni di andare a vederla gli uomini e le donne, i giovani et i vecchi, come si va a le feste solenni, per vedere le meraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel popolo». Il cartone a cui si riferisce Vasari è perduto, ma sono noti studi che mostrano il Bambino intento a giocare con un agnellino. Un successivo e più noto cartone del 1508 (Londra, National Gallery) vede un San Giovanni Bambino in luogo dell’agnello. A Milano incomincerà il dipinto nella versione con l’agnello (Parigi, Louvre) intorno al 1510, per proseguirlo anni dopo in Francia e lasciandolo incompleto nella veste della Madonna.
Gli schemi geometrici studiati per il Sant’Anna si rinnovano in un’altra importante opera dal tema mitologico e purtroppo perduta, la Leda. L’importanza dell’opera è dedotta dai numerosi disegni preparatori che oggi ritroviamo in alcune collezioni e da opere successive realizzate dagli allievi, che utilizzarono l’impianto compositivo del maestro. Infine, un altro dipinto concepito a Firenze, continuato a Milano e portato con sé in Francia è la notissima Gioconda (Parigi, Louvre), la summa di tutta la poetica leonardesca, in cui si riflettono gli studi affrontati. Per Leonardo la pittura è una scienza,
il mezzo più appropriato per la resa del mondo sensibile, nonché della sua conoscenza più profonda. Sul fronte scientifico, è importante sottolineare l’incontro con un medico di Pavia che Leonardo frequenterà con assiduità fino alla morte improvvisa di questo; si tratta di Marcantonio della Torre che era noto i suoi corsi di anatomia tenuti nel prestigioso ateneo pavese.
1511/1513 – Nel dicembre del 1511 truppe mercenarie di soldati svizzeri alleate al papato invadono Milano e scacciano i Francesi. Leonardo lascia la città e si trasferisce a Vaprio d’Adda presso i Melzi, dove vi rimarrà per due anni. Qui continua gli studi sul moto delle acque e compie escursioni importanti per i suoi studi su rocce, fossili e piante. Risale il corso dell’Adda fino a Lecco, esplora la Valsassina dove visita le miniere. Esplora anche la Valtellina dove rimane affascinato dalle vette sempre innevate e dalle acque curative che sgorgano a Bormio, già conosciute ai tempi dei romani. Di questo periodo è noto anche uno studio architettonico per la ristrutturazione della villa dei Melzi. Intanto a Roma viene eletto un nuovo papa; si tratta di Giovanni de’ Medici –
figlio di Lorenzo - che sale al soglio pontificio con il nome di Leone X. Nello stile che contraddistingue la famiglia fiorentina, amante dell’arte, il nuovo papa chiama a Roma una schiera di artisti e letterati. E’ tanto l’entusiasmo e tanta la voglia di fare del pontefice, che non si risparmia in nulla. Anche Leonardo parte per Roma su invito di Giuliano de’ Medici, fratello di Leone X.
Il periodo romano 1513/1514 - A Roma risiede presso il Belvedere vaticano, dove Giuliano gli ha fatto preparare uno studio. E’ un artista venerato, ma costretto a misurarsi con i talenti più alla moda in quel momento nella corte papale, come il giovane Raffaello. Si sente per questo tagliato fuori dalle nuove dinamiche della committenza romana. A questo periodo si fa risalire il notissimo autoritratto in sanguigna su carta (Torino, Biblioteca Reale). Nonostante l’età, continua a viaggiare. A Civitavecchia studia il porto e visita le rovine. Si ha notizia anche di viaggi a Parma e nella pianura pontina per gli studi sulle bonifiche.
1515/1516 – Il nuovo re di Francia, Francesco I, riconquista Milano e i suoi territori. A Lione, durante un ricevimento per festeggiare il suo rientro dall’Italia, viene presentato un leone meccanico ideato da Leonardo, che dopo aver compiuto alcuni passi apre il petto dal quale cascano gigli bianchi, simbolo della casa reale di Francia. Intanto a Roma Leonardo comincia ad avere qualche problema con le autorità per via dei suoi studi di anatomia; gli viene revocato il permesso di eseguire autopsie. Nel marzo 1516 muore Giuliano de’ Medici e, ritrovandosi a Roma senza il suo protettore, decide di accettare l’invito di Francesco I a trasferirsi presso la sua corte in Francia, con il titolo di «peintre du roi».
Il periodo francese 1516/1519 – Parte per Amboise con Francesco Melzi e Salaì. Con sé porta tutti i suoi manoscritti, la sua biblioteca, nonché la Sant’Anna, la Gioconda, e il San Giovanni Battista (Parigi, Louvre), dipinto durante il soggiorno romano. Non farà mai più ritorno in Italia. Ad Amboise gli viene messo a disposizione un’ala del castello di Cloux; qui trascorre le giornate fra studi e progetti; ha intenzione inoltre di riorganizzare i suoi quaderni di appunti senza però mai riuscirci. Intanto comincia ad avere qualche problema di salute, ma continua a lavorare senza interruzione. Nel 1517 accompagna il re a Romorantin, dove sviluppa progetti per una nuova capitale del regno. Nello stesso anno riceve una visita dal cardinale Luigi d’Aragona e del suo segretario Antonio de
Beatis, che riporta l’evento nel suo diario. De Beatis riferisce delle precarie condizioni di Leonardo, ma allo stesso tempo non nasconde la sua meraviglia per l’enorme quantità di manoscritti che vede nello studio dell’artista.
1519 - Il 23 aprile, molto sofferente, si reca presso la corte reale per depositare il suo testamento. Il 2 maggio, a sessantasette anni, Leonardo muore. Viene sepolto, seguendo le sue ultime volontà, nel chiostro della chiesa di Saint-Florentin ad Amboise, andata poi distrutta. Francesco Melzi, nel ruolo di esecutore testamentario, scrive alla famiglia per dar loro la notizia. Nel testamento, oltre a dare precise istruzioni sul suo funerale, indica gli eredi dei suoi beni. Vengono citati i fedeli servitori, gli allievi a lui più vicini e pure i fratellastri che tanto l’avevano contrastato in vita. A Francesco Melzi il gravoso compito di riportare in Italia e custodire il preziosissimo patrimonio intellettuale.
Figura 1 – Leonardo da Vinci – Veduta della Valdarno – 1473 (Firenze, Uffizi) |
LEONARDO DA VINCI E LA SCIENZA
DA ARTISTA E INVENTORE A TEORICO DELLA NATURA L’EVOLUZIONE INTELLETTUALE ATTRAVERSO L’ESPERIENZA DEI SOGGIORNI MILANESI
Leonardo visse e lavorò a Milano per gran parte della sua vita. Due i suoi soggiorni: il primo dal 1482 al 1499 al servizio di Ludovico il Moro; il secondo a partire dal 1506 fino al 1513 sotto la protezione dei Francesi. In totale quasi venticinque anni di lavoro e studio che saranno fondamentali per la sua carriera, ma soprattutto per la sua essenza di uomo in continua ricerca.
La lettera di presentazione al Duca di Milano
«E se alcuna de le sopra dicte cose a alcuno paresse impossibile e infactibile, me òffero paratissimo a farne esperimento in el parco vostro, o in qual loco piacerà a Vostr’Excellenzia. A la quale umilmente quanto più posso me recomando»(9).
Con queste parole, Leonardo concluse la nota lettera di presentazione a Ludovico ilMoro, in occasione del suo trasferimento a Milano nell’inverno del 1492. La lettera nonè autografa, ma la sua autenticità è oggi ammessa universalmente dal mondoscientifico (10). Forse Leonardo aveva ritenuto saggio farsi aiutare nella stesura da qualcuno più avvezzo e preparato ai modi della lingua ufficiale e quindi essere il più convincente possibile, data la sua la sua ferma intenzione di proporsi al Moro come inventore di macchine belliche, ingegnere civile e architetto.
L’arte militare era questione di fondamentale importanza per un governante dell’epoca e, avere al proprio servizio i migliori ingegneri in quel campo, poteva garantire la necessaria sicurezza dei confini. L’interesse per le macchine da guerra si rintraccia già negli scritti giovanili di Leonardo e si riflette ampiamente nella lettera di presentazione.
Il documento contiene un lungo elenco di strumenti bellici e consigli per il loro utilizzo.
«Ho modi de ponti leggerissimi e forti e atti a portare facilissimamente; e con quelli seguire, e alcuna volta fuggire, li inimici» (11). E ancora «… occurrendo di bisogno, farò bombarde, mortari e passavolanti di bellissime e utile forme, fora dal comune uso».
Nella sua lettera, Leonardo scrive di macchine per l’attacco e la difesa a terra, nonché per i combattimenti sull’acqua; armi e strumenti per l’attacco a fortificazioni e per la difesa all’interno di esse.
Per i periodi di pace Leonardo si propone di «satisfare benissimo a paragone de omni altro in architettura, in composizione di edifici e pubblici e privati, e in conducer acqua da un loco ad un altro» (12), dichiarando quindi le sue abilità nei campi dell’architettura civile e dell’ingegneria idraulica. E infine un cenno alle sue abilità di pittore e di scultore, con la proposta di «dare opera al cavallo di bronzo» di cui aveva sentito già parlare, forse quando Ludovico il Moro era venuto a Firenze per partecipare ai funerali di Giuliano de’ Medici, fratello del Magnifico, assassinato nel 1478 da un gruppo di congiurati.
Martin Kemp parla di «ingenuo eccesso di fiducia nei propri mezzi». In uno dei suoi più noti libri dedicati all’artista (13), ci aiuta a riflettere sul testo della lettera. «Ma fino a che punto le sparava grosse per accattivarsi i favori del sovrano del più bellicoso stato dell’Italia rinascimentale?» (14). Appare del tutto improbabile – afferma Kemp – che Leonardo osasse esagerare nel presentare le sue credenziali nella città che a quel tempo era il più importante centro di fabbricazione delle armi e dove la professione del soldato era tenuta in gran conto.
La risposta va piuttosto ricercata nei suoi disegni, in particolar modo nel Codice Atlantico (Milano, Biblioteca Ambrosiana), ritenuto la più straordinaria raccolta di scritti e disegni di Leonardo, perché abbraccia totalmente la sua carriera per un arco di quarant’anni, dal 1478 fino al 1519, anno della sua morte. E’ quindi l’unico codice che testimonia in maniera completa gli interessi e l’evoluzione degli studi compiuti. Nello specifico, sono gli stupefacenti disegni giovanili (1478-1481) a mostrarci un interesse per le macchine belliche e per i dispositivi per il sollevamento dell’acqua; per le macchine utensili e in generale per la meccanica. In questo periodo i progetti ingegneristici la fanno da padrone, ma alcuni disegni – pochi per la verità, ma di fondamentale importanza – preannunciano gli studi teorici che Leonardo svilupperà negli anni a venire.
Fin da giovane inoltre, non ebbe mai problemi ad ammettere i debiti nei confronti di altri artisti o scienziati, tanto da copiare sui fogli i progetti di altri – come ad esempio quelli del Brunelleschi – quasi creando personale libro di testo, su cui sviluppare le proprie idee.
Leonardo e l'importanza dell'esperienza formativa nella bottega del Verrocchio.
Giorgio Vasari racconta che Ser Piero da Vinci, stupito dal talento di Leonardo nel disegnare e nel «fare di rilievo», chiese all’amico Andrea del Verrocchio se il figlio avrebbe potuto trarre profitto da queste abilità che «gli andavano a fantasia più d’alcun altra» (15). Quando il maestro vide i disegni che Ser Piero aveva portato con sé, fu impressionato dalle capacità del giovane e chiese al padre che venisse a bottega da lui.
Nella Firenze del Quattrocento le botteghe artigiane svolsero un ruolo fondamentale nell’ambito della produzione artistica e furono una tappa obbligata per gli artisti attivi lì durante il primo Rinascimento.
Nella città dei banchieri, dei fiorenti commerci e del mecenatismo della famiglia Medici, un nuovo stile di vita caratterizzava la società, che ricercava il lusso per affermarsi sul piano sociale.
Pittura e scultura erano le arti predilette dalle piùimportanti committenze, ma notevole impatto ebbero anche le arti applicate, dal cui campo scaturì una pregevole e articolata produzione manifatturiera (16).
La bottega aveva la struttura di un laboratorio artigiano, che poteva soddisfare la sempre più crescente richiesta pubblica e privata; era un’officina organizzata da cui uscivano senza sosta manufatti pregiati di ogni genere. Accanto alle botteghe dei pittori, c’erano quelle degli orefici, degli intagliatori e intarsiatori di legno, quelle degli artigiani della pietra e del marmo e quelle delle maioliche. La Firenze comunale e repubblicana aveva permesso, qui più che altrove, lo sviluppo di questa complessa organizzazione del lavoro, orchestrata e tutelata dalle potentissime corporazioni delle arti e dei mestieri. Le fonti della seconda metà del XV secolo, testimoniano la presenza in città di centinaia di botteghe e non era raro che un maestro fiorentino, chiamato altrove a prestare servizio, esportasse questo modello, che metteva poi radici e continuava ad esistere anche dopo la sua partenza.
L’alto livello delle botteghe fiorentine poggiava sulle solide basi di una lunga tradizione, già fiorente nel Trecento. Cennino Cennini, nel suo celebre ricettario Il libro dell’arte, presentò se stesso come «piccolo membro esercitante nell’arte dipintoria» e formato «nella detta arte XII anni da Agnolo di Taddeo da Firenze mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni XXIII» (17).
Stili e metodi di lavoro trovavano dunque una certa continuità in questa sorta di scuolelaboratorio,dove il maestro, depositario di tecniche tramandate, aveva il compito ditrasmetterle agli allievi. Nel Quattrocento però, i maestri, che erano spesso artistiprestigiosi, oltre ad occuparsi di insegnare la tecnica, avevano anche il compito diformare gli apprendisti sotto il profilo intellettuale e culturale. Inoltre, l’articolatarichiesta della committenza - la famiglia Medici in primis e poi le agiate famiglie di banchieri e mercanti - aveva trasformato le botteghe artigiane in piccole aziende, il cui successo, ma spesso anche la sopravvivenza, dipendevano da una gestione imprenditoriale che richiedeva una certa oculatezza.
Alla luce di tutto questo è più facile farsi un’idea di quanto importante fu per Leonardo l’esperienza pluriennale con Andrea del Verrocchio. La sua bottega, insieme a quella dei Pollaiolo, fu protagonista indiscussa sulla scena fiorentina per tutta la seconda metà del Quattrocento. Il Verrocchio era un brillante maestro che aveva iniziato il suo apprendistato come orafo; col tempo era diventato un abile artigiano, rinomato come pittore e soprattutto come scultore (18). Il suo laboratorio non produceva solo dipinti e sculture, ma anche un’ampia varietà di oggetti, come armature, cassoni in legno, modelli architettonici in scala, strumenti e scenografie per spettacoli teatrali, oltre ad ogni sorta di oggetti di lusso.
I suoi allievi lavoravano in un contesto vivace e stimolante anche dal punto di vista culturale, un luogo in cui arte, tecnologia e scienza si fondevano con le teorie artistiche e scientifiche più all’avanguardia. La bottega era infatti frequentata da filosofi e intellettuali del tempo, che qui si ritrovavano per scambiarsi opinioni e commentare gli eventi del momento, favorendo così la circolazione delle idee. Fu questo un ambiente di lavoro ideale per Leonardo, che fece il suo apprendistato con molta disciplina e continuò a frequentare la bottega in qualità di collaboratore, anche dopo la sua ammissione nella gilda dei pittori fiorentini.
I rapporti con Lorenzo il Magnifico e il neoplatonismo della corte medicea
Al tempo in cui Leonardo faceva il suo apprendistato, Firenze era governata dai Medici.
Diplomazia, ricchezza e mecenatismo avevano permesso a Cosimo il Vecchio, al figlio Piero e poi al nipote Lorenzo di essere arbitri incontrastati della politica fiorentina per quasi tutto il Quattrocento; una Signoria de facto, in quanto ufficialmente a Firenze c’era la Repubblica, ma il controllo di istituzioni e persone aveva permesso di predominare sulle famiglie rivali, garantendosi l’effettivo potere.
Il mecenatismo attraversò come un filo conduttore la carriera politica dei primi Medici (19) e non c’è dubbio che, al di là dell’amore per l’arte che li contraddistinse, fu per loro un potente strumento di dominio. Cosimo, il principale artefice del successo politico della famiglia, cambiò il volto di Firenze e dei suoi territori, grazie a numerose opere architettoniche e artistiche. Fece altrettanto il figlio Piero, nonostante regnò per un tempo più breve.
Quando Piero morì di malattia nel 1469, gli succedette il figlio Lorenzo, di soli vent’anni. Quest’ultimo è considerato dalla storia il più famoso membro della famiglia, ma anche il più enigmatico.
Indicato fin da bambino, per la sua fine intelligenza, l’erede ideale del nonno, gli era stata impartita un’educazione di stampo umanistico e classico. Una volta salito al potere, si dimostrò un politico dalle eccezionali doti diplomatiche. Protettore delle arti e degli artisti, la sua corte era celebre per lo sfarzo. Il suo essere un sovrano illuminato gli valse il titolo di Magnifico.
Il suo mecenatismo fu però di natura profondamente diversa rispetto a quello dei suoi predecessori. Lorenzo era un intellettuale; la conoscenza dei classici e della filosofia antica gli era stata trasmessa dai più valenti maestri e pensatori dell’epoca, come Marsilio Ficino, il quale, insieme al poeta Angelo Poliziano e al filosofo Pico della Mirandola, aveva fondato l’Accademia neoplatonica con sede nella villa medicea di Careggi (20).
Lorenzo fu sostenitore e protettore dell’Accademia; il neoplatonismo si proponeva non solo la riscoperta dell’opera di Platone (sebbene filtrata dagli interpreti successivi come Plotino), ma in generale quella della cultura classica, sollecitando la traduzione e lo studio dei testi antichi. A Firenze, gli ideali neoplatonici influirono profondamente sul linguaggio artistico, caratterizzato in quel periodo dal trionfo dei soggetti mitologici e delle allegorie. Nel campo della produzione artistica si guardava agli esempi dell’arte greca e romana e si rivalutavano le tecniche antiche. Non era semplice imitazione ma
ispirazione ai principi e alla morale della classicità.
La critica ha supposto che numerosi artisti attivi a Firenze subirono il fascino delle idee neoplatoniche. Tra questi, Filippino Lippi e Piero di Cosimo; anche Luca Signorelli e il Perugino non seppero sottrarsi alle suggestioni della poesia classicheggiante del circolo di Lorenzo, lui stesso autore di versi. Sandro Botticelli, secondo alcuni, ne fu l’interprete principale, colui che meglio rappresentò l’intellettualismo filosofico del Magnifico, senza mai tralasciare la celebrazione del suo potere.
Come si pose Leonardo nei confronti della dottrina neoplatonica? Urge innanzitutto sottolineare che in campo artistico la tradizione del naturalismo fiorentino continuava nell’ambito di botteghe come quella del Verrocchio, dove erano ancora validi i principi di quel metodo scientifico propugnato da Leon Battista Alberti qualche decennio prima.
Da profondo assertore degli ideali umanistici, l’Alberti confidava nell’uomo e nella sua razionalità. In campo artistico aveva teorizzato nei suoi trattati le idee rivoluzionarie della sua generazione (21), quelle cioè di Brunelleschi, Masaccio e Donatello, da cui era scaturito un naturalismo basato sull’indagine razionale della natura con l’ausilio della prospettiva e delle leggi matematiche.
Leonardo aveva fatto suoi tali principi e nella bottega di Andrea del Verrocchio aveva avuto la possibilità di metterli in pratica. Le basi delle sue ricerche scientifiche poggiavano sulla fede incontrastata per la sperimentazione e l’osservazione diretta della realtà che lo circondava, il tutto filtrato poi dalla ragione, capace di sostenere ed elaborare ciò che i sensi avevano catturato.
Nel seguente passo contenuto nel Codice Atlantico (22), databile intorno al 1489-90, Leonardo polemizza contro coloro che – abitudine consueta a quei tempi – sostenevano le loro teorie basandosi solo su opinioni di maestri o filosofi del passato. «Molti mi crederanno ragionevolmente potere riprendere, allegando le mie prove esser contro all’alturità (23) d’alquanti omini di grande reverenza apresso de’ loro inesperti iudizi, non considerando le mie cose essere nate sotto la semplice e mera sperienzia, la quale è maestra vera». Questa polemica contro il principio di autorità ritorna spesso nei suoi appunti in cui accusa i dotti del suo tempo di essere semplicemente «recitatori e trombetti delle altrui opere»; e ammonisce il lettore al quale dice «La sapienza è figliola della sperienza. Fuggi i precetti di quelli speculatori, che le loro ragioni non sono confermate dalla isperienza»(24).
E’ perciò del tutto evidente che le speculazioni filosofiche degli accademici riuniti attorno a Lorenzo non lo potevano interessare, anche se ciò non significa che non nutrisse rispetto per i classici; aveva solamente un modo decisamente più terreno e distaccato di accostarsi alla lezione degli antichi.
Leonardo lascia Firenze per Milano
Quali altre ragioni spinsero Leonardo a trasferirsi a Milano? Non è logico pensare che alla base della sua decisione ci sia stata solo l’avversione agli ambienti filosofeggianti della Firenze medicea. Con tutta probabilità entrarono in gioco esigenze di carattere
materiale.Fu lo stesso Lorenzo a dar l’incarico di ambasciatore a Leonardo. In generale il Magnifico era più interessato al prestigio culturale che poteva godere al di fuori dei confini di Firenze, esportando i suoi artisti, piuttosto che dar loro possibilità di lavorare presso la sua corte. Rispetto al padre e al nonno, visse l’arte in una dimensione più privata. Era un estimatore e un collezionista di opere d’arte, piuttosto che un promotore di grandi opere architettoniche come i suoi predecessori. Questo suo modo di agire ebbe col tempo conseguenze deleterie per Firenze; la diaspora degli artisti fu la causa di un certo impoverimento culturale della città e contribuì alla dispersione di quelle forze che costituivano la struttura portante delle botteghe (25).
Firenze,inoltre, sulla carta rimaneva una repubblica e gli affari venivano condotti secondo l’imprinting che questa forma di governo dava (26). Gli artisti non facevano eccezione: quando ricevevano una commissione, non era raro che venisse loro fornito un anticipo che serviva ad acquistare i materiali; spesso i versamenti erano molteplici e si interrompevano se il lavoro non veniva portato a termine.
Leonardo non seppe abituarsi a questo sistema di lavoro. Dal momento in cui il suo nome fu iscritto nei registri della Compagnia di San Luca (1472) fino alla partenza per Milano, la sua attività a Firenze non diede risultati consistenti. Nel 1478 gli fu commissionata una pala per la cappella di San Bernardo a Palazzo Vecchio, probabilmente su richiesta di Lorenzo. E nel 1481 ricevette la commissione per l’Adorazione dei Magi dai monaci del convento di San Domenico a Scopeto. E’ noto che per quest’ultimo lavoro, Leonardo si limitò al cartone preparatorio, mentre per quanto riguarda la pala di Palazzo Vecchio, dopo qualche anno di inutile attesa il Magnifico passò la commissione al Ghirlandaio.
Se si ripercorre l’intera carriera d’artista, non sono rari gli episodi in cui i committenti chiesero a Leonardo spiegazioni per i suoi ritardi. Anche Ludovico il Moro dovrà fare i conti con la sua lentezza e le sue “distrazioni” in occasione dei lavori per il Cenacolo. E così anche il gonfaloniere Pier Soderini fu costretto a lamentarsi qualche anno più tardi, quando Leonardo partì una volta ancora per Milano, posando in tutta fretta i pennelli e lasciando incompiuta la Battaglia di Anghiari.
La continua tensione intellettuale unita ad una curiosità impossibile da arginare, spinsero Leonardo a ricercare un situazione professionale che gli permettesse di dedicarsi con maggior libertà agli studi che intendeva compiere. La ricca e potente corte sforzesca sembrava poter soddisfare tali aspirazioni.
Milano e gli Sforza
Leonardo giunse a Milano nel 1482 in compagnia di Atalante Migliorotti, musico, e di Zoroastro da Peretola, meccanico (27). Migliorotti era anche attore e cantore; nel 1490 Francesco Gonzaga lo chiamò a Mantova per sostenere il ruolo principale nell’Orfeo del Poliziano.
Peretola, il cui nome vero era Tommaso Masini, si dichiarava anche mago, mosaicista e pittore. Rimase con Leonardo fino a quando morì a Roma nel 1515.
Leonardo e Migliorotti furono ricevuti da Ludovico al castello di Porta Giovia quali ambasciatori di Lorenzo. I cronisti coevi, come l’Anonimo Gaddiano, riferiscono che in dono portarono uno strumento musicale ideato da Leonardo stesso. Si trattava di una lira d’argento a forma di teschio di cavallo, che egli suonò così bene tanto da superare, riferisce Vasari, «tutti i musici, che quivi erano concorsi a suonare» (28). E’ comunque probabile che Lorenzo lo avesse inviato a Milano, soprattutto per soddisfare una richiesta del Moro che da tempo era alla ricerca di un’artista che potesse realizzare il monumento equestre a Francesco Sforza.
La corte di Ludovico era una delle più ricche e sfarzose d’Europa. La sua idea di farne l’Atene d’Italia scaturiva da una tradizione culturale che durava oramai da più di un secolo (29). Già a metà del Trecento la corte viscontea era un importante centro di civiltà umanistica; Milano potè contare sulla presenza di una figura d’eccellenza come Francesco Petrarca che lì soggiornò dal 1353 al 1361. Raffinatezza e culto per l’antico permearono un crescendo di attività artistiche e letterarie che raggiunsero il loro apice proprio durante il governo del Moro.
Lo storico milanese Bernardino Corio (30), nella sua monumentale Mediolanensis Patria Historia, celebrando i fasti della corte sforzesca, scriveva così circa la nutrita presenza di letterati, artisti e musici al servizio del duca: «…. Ludovico Sforza, principe glorioso et illustrissimo, a suoi stipendii e quasi insine da le ultime parte de Europa haveva conducto homini excellentissimi. Quivi nel greco era la doctrina, quivi versi e la latina prosa risplendevano, quivi nel rimitare eran le muse, quivi nel sculpire erano i maestri, quivi nel depingere li primi da longique regione erano concorsi» (31). Corio era lo storico di corte e ciò può spiegare il tono celebrativo del passo citato, ma non v’è dubbio circa la presenza a corte e nelle università del ducato di un folto numero di personalità provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa.
Fin dai tempi dei Visconti, Milano era per dimensioni la terza città d’Europa, dopo Londra e Parigi (32). Contava duecentomila abitanti, una città enorme per i canoni del tardo Medioevo. Per due secoli i Visconti erano stati assoluti protagonisti delle vicende politiche della penisola e agli inizi del Quattrocento, i loro domini occupavano parte dell’Italia settentrionale e ampie zone del centro. Quando nel 1447, Filippo Maria Visconti morì senza lasciare un erede, entrò in scena la famiglia Sforza, grazie al matrimonio di Francesco Sforza con Bianca Maria Visconti, figlia di Filippo Maria.
Il duca Francesco traghettò la città nella modernità. Salito al potere, si preoccupò di rendere più agile l’amministrazione dello stato. Proseguì inoltre le opere di canalizzazione, vanto dei territori milanesi, con la realizzazione del Naviglio della Martesana che avrebbe collegato la città al fiume Adda e di conseguenza ai territori alpini. Sui resti di una rocca viscontea, fece costruire il Castello Sforzesco ed è a lui che si deve la realizzazione dell’Ospedale Maggiore, per il cui progetto si rivolse al fiorentino Filarete che introdusse in città il gusto architettonico rinascimentale. Milano divenne anche un polo economico di primo livello, grazie all’agricoltura e alla produzione di armi, lana e seta che poi venivano esportati. La città era inoltre una piazza
finanziaria strategica, tanto che i Medici vi istituirono una filiale per le loro attività bancarie. I numerosi figli di Francesco (tra cui Ludovico) ricevettero un’educazione classica grazie all’opera di valenti eruditi dell’epoca, come Francesco Filelfo, che già aveva servito i Visconti.
Gli succedette il figlio Galeazzo Maria che non fu all’altezza del padre. Nel 1476 venne ucciso in un agguato organizzato da alcuni nobili milanesi. Suo erede era il figlio Gian Galeazzo Maria che allora aveva appena nove anni. La reggenza del ducato fu affidata alla madre Bona di Savoia, che Galeazzo Maria aveva sposato in seconde nozze. Da questo momento in poi, Ludovico fu protagonista di una guerra dinastica che si risolse in pochi anni, quando riuscì nel 1480 a diventare reggente in luogo di Bona. Gian Galeazzo era di salute cagionevole e inadatto alla politica. Ludovico lavorò per estrometterlo dal potere e ci riuscì. Morì giovanissimo, nel 1494, forse avvelenato.
Ludovico governò seguendo l’illuminante esempio del padre per quanto riguardò l’amministrazione del ducato, ma nei rapporti con gli altri stati preferì agire sul piano della diplomazia; alleanze strategiche e matrimoni combinati gli assicurarono l’amicizia di altri governanti italiani (Medici, Este, Gonzaga, Stato Pontificio) ma anche il favore della Francia e l’Impero degli Asburgo. Gli equilibri che reggevano le sorti dell’Italia erano destinati però a cozzare verso la fine del secolo contro le mire delle potenze straniere che da tempo avevano rivolto il loro sguardo verso i ricchi principati della penisola. Furono proprio gli “alleati” Francesi che nel 1499 scacciarono il Moro e gli Sforza da Milano. A nulla servirono gli sforzi e le richieste di aiuto di Ludovico, che
l’anno successivo, in un tentativo di riconquista dei territori, fu fatto prigioniero e portato in Francia, dove morì nel 1508.
La storia ci ha consegnato un’immagine di Ludovico, macchiata dai fatali errori di politica estera, che aprirono per l’Italia la lunga stagione delle dominazioni straniere. Non bisogna dimenticare però la sua figura di sovrano illuminato e colto. Sotto il suo governo, Milano visse il suo periodo di massimo splendore. La città cambiò il suo volto grazie agli interventi di abbellimento di vie e quartieri (33). Tra gli edifici di utilità sociale che Ludovico fece costruire ci fu il Lazzaretto, l’ospedale per il ricovero degli appestati.
Uno degli obiettivi principali del suo governo fu la diffusione della cultura che il Moro perseguì con l’apertura di scuole. A Pavia, la seconda città più importante del ducato, l’università vantava docenti di grande fama, retribuiti in proporzione al successo dei loro insegnamenti.
L’industria dei velluti, dei broccati e della seta ebbe un notevole sviluppo per la crescente richiesta di abiti e stoffe da parte della corte e dei ceti più ricchi. Su questo fronte Milano si rese indipendente da Firenze, acquistando anzi un certo primato per quantità e qualità di produzione. L’industria delle armi, già fiorente in passato, divenne ora una vera e propria arte per l’eleganza dei modelli e la raffinatezza della loro esecuzione. L’eccellenza in questo settore venne raggiunta con la produzione di armature.
Uno stato così strutturato aveva esigenze organizzative e di logistica molto complesse, che necessitavano l’ausilio di esperti in vari settori. Dal punto di vista militare, il duca poteva contare solo su truppe di mercenari che non potevano dare le stesse garanzie di un esercito regolare; la difesa dei confini quindi era una priorità a cui si doveva costantemente guardare.
In qualche modo gli interessi di Leonardo combaciavano con tali esigenze e questo gli faceva ben sperare.
Il difficile esordio sulla scena milanese
La risposta di Ludovico alla lettera si fece attendere e per Leonardo i primi tempi a Milano furono difficili.
La tiepida accoglienza che gli era stata riservata fu imputabile principalmente alla natura pratica del Moro e all’essenza stessa dei lombardi, culturalmente diversi dai toscani (34). Popolo laborioso, i milanesi conducevano una vita frugale, in condizioni economiche più precarie. Il ducato inoltre era perennemente minacciato ai confini e perciò Ludovico aveva bisogno di persone attive che fornissero soluzioni ai problemi in tempi brevi. Le invenzioni e le proposte di Leonardo dovettero apparire sì strabilianti, ma poco adatte alle reali esigenze. Non c’era spazio per la fantasia e gli spiriti visionari in una città in cui contava di più il fare che il proporre. Del resto la corte già brulicava di architetti e ingegneri, i quali erano considerati, né più né meno, dei semplici impiegati.
Leonardo doveva dunque fare i conti con una società chiusa, dove si preferiva l’utilizzo di maestranze locali, già consapevoli delle richieste e dei ritmi di lavoro.
Anche gli artisti al servizio del duca avevano una limitata libertà d’azione. Pittori,intagliatori, scultori, miniaturisti, erano impiegati soprattutto nella decorazione del Castello e nei cantieri della Certosa a Pavia. Pare che Ludovico imponesse rigidamente le proprie direttive anche quando si trattava di talenti come Vincenzo Foppa o il Bergognone. In generale poi, le maestranze locali erano ancora saldamente legate alla tradizione gotica e le novità del Rinascimento fiorentino non avevano ancora attecchito.
Era inevitabile che questi canoni artistici si riflettessero di conseguenza nel gusto e nelle richieste dei committenti.
Tra questi, i più importanti ma allo stesso tempo i più esigenti erano chiese e conventi.
Vigevano regole precise per l’appalto dei lavori e i compensi venivano stabiliti secondo le stime di priori o abati, spesso poco avvezzi all’arte. Per cautelarsi, gli artisti si riunivano spesso in società di due o tre componenti, che si dividevano lavoro e guadagni. E’ quello che fece Leonardo che si mise in società con i fratelli De Predis, con i quali accettò nel 1483 il contratto offerto dai frati dell’Immacolata Concezione per una pala d’altare e dal quale scaturì la Vergine delle Rocce.
Nel 1484 Milano fu investita da un’epidemia di peste che durò due anni e che falcidiò più di un terzo della popolazione. Il Moro si rifugiò nel castello di Vigevano con tutta la corte per scampare al pericolo di contagio e, sebbene lontano, contribuì per alleviare i disagi, inviando regolarmente denaro agli ospedali cittadini. Leonardo ebbe modo di studiare gli effetti devastanti della malattia e ne fu impressionato. Detestava i dottori che secondo la sua opinione sapevano solo prescrivere ricette senza avere una reale conoscenza del corpo umano e della malattia. Cosciente del fatto che il principale responsabile del contagio era la mancanza di adeguate norme igieniche, mise a punto alcune soluzioni urbanistiche.
L’idea era quella di suddividere la popolazione in nuclei di trentamila abitanti ciascuno ed evitare così il sovraffollamento. Una nuova città sarebbe sorta vicino a un fiume (probabilmente stava pensando al Ticino) e prevedeva la regolare pulizia delle strade grazie all’acqua fluviale debitamente canalizzata. La parte più sorprendente (e anche più visionaria) del progetto prevedeva che ciascun nucleo abitativo fosse strutturato su due livelli: quello superiore avrebbe ospitato abitazioni e giardini e sarebbe stato destinato ai pedoni. Delle scale avrebbero collegato questo livello a quello inferiore, destinato a
magazzini e botteghe, con strade e canali per il trasporto delle merci. La vicinanza al fiume avrebbe assicurato lo smaltimento regolare dei rifiuti urbani.
Utopie a parte, Leonardo aveva compreso che la salubrità e di conseguenza la vivibilità di una città, dipendeva dal fluire continuo di tutte le sue parti, ovvero acqua, persone, cibo, materiali quasi fosse una sorta di organismo vivente. La sua idea di salute pubblica come conseguenza di un ambiente a sua volta salubre lascia stupefatti se si pensa che l’attenzione all’ambiente è materia piuttosto recente.
Le idee proposte da Leonardo rimasero con tutta probabilità ferme sulla carta visto che Ludovico non fece mai realizzare nulla di simile. Solo qualche anno più tardi Leonardo rivelò più concretezza nella ricerca di soluzioni urbanistiche (35) non più considerando lo sviluppo della città solo dal punto di vista dell’emergenza sanitaria, ma come opportunità con implicazioni di carattere politico-sociale. Infatti, per il piano di ampliamento della città che ideò intorno al 1493 (36), Leonardo fece accurati studi per conoscere il tessuto urbano esistente e poi con molta probabilità disegnò una nuova pianta di Milano per la quale tuttavia non vi è la certezza dei documenti (37). Pochi sono i riferimenti certi a quello che doveva essere un grandioso piano di espansione
urbanistica, ma secondo alcuni studiosi (non ultimo Pedretti) doveva prevedere una nuova visione della città - non più costretta dalle mura – ma pensata in senso moderno”.
Intanto, l’indifferenza del duca nei suoi confronti lo spinse ad una profonda riflessione su se stesso e le sue conoscenze. Si rese conto che cominciava a pesargli la mancanza diun’educazione formale, che avrebbe dovuto sostenerlo nell’ambiente dotto della corte milanese. A quasi trentacinque anni, non solo conosceva a malapena il latino, ma aveva difficoltà a scrivere anche in italiano volgare.
Se in campo artistico poteva considerarsi un maestro, altrettanto non poteva dirsi in campo scientifico. Tanto forti erano le sue inclinazioni quanto deboli le basi su cui poggiavano la sua curiosità e il suo talento. Si accinse così a colmare le sue lacune con determinazione e metodo; gli studi lo occuparono intensamente per diverso tempo.
I manoscritti testimoniano ampiamente il fervore intellettuale di questi anni, desumibile anche da brevi annotazioni riportanti vocaboli, nomi di persone e promemoria. Per poter attingere alle fonti scritte, doveva in qualche modo impadronirsi prima della lingua, latino o volgare che fosse. Non dovette essere un compito facile per Leonardo, che da autodidatta cominciò gli studi partendo dalle basi, ovvero studiando la grammatica e compilando vocabolari.
Per il latino utilizzò i testi correnti, come i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotto (38), da cui trascrisse coniugazioni di verbi, rintracciabili nel manoscritto H, e la grammatica di Elio Donato (39) che viene citata nel codice Trivulziano. In quest’ultimo codice sono presenti fogli che recano liste di vocaboli, perlopiù latinismi, con relativo significato.
Purtroppo per lui la lingua latina rimase sempre ad un livello di conoscenza trascurabile ed è presumibile che attingesse autonomamente alle fonti classiche in maniera saltuaria.
A quel tempo inoltre, le traduzioni di testi classici e medievali in volgare erano limitate a un ristretto numero di opere; l’italiano infatti era soprattutto la lingua dei poeti, ai quali Leonardo si accostò con difficoltà, data una certa tradizione poetica che richiedeva solide cognizioni filosofiche per la sua comprensione (si pensi ad esempio alla simbologia e alle implicazioni filosofiche della Divina Commedia che Leonardo comunque ebbe modo di leggere).
Nonostante le evidenti difficoltà Leonardo non si perse mai d’animo; col tempo riuscì a costituirsi una biblioteca personale che inventariava con regolarità, riportando negli appunti i titoli delle opere che possedeva. Proprio da questi elenchi è stato possibile ricostruire il percorso di studi compiuto e ad avere una conferma delle sue letture.
L’accettazione a corte e il compimento di una brillante carriera
Nel 1487 Milano usciva malconcia dall’incubo della peste, ma con la voglia di ricominciare. La città era un brulicare di cantieri per la costruzione e la ristrutturazione di strade, edifici e piazze. Nello stesso anno fu indetto un concorso per il progetto del tiburio del Duomo, che richiamò in città architetti di chiara fama. Leonardo volle partecipare al concorso, presentando alla Fabbrica del Duomo un modello in legno. Il suo progetto fu rigettato, ma per lui fu un’occasione per fare la conoscenza di due architetti in carriera, che – come vedremo – saranno figure fondamentali per la formazione di Leonardo: Donato Bramante e Francesco di Giorgio Martini.
Intanto alla corte di Ludovico cominciava a circolare il nome di Leonardo. Forse fu introdotto nell’ambiente dallo stesso Bramante che lavorava a Milano già da qualche anno e si era già conquistato il favore degli Sforza; o forse fu perché egli stesso si era guadagnato una certa reputazione dipingendo la Vergine delle rocce.
Il contatto con la corte sforzesca ebbe per Leonardo conseguenze importanti (40); più concretamente, gli permise di lavorare, guadagnarsi uno stipendio e mettere mano ad una serie di progetti che fino a quel momento erano rimasti sulla carta. Sono di questo periodo due opere pittoriche che gli faranno guadagnare la stima del duca: Ritratto di musico e Dama con l’ermellino, quest’ultima commissionata proprio da Ludovico per celebrare il suo amore per Cecilia Gallerani, la favorita fra le favorite. Il ritratto piacque molto, tanto che il poeta di corte Bellincioni scrisse un sonetto adulatorio per
l’occasione. Il duca mise a disposizione dell’artista uno studio alla Corte Vecchia (oggi Palazzo Reale) nei pressi del Duomo e da quel momento iniziò il lungo rapporto di collaborazione tra i due.
Alla Corte Vecchia Leonardo viveva e lavorava con i suoi collaboratori, Marco d’Oggiono e Giovanni Antonio Boltraffio, anch’essi pittori e allievi del maestro.
Leonardo non organizzò mai una bottega con allievi a pagamento a cui insegnare l’arte, ma si avvalse dell’ausilio di persone che lui stesso remunerava (41) Dalle fonti risulta chepercepisse un regolare stipendio da Ludovico per i numerosi incarichi a corte, ma spessoquesto denaro non bastava; capitava che il duca fosse in ritardo nei pagamenti, ma allo stesso tempo Leonardo manteneva uno stile di vita dispendioso, come risulta dalle sue annotazioni riguardanti le spese di casa.
Nel 1490 si aggiunse al gruppo un ragazzo di soli dieci anni, Gian Giacomo Caprotti, che Leonardo doveva aver raccolto dalla strada. Era chiamato “Salaì” che in gergo significava “diavolo” e questo per via del temperamento poco addomesticabile del ragazzo, per il quale Leonardo provava un profondo affetto. Spesso Salaì era responsabile di furti compiuti in casa o presso i conoscenti del maestro, il quale era poi costretto a intervenire per porvi rimedio. La protezione che godeva il ragazzo fu causa di un certo malcontento e di gelosie tra i collaboratori di Leonardo, soprattutto quando, durante il secondo soggiorno milanese, tra gli allievi si aggiunse Francesco Melzi.
Nonostante le difficoltà di convivenza i due rimarranno fedelissimi al loro maestro, accompagnandolo in tutti i suoi spostamenti, compreso quello definitivo in Francia.
Nei diciotto anni del primo soggiorno milanese gli accordi con il duca gli permisero di portare avanti i suoi studi con discreta tranquillità. In cambio, il suo impegno a corte fu totale. Leonardo non si sottrasse mai a nessun tipo di incarico; le grandi commissioni (Cenacolo, monumento equestre a Francesco Sforza), si alternarono con ogni sorta di compito, come l’approntare scene e costumi per le feste di corte; decorare le sale del castello come richiestogli in occasione del matrimonio del duca con Isabella d’Este, nonché svolgere incarichi come ingegnere idraulico, architetto e urbanista.
Con il suo ingresso a corte, la conseguenza più importante per Leonardo fu di natura intellettuale perché venne a contatto con un folto gruppo di dotti in tutte le discipline.
Da quel momento ebbe la possibilità di attingere alle risorse culturali del ducato, sia a Milano, sia a Pavia dove Leonardo soggiornò con Francesco di Giorgio nel 1490.
Il duca ospitava tante celebrità di svariate discipline. Per esempio, nella corte milanese,lavorava con regolarità Franchino Gaffurio, musicista di talento e importante teorico della sua generazione. Nominato da Ludovico magister della Cappella musicale del Duomo, fu tra i più importanti insegnanti ed esecutori di musica polifonica della seconda metà del secolo. Gaffurio, insieme a tante altre personalità come il filologo Giorgio Merula, il medico scienziato Giovanni Marliani, il giureconsulto e matematico Fazio Cardano, rappresentavano in pieno la figura dell’umanista rinascimentale polivalente e versatile. Queste frequentazioni costituirono per Leonardo la chiave di volta per il prodigioso sviluppo come filosofo naturale; fu a Milano, in quegli anni, che avvenne la sua trasformazione da artista a ingegnere praticante, da semplice inventore di macchine (se ci permettiamo di definire semplici le sue invenzioni) a teorico in grado di spaziare in ogni campo della scienza conosciuta.
Importanti per lui furono gli incontri con Donato Bramante, Luca Pacioli e Francesco di Giorgio Martini, con i quali intrattenne fruttuose collaborazioni e rapporti di profonda amicizia.
Leonardo e Bramante
Giorgio Vasari nelle sue Vite pose cronologicamente Donato Bramante dopo Leonardo, in virtù degli importanti incarichi che ottenne presso la corte papale di Giulio II dopo la sua partenza da Milano; infatti, a partire dal 1503, il nuovo papa commissionò all’architetto una serie di importanti progetti volti al rinnovamento dei palazzi vaticani e della Basilica di San Pietro (42). Fu proprio in questo periodo che Bramante raggiunse l’apice della sua carriera; Vasari ne tesse le lodi perché fece «agli altri dopo di lui la strada sicura nella professione dell’architettura, essendo egli di animo, valore, ingegno e scienza in quella arte non solamente teorico, ma pratico et esercitato sommamente» (43).
In realtà aveva qualche anno in più di Leonardo. Era nato infatti vicino ad Urbino nel 1444, città nella quale ricevette la sua formazione artistica di pittore e architetto. Qui assimilò i principi della prospettiva di Piero della Francesca ed ebbe modo di entrare in contatto con importanti artisti che caratterizzavano a quel tempo l’area urbinate: Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, Perugino e Francesco di Giorgio Martini. Dopo il 1470 giunse in Lombardia. A Mantova ebbe modo di studiare da vicino l’opera di LeonBattista Alberti e di Andrea Mantegna che confermarono gli orientamenti della sua ricerca. Dopo un passaggio a Bergamo, giunse a Milano dove si propose inizialmente come pittore e prospettico.
Il bagaglio culturale che portava con sé fu riversato nelle prime opere milanesi. L’eco delle suggestioni esercitate su di lui dagli ambienti della corte ducale dei Montefeltro (si pensi alla prospettiva delle tarsie lignee dello studiolo di Federico) ispirarono sicuramente le soluzioni architettoniche applicate per la ricostruzione dell’antica chiesa di Santa Maria presso San Satiro, alla cui unica navata con cupola centrale fu aggiunto un corpo longitudinale, che creava così due nuove navate e trasformava la vecchia chiesa in transetto. Nell’opera di ricostruzione dell’edificio era stata occupata tutta l’area disponibile e per ovviare all’impossibilità di costruire un coro adeguato alle nuove dimensioni della chiesa, Bramante ne realizzò uno dipinto, in cui lo spazio reale cedeva il passo ad uno spazio prospettico in stucco, fornendo così una profondità illusoria capace di bilanciare l’effetto visivo in rapporto al resto. Con questa sorprendente soluzione, Bramante si era servito della prospettiva non più per la rappresentazione di uno spazio reale, ma per crearne uno fittizio che dava l’illusione della sua esistenza.
Quando Leonardo giunse a Milano, l’architetto urbinate era quindi da tempo un artista affermato e ben introdotto negli ambienti della corte sforzesca. I due si conobbero probabilmente nel 1487, quando, secondo i documenti (44), Leonardo iniziò la sua collaborazione con la Fabbrica del Duomo, alle prese con il difficile problema del tiburio. Il loro rapporto si trasformò ben presto in una solida amicizia, che favorì un continuo scambio di sollecitazioni.
Fino ad allora, il loro percorso artistico era stato simile; dopo un’importante formazione avvenuta in terra natale, si ritrovavano insieme al servizio di una corte che, come già sottolineato, era sicuramente meno raffinata di quelle dei Medici e dei Montefeltro, ma che dava loro la possibilità di sviluppare le proprie idee in piena libertà. Inoltre, la scuola locale, seppure ancorata ai retaggi del gotico, si dimostrò sensibile e pronta ad accettare i nuovi linguaggi artistici proposti dai due artisti. La loro attività sulla scena milanese correrà su due binari paralleli per un ventennio, in direzione del superamento delle scuole regionali.
Il confronto con le personalità giunte a Milano in occasione del concorso indetto dalla Fabbrica del Duomo e gli esiti delle prime opere bramantesche portarono Leonardo ad approfondire le sue nozioni di architettura. Nel manoscritto B, ritenuto oggi il carteggio più antico, sono contenuti alcuni disegni che testimoniano i suoi studi sugli edifici a pianta centrale (importante materia di studio teorica e pratica per Bramante), mentre nel
codice Trivulziano trovano spazio alcune sue proposte per la costruzione del nuovo tiburio. Relativamente a quest’ultima questione, a cui egli si dedicò tantissimo, il manoscritto I di Madrid contiene una serie di disegni e appunti che trattano argomenti di statica costruttiva; in particolare Leonardo affrontò un problema che durante il Rinascimento affliggeva spesso i cantieri e le fabbriche, ovvero il crollo degli archi impiegati come elementi portanti dell’edificio in costruzione. Pur nell’inesattezza o nell’insufficienza di certe sue deduzioni, con questi studi Leonardo anticipò quello che per lui sarà un importantissimo campo di studi teorici, quello relativo ai concetti forza e moto.
Negli anni Novanta del secolo, mentre Bramante realizzava l’imponente tribuna di Santa Maria delle Grazie e cambiava il volto dell’architettura lombarda con i suoi interventi a Pavia e Vigevano, Leonardo si dedicava a progetti di miglioramento e abbellimento della città, nel continuo e incessante dilatarsi delle sue ricerche, che lo portavano a considerare più argomenti alla volta.
In uno studio compiuto da Pietro Marani (45), i due vengono messi in relazione, in un rapporto di reciproca influenza, anche come architetti militari. Al di là della scarsità didocumentazione, soprattutto per quanto riguarda l’effettivo apporto di Bramante in questo campo nel periodo milanese, appaiono plausibili i loro incarichi, considerato il ruolo che entrambi ricoprivano a corte come ingegneri ducali.
Dato il continuo intrecciarsi di esperienze condivise e per la scarsità di notizie, è difficile oggi stabilire con certezza un primato tra i due o definire con precisione chi e in che misura l’uno influenzò l’altro; resta il fatto che nelle successive opere di Bramante si fusero mirabilmente l’eredità urbinate e quella fiorentina, mentre Leonardo, grazie al suo metodo di indagine ad ampio spettro, fu portato a riflettere profondamente sul tema dell’architettura, riuscendo a far propria la lezione di Bramante.
Leonardo e Luca Pacioli
Nel 1496 giunse a Milano il francescano Luca Pacioli, a quel tempo uno tra i matematici più brillanti e richiesti per le sue pregevoli doti di insegnante.
Era nato a San Sepolcro intorno al 1445, dove probabilmente era stato allievo del concittadino Piero della Francesca. A tal proposito, alcune affermazioni contenute in entrambe le edizioni delle Vite (46) hanno gettato per molto tempo un’ombra sulla sua reputazione e sulla validità del suo operato. Vasari infatti lo accusò apertamente di aver sottratto alcuni libri del maestro dopo la sua morte e di essersi poi attribuito la paternità di un testo sulla geometria euclidea scritto da Piero, il De quinque corporibus regularibus, riportato in volgare da Pacioli nella sua opera più conosciuta, De divina proportione.
Se una parte della storiografia non lo assolve da questa accusa, è altresì necessario sottolineare il suo importante apporto nell’insegnamento e nella divulgazione della matematica, che lui non considerò solo come materia di mera speculazione intellettuale, ma soprattutto come valido strumento per la risoluzione di problemi pratici (47).
A Venezia, dove si trasferì giovanissimo per svolgere il compito di precettore privato,perfezionò la propria formazione frequentando le lezioni di Domenico Bragadin (48) presso la Scuola di Rialto. Intorno al 1470 si fece francescano e negli anni successivi insegnò in diverse città italiane (Perugia, Roma e Napoli) e straniere (Zara).
Di ritorno a Venezia, scrisse un’opera enciclopedica dal titolo Summa di Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalità, principalmente basata sugli studi di Fibonacci. L’opera si presenta come un compendio di scienze matematiche; oltre a nozioni di aritmetica e geometria, Pacioli trascrisse il sistema contabile della partita doppia che era già in uso presso i mercanti veneziani e che lui ebbe il merito di strutturare ed esporre in modo organico. Il trattato fu criticato dai contemporanei perché scritto in volgare; nella realtà uno dei meriti del francescano fu proprio quello di tradurre in volgare argomenti abitualmente trattati in lingua latina e quindi riservati a un pubblico ristretto (49). A Venezia, che pullulava di artigiani e mercanti,l’opera ebbe un notevole successo, tanto da essere pubblicata a stampa da Paganino Paganini (50) nel 1494.
Si trasferì poi a Milano, chiamato da Ludovico per l’insegnamento pubblico della matematica. L’incontro fra Leonardo e il francescano fu fruttuoso per entrambi; il loro rapporto professionale si trasformò ben presto in una solida amicizia, destinata a durare nel tempo.
Fino a quel momento Leonardo si era dedicato allo studio della matematica in maniera abbastanza superficiale, ma i manoscritti di quel periodo (soprattutto i manoscritti I e M) rivelano un intensificarsi di appunti relativi a problemi di aritmetica e geometria; tutto ciò non può non essere messo in relazione con l’arrivo di Pacioli a Milano, la cui presenza a corte incoraggiò Leonardo ad affrontare in maniera più approfondita – come osserva Kemp - «quell’ordine matematico che aveva costituito la base implicita di tanta della sua arte e scienza precedenti» (51). Negli studi che lo avevano impegnato fino ad
allora, aveva solo intuito quel sistema sotteso alla natura di tutte le cose, che trovava la sua espressione «nella perfezione astratta della matematica pura» (52). I fenomeni osservati e studiati in architettura, meccanica, fisica e anatomia impegnato negli anni altro non erano che manifestazioni fisiche di quell’ordine.
Pacioli introdusse Leonardo allo studio sistematico della geometria di Euclide. I manoscritti I e M contengono un centinaio di pagine che riportano agli Elementi del matematico greco; non trascrisse nulla in latino, se non qualche raro vocabolo, ed è quindi plausibile che Pacioli gli fu indispensabile anche per superare la barriera linguistica. Probabilmente il matematico gli traduceva i passi euclidei, che poi Leonardo riportava condensati in forma di appunti.
La geometria diventò per Leonardo una vera passione, che continuò a coltivare per il resto della vita. L’entusiasmo dell’appassionato lo portò in seguito a cercare di risolvere enigmi matematici diventati ormai storici, come quello della quadratura del cerchio, già affrontato nell’antichità da Archimede, proponendo soluzioni alternative, spesso clamorosamente errate o incomplete (53). Nonostante ciò, è innegabile la sua profonda comprensione della matematica come disciplina fondamentale per la formulazione di teoremi scientifici e per la valutazione critica dei risultati ottenuti dagli esperimenti.
Durante il soggiorno milanese, Luca Pacioli scrisse l’opera De divina proportione, riferita alla geometria di Euclide e della quale furono compilate tre copie manoscritte: la prima, dedicata a Ludovico il Moro (conservata a Ginevra nella Biblioteca Civica); la seconda, donata da Pacioli a Galeazzo Sanseverino (Milano, Biblioteca Ambrosiana); la terza, dedicata a Pier Soderini, poi andata perduta. L’opera venne poi stampata a Venezia nel 1509.
La divina proportione altro non era che il riferimento alla sezione aurea, una delle costanti matematiche più antiche, per la quale una quantità qualsiasi può essere divisa in due parti diseguali, così che la minore sta alla maggiore come questa sta all’intero (54). La maggior parte del testo di Pacioli fa riferimento ai cinque corpi regolari che secondo la filosofia platonica, corrispondono ai cinque elementi: tetraedro-fuoco, esaedro-terra,
ottaedro-aria, icosaedro-acqua, dodecaedro e quintessenza, l’elemento attraverso il quale il divino «comunica virtù celeste ai quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco» (55). Questa sezione del testo è corredata da una sequenza di sessanta immagini di solidi, che lo stesso Pacioli – nell’introduzione alla sua opera – attribuisce a «l’ineffabile sinistra mano» di Leonardo. Per ognuno dei corpi solidi e dei loro derivati, Leonardo fece una rappresentazione in forma solida a tre dimensioni (solidus), seguita da una rappresentazione trasparente in forma scheletrica (vacuus).
Le sessanta illustrazioni non presentano la stessa qualità, segno che probabilmente alcune furono eseguite da altre mani. I disegni originali sono andati persi, ma la raffinatezza del tratto di Leonardo si riconosce nell’esecuzione delle figure più complesse, alcune delle quali riscontrabili nel manoscritto M e nel Codice Atlantico, a ulteriore prova della collaborazione con Pacioli e del suo profondo interesse per lo studio dei solidi.
Alla necessità dell’esperienza, Leonardo unì dunque la necessità della matematica (56), affermando a più riprese come il metodo sperimentale dovesse essere convalidato dalla ragione con le «matematiche dimostrazioni», ovvero con quei processi astratti attraverso i quali dall’esperienza si dovevano ricavare le leggi universali.
Leonardo e Francesco di Giorgio Martini
La revisione del giudizio su Leonardo da Vinci come tecnico e inventore, si è resa necessaria dopo che negli ultimi decenni sono state compiute ricerche più approfondite sui manoscritti di tecnici ingegneri suoi contemporanei o di quelli attivi negli anni immediatamente precedenti (57); con ciò è stato possibile stabilire come tante delle sensazionali invenzioni o scoperte attribuite a Leonardo, fossero in realtà ascrivibili a periodi antecedenti alla sua epoca. Si è giunti così alla formulazione di un nuovo giudizio, che tenendo comunque in considerazione la straordinarietà del suo intelletto e dei suoi talenti, ha rivisto – temperandola - la sua figura di genio unico e insuperato.
Questa osservazione vale in particolar modo se si analizzano i rapporti e le reciproche influenze tra Leonardo e Francesco di Giorgio Martini. Se, come osservato da P.Marani (58), ancora nei primi anni del Novecento, studiosi come il Solmi dichiaravano praticamente nulla l’influenza dell’opera di Francesco di Giorgio su Leonardo, negli ultimi decenni il giudizio appare decisamente cambiato, se non ribaltato del tutto.
Ciò è avvenuto in seguito all’intensificarsi degli studi sull’architetto senese e alla pubblicazione di importanti monografie come quella di Roberto Papini nel 1946 (59) nonché alla pubblicazione dei suoi trattati di architettura ed ingegneria militare a cura di Corrado Maltese nel 1967 (60). Nello stesso anno, la clamorosa scoperta dei codici di Madrid, ha gettato nuova luce sui rapporti tra i due; nei manoscritti si è ritrovato innanzitutto l’inventario della biblioteca di Leonardo in cui figurava il testo di un Francesco da Siena, mentre in altri fogli sono presenti le trascrizioni di alcune parti del trattato martiniano di architettura e ingegneria militare.
La figura di Francesco di Giorgio Martini, nato a Siena nel 1439, si inserisce in quella lunga e prestigiosa tradizione di artisti-ingegneri che caratterizzò la storia della città fin dal 1300 (61) Personaggi come il Martini, ma ancor prima, Mariano di Jacopo (1382- 1458?) detto il Taccola, alimentarono con il loro lavoro e i loro studi le ambizioni di una piccola città che lottava costantemente con gravi problemi interni, come ad esempio la carenza di fonti idriche, ma che allo stesso tempo nutriva sogni di grandezza. Al pari di Firenze, l’eterna nemica, la città pullulava di botteghe artigianali di altissimo livello; gli artisti che la frequentavano erano in grado di dipingere e disegnare, ma anche di spaziare in ogni campo scientifico e tecnico, riuscendo altresì a recepire e a trasformare le tensioni intellettuali che provenivano dagli ambienti umanistici. Un perfetto connubio tra pratica e teoria che sfociava poi nella scrittura di trattati di architettura, meccanica e tecnica ingegneristica, destinati ad avere grande diffusione.
La vita e la carriera di Francesco di Giorgio presentano numerose analogie con quelle di Leonardo. Pittore, scultore, architetto e teorico dell’architettura, ingegnere e inventore, Francesco raccolse a Siena l’eredità del Taccola, la cui produzione letteraria fu fondamentale per la sua formazione. Come Leonardo, fece il suo apprendistato in una bottega e incominciò la sua carriera grazie alla pittura e alla scultura. Fu però con la sua attività di architetto civile militare che raggiunse la fama fuori dai confini di Siena.
A partire dal 1477, infatti, si trasferì ad Urbino al servizio del duca di Montefeltro (62) qui si dedicò principalmente ai progetti per la costruzione del Palazzo ducale, sostituendo nella direzione lavori l’architetto Luciano Laurana, che aveva lasciato l’incarico a Urbino nel 1472. Da quel momento i lavori alla fabbrica si erano infatti interrotti e furono ripresi con l’arrivo di Francesco di Giorgio.
A Urbino Francesco trovò un ambiente stimolante; in poco tempo riuscì a farsi notare e a conquistarsi la totale stima del Duca, tanto che lo nominò suo ambasciatore presso i senesi, oltre che affidargli la direzione di numerosi cantieri nei suoi territori. Fu durante questa esperienza che cominciò ad occuparsi di architettura civile e soprattutto di fortificazioni, una specializzazione che gli varrà la fama e, in seguito, importanti
incarichi in varie corti italiane, tra cui Napoli e la stessa Siena.
Leonardo e Francesco si conobbero nel 1490 a Milano, in occasione del concorso indetto per il tiburio del Duomo. Subito dopo partirono insieme per Pavia, dove fecero dei sopralluoghi nel cantiere della nuova Cattedrale.
Sulle reciproche influenze derivanti da questo incontro il dibattito tra gli studiosi è più che mai aperto. Sicuramente Leonardo conosceva l’opera di Francesco (che aveva qualche anno più di lui) e probabilmente aveva letto la prima versione del suo Trattato di architettura e ingegneria militare, scritto durante il soggiorno a Urbino. Dal canto suo, Francesco ebbe modo di osservare la metodologia di studio di Leonardo, che – secondo Marani (63) - stimolò Francesco sui piani teorico e pratico «In termini di rinnovata rappresentazione grafica, sia architettonica che della figura umana, quale dell’attività architettonica quale attività umanistica e liberale; caratteri che appunto rintracciamo nella seconda versione del Trattato del Martini databile 1496-1500» (64). Fu proprio dalla seconda versione del Trattato che Leonardo trasse gli stimoli maggiori, tanto da ricopiare interi passi nei suoi appunti, oggi rintracciabili nei manoscritti madrileni. Interessanti sono le note relative all’adeguamento delle forme architettoniche alle accidentalità del terreno. Leonardo negli anni precedenti aveva avuto modo di studiare e progettare in territori senza particolari problemi di pendenza, come quelli delle pianure lombarde. Gli incarichi ricevuti ai primi del Cinquecento dal duca di Urbino, dovettero in qualche modo metterlo di fronte alle sfide che ponevano i terreni più accidentati dell’Italia centrale. E proprio dall’opera architettonica di Francesco dovette trarre i più importanti spunti.
LEONARDO E L'ACQUA
DALLA PRATICA ALLA FORMULAZIONE TEORICA
La natura come essere vivente alla base del metodo scientifico
Stabilire quali furono i campi della scienza indagati da Leonardo, quali le materie su cuilui più si concentrò, per poi operare qualsiasi sorta di classificazione, è per gli studiosi un compito sempre arduo e un’operazione che può apparire ogni volta del tutto artificiosa. In un saggio dedicato agli studi idraulici dello scienziato, Gombrich intuì con chiarezza e razionalità la questione; «Non è mio desiderio soffermarmi sul luogo comune dell’universalità leonardesca. Il problema è piuttosto l’unità del suo pensiero» (65).
Il metodo scientifico di Leonardo si basava sul concetto di natura come essere vivente, ovvero un macrocosmo in continua evoluzione, regolato da schemi e processi tra loro collegati. Il suo approccio sistemico alla natura prevedeva la comprensione di un fenomeno mettendolo in relazione con un altro attraverso le affinità e le connessioni fra di essi (66).
Questo concetto lo portò ad un modo di procedere apparentemente disordinato; per molto tempo, prima che si giungesse ad una conoscenza più approfondita del pensiero di Leonardo, chiunque si cimentasse nello studio dei suoi manoscritti aveva l’impressione di trovarsi di fronte ad una massa disomogenea di parole e disegni, senza un ordine logico, con pagine dove improvvisamente s’interrompeva un argomento e ne iniziava un secondo di altra natura. Lui stesso cercò più volte di mettere ordine tra le sue carte e diverse note in molti dei codici ce lo testimoniano.
La sua concezione della natura si rifletté completamente nella sua arte; egli considerava la pittura una scienza, anzi la scienza per eccellenza per giungere più compiutamente alla conoscenza dei fenomeni naturali e dei meccanismi ad essi sottesi. Il suo era un approccio visuale e basato sull’osservazione diretta; di conseguenza il suo punto di partenza era l’occhio umano (67). I suoi studi sull’anatomia dell’occhio e l’origine della
visione non ebbero eguali al suo tempo, e produssero quelle straordinarie illustrazioni, rintracciabili nei disegni di Windsor, dell’apparato visivo e del cranio. Dagli studi dell’anatomia dell’occhio passò poi a interrogarsi sulle leggi ottiche e sul rapporto tra luce ed ombra, studi che convogliarono poi nelle sue ricerche sulla prospettiva. Ecco dunque che l’arte diventa una scienza in grado di penetrare e conoscere la realtà; una conoscenza che non era data semplicemente dall’imitazione, ma che trovava la sua ragione essenziale nell’interpretazione e nella rielaborazione mentale dei fenomeni osservati, per trarne quella legge generale che li organizza (68). Da ciò derivò la sua mirabile sintesi tra arte e scienza.
Macrocosmo e microcosmo (69), natura e uomo. Questi i due elementi che per analogia furono l’oggetto di studio per Leonardo, ovvero la scienza delle forme viventi (70). E siccome ogni organismo vivente non può essere considerato – nella sua struttura - «una configurazione statica di componenti riunite a formare un tutt’uno» (71), ecco che per lui diventò fondamentale considerarlo nella sua natura dinamica e nel suo incessante trasformarsi, sotto l’azione universale delle leggi di causa ed effetto. Di qui gli studi sistematici sul moto, la forza e il peso, che andranno ad intrecciarsi in maniera particolare a quelli sulle acque.
Gli studi idraulici nei manoscritti leonardeschi
«Che cosa è acqua. […]. Questa non ha mai requie insino che si congiunge al suo marittimo elemento,[…]. Questa è l’aumento e omore di tutti i vitali corpi; nessuna cosa sanza lei ritiene di sé la prima forma; […] volentieri si leva per lo caldo in sottile vapore per l’aria; il freddo la congela, stabilità la corrompe […] piglia ogni odore, colore e sapore e da sé non ha niente. […] Al suo furore non valealcuno umano riparo; e se vale, non fia permanente» (72).
Questo brano di grande potenza letteraria, contenuto nel foglio 23v. del manoscritto C riassume in sé gran parte del pensiero leonardesco sul primo – per lui in ordine di importanza – dei quattro elementi della filosofia classica. Gli appunti e i disegni relativi all’acqua occupano centinaia di pagine dei suoi quaderni; sono il tema portante nel codice Hammer e nei manoscritti F e H; studi teorici dei moti, dei flussi e della sua infinità versatilità sono presenti in numerosi fogli del Codice Atlantico e nelle illustrazioni della Royal Collection di Windsor, ma se ne trova traccia anche nei codici madrileni e nei manoscritti di Parigi. Dell’acqua si occupò inoltre durante tutta la sua carriera di ingegnere, in particolare in Lombardia, dove era una vocazione da secoli. Qui ebbe l’opportunità di occuparsi dei problemi relativi alla rete di navigli e canali più avanzata d’Europa.
La sua intenzione – più volte rammentata nei manoscritti - di radunare gli appunti relativi ai suoi studi idraulici in un unico trattato non ebbe seguito nella realtà, ma nel corso del Seicento tutto il materiale fu trascritto da Luigi Maria Arconati nella raccolta Del moto e misura dell’acqua, compilata in nove libri, ma pubblicata solo nel 1828 a Bologna a spese di Francesco Cardinali.
Acqua vettore e matrice di vita
Perché Leonardo era così affascinato dall’acqua? I motivi sono principalmente di ordine scientifico e pratico, ma non può sfuggire innanzitutto il suo significato simbolico, che permeò in egual maniera la sua scienza e la sua arte (73).
Come scienziato con l’assoluta dedizione per lo studio di ogni forma organica, era consapevole del ruolo essenziale dell’acqua nel ciclo vitale, «il vetturale della natura» come la definì in uno dei taccuini del manoscritto K. E questa caratteristica di elemento vivificatore si manifesta con tutta la sua forza simbolica anche in quel celebre passo del manoscritto A (f. 55v.), in cui Leonardo applica l’analogia tra l’uomo e il pianeta, mettendo in relazione i vasi sanguigni del corpo umano e le «vene d’acqua» della Terra.
E ancora, nel passo sopracitato del manoscritto C il termine omore, cioè umore, è utilizzato nel suo significato medievale di fluido nutritivo (74).
Nei suoi dipinti i corsi d’acqua sono una presenza costante, sempre in virtù di quell’azione vivificatrice dell’elemento fluido che si fonde in maniera sublime con gli altri elementi naturali del paesaggio. Un’analisi compiuta della simbologia dell’acqua e del naturalismo leonardesco in campo artistico richiederebbe sicuramente maggior spazio di quello che è possibile dedicare in questa sede, dove si è deciso di privilegiare la figura di Leonardo come tecnico e come uomo di scienza. Occorre però sottolineare che le numerose annotazioni sull’acqua, che compaiono fin dai primi manoscritti, andranno sempre di pari passo con le osservazioni destinate al progettato libro sulla pittura (75), inequivocabile segno di come questi due temi si sviluppassero in lui in un rapporto di stretta e mutua relazione.
Nella sua pittura – afferma Marani – l’acqua è un tema «ossessivo e dominante» (76) fin dal primo disegno, Veduta della Valdarno, datato 1473; dalla Vergine delle Rocce (1483) dove l’azione modellante delle acque è occasione per un approfondimento della geologia, alla Gioconda (1504-15) in cui lo straordinario paesaggio è il risultato della rielaborazione mentale della Natura, suprema sintesi di tutto il pensiero leonardesco. Di volta in volta è l’elemento «caratterizzante o impregnante o, ancora, modificante, con la sua forza erosiva e incontrollabile, le montagne, il paesaggio e tutta la natura e lo spazio» (77).
Acqua come fonte economica e come fonte di energia
Durante il Rinascimento avere un incarico come ingegnere idraulico significava tanto prestigio quanto tanta responsabilità. L’acqua giocava un ruolo fondamentale negli affari pubblici ed era una fonte di potere non indifferente per un politico; era la miglior via per il trasporto delle merci e di conseguenza per il commercio; era infine un elemento essenziale per la pratica agricola.
In Lombardia l’irrigazione della terra era già praticata fin dall’antichità grazie allo sfruttamento dei grandi fiumi alpini. In epoca medievale le opere di canalizzazione delle acque erano diventate fondamentali non solo per l’agricoltura, ma anche per l’economia che aveva la sua ossatura nel sistema di navigazione interna (78). Il funzionamento del sistema economico della regione dipendeva infatti dal controllo delle acque e dalla bonifica di aree paludose; le canalizzazioni erano necessarie per contenere i danni provocati dalle periodiche esondazioni dei fiumi, per portare l’acqua in città e per la navigazione commerciale.
Quando Leonardo giunse a Milano, le principali opere di ingegneria idraulica risalivano ad almeno due secoli prima e riguardavano principalmente il collegamento tra il Ticino e la città attraverso il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese. I primi canali milanesi videro la luce intorno al 1150; la data di inizio lavori per il Naviglio Grande è il 1177, mentre il Naviglio Pavese risale al 1359. Si data invece al periodo visconteo il collegamento fra il Naviglio Grande e la cosiddetta «fossa interna» o «cerchia dei navigli».
Queste ed altre importanti vie di comunicazione fluviale (ad esempio, il Naviglio della Martesana e il Canale Villoresi), realizzate solo qualche decennio prima che Leonardo giungesse a Milano, dovettero impressionarlo e certamente stimolarono la sua fantasia di ingegnere e la sua curiosità scientifica per la natura, l’acqua e le leggi meccaniche che ne regolano il comportamento. Cosicché a partire dal 1482, nei suoi manoscritti i progetti di opere idrauliche forniranno lo spunto per le sue ricerche teoriche di idrostatica e idrodinamica, sviluppate sempre più insistentemente negli anni successivi, soprattutto durante il secondo soggiorno milanese.
Dopo aver lasciato il ducato nel 1499 ed essere stato al servizio di Cesare Borgia come architetto e ingegnere generale (79). Leonardo tornò a Firenze nel 1503 per servire la Repubblica. E’ plausibile pensare che gli studi sui canali lombardi compiuti per quasi un ventennio, gli abbiano ispirato l’idea di una canalizzazione dell’Arno, proposta ai fiorentini nel 1503 (80). Il progetto fu pensato per aggirare la parte non navigabile tra Firenze ed Empoli e prevedeva la costruzione di un canale che da Firenze proseguisse poi per Prato e Pistoia, evitando il tortuoso corso fluviale nella zona di Empoli. Il percorso studiato da Leonardo non era così diretto come in linea d’aria, ma evitava scavi profondi e gallerie.
L’opera presentava – come è facile immaginare – una certa difficoltà, ma Leonardo non aveva ideato una tale soluzione senza pensare a come sarebbe stato finanziato (81). Ben conoscendo il capitalismo agile e aggressivo dell’economia fiorentina, propose di coinvolgere la ricca e potente corporazione della Lana, che avrebbe provveduto alla sovvenzione finanziaria dietro compenso di una rendita derivante dal pagamento dei tributi e la vendita delle concessioni.
L’opera non fu mai portata a termine, ma di quel progetto ci restano oggi le sue carte topografiche. Suggestiva è la mappa del fiume presso Pisa che Leonardo disegnò – oggi contenuta nel codice Madrid II (fogli 22v – 23r), che testimonia le sue abilità anche nel campo della rappresentazione cartografica.
Dall'ingegneria idraulica allo studio scientifico dei flussi. Il contributo di Leonardo
Il sistema idraulico lombardo, che tanto affascinò Leonardo per la sua efficienza e per la sua grandiosità, poggiava su basi empiriche, era cioè il frutto di una pratica tecnica che si protraeva da secoli e che col tempo aveva raggiunto livelli di eccellenza, ma che non era comunque il risultato di una ricerca teorica (82).
Nelle ampie raccolte leonardesche di appunti e disegni dedicati all’acqua, sono presenti sia le soluzioni pratiche che derivavano dall’incarico di Maestro delle acque, sia gli studi teorici di idrostatica e di idrodinamica.
Se però, nel corso della storia, gli ingegneri idraulici avevano già realizzato opere di un certo rilievo (dagli imponenti acquedotti romani fino alle ingegnose realizzazioni del primo Quattrocento come le chiuse e le conche di navigazione) e gli studi relativi al moto di corpi rigidi erano già stati affrontati fin dall’antichità, lo stesso non si può dire per le ricerche riguardanti la dinamica dei flussi. Leonardo fu l’unico durante il Rinascimento a preoccuparsi di descrivere scientificamente il fluire dell’acqua e di analizzarne le leggi fondamentali. Studi teorici ed esperienza pratica procedettero di pari passo, stimolandosi reciprocamente, nell’affrontare i problemi relativi alle correnti, al moto ondoso di mari e fiumi, all’erosione degli argini, ai pericoli delle inondazioni e al continuo mutare della forma dell’acqua; dai qui, i suoi studi sui vortici, i gorghi e le spirali. Le sue ricerche, le sue illustrazioni e i suoi tentativi di fornire spiegazioni matematiche nel campo della fluidodinamica, sono considerati oggi a pieno titolo i suoi contributi scientifici più originali.
Esperienza e processi mentali
Non sorprende che Leonardo abbia tentato di far luce in maniera così sistematica in un ambito così complesso e fino ad allora inesplorato come quello della meccanica dei fluidi. Del resto, il suo modo di agire era guidato da quell’inesauribile curiosità che lo portava sempre a ricercare la ragione, ovvero il motivo di essere, di ogni fenomeno naturale. Fu però l’insistenza con cui affrontò lo studio dei moti dell’acqua a sorprendere i suoi contemporanei ed è così, ancora oggi, per gli studiosi della sua opera.
Nel già citato saggio «La forma del movimento nell’acqua e nell’aria» (83), Gombrich riporta una serie di termini che Leonardo elencò in un foglio contenuto nel manoscritto I, da utilizzare per descrivere il flusso dell’acqua (84); sono in tutto sessantasette termini, inclusi in una più ampia nota, che egli intitolò «Principio del libro delle acque». Si tratta evidentemente di un programma di studio e di organizzazione del lavoro che Leonardo fece per il progettato trattato sull’argomento; definizioni e termini in successione da cui egli avrebbe potuto attingere in qualsiasi momento per la compilazione.
Secondo Gombrich, è nel significato profondo di passi come questo che diventa possibile esaltare la figura di Leonardo come teorico; perché egli seppe andare oltre l’osservazione diretta e la pratica sperimentale, alla quale egli aveva attribuito fin dall’inizio il ruolo di guida nel suo cammino di scienziato. E sono state proprio le sue invettive contro quei «trombetti» che si riempivano la bocca con il sapere altrui, senza aver sottoposto le loro conoscenze al vaglio della sperienzia, che hanno indotto secoli di critica a considerare Leonardo un precursore delle teorie sull’Induttivismo, proclamate da Bacone (85) un secolo e mezzo più tardi, e a vedere in questo aspetto la sua modernità, nonché la sua peculiarità come uomo di scienze.
Un giudizio questo – continua Gombrich – diventato oramai obsoleto; innanzitutto sul piano della metodologia scientifica «là dove si va riconoscendo che la scienza non progredisce con l’osservazione, ma con la riflessione; grazie alla sperimentazione delle teorie e non già alla raccolta di osservazioni casuali» (86), ma è obsoleto anche per quanto riguarda gli studi leonardeschi, in cui si è imparato a riconoscere «l’elemento di continuità» della sua opera, ovvero quell’entusiasmante cammino verso la conoscenza che prese avvio dalle idee delle generazioni precedenti, ma che continuò in seguito con la loro revisione critica alla luce di una sistematica sperimentazione.
Se riportiamo l’attenzione su quella lista di sessantasette termini del manoscritto I e li osserviamo nel loro significato, è possibile fissarli in categorie e rintracciare in essi una classificazione degli studi compiuti da Leonardo nel campo della meccanica dei fluidi.
Per esempio, le parole «consumamento, ruinazione, impetuosità, veemenzia, corrusione d’argine» non possono che ricondurci ai suoi studi sui flussi turbolenti, sulle correnti e al continuo rimodellamento del corso dei fiumi, nonché al danneggiamento degli argini; «retrosi, urtazioni, confregazioni» ci riportano al concetto di moto in relazione all’attrito, al calore e alla gravità; o ancora «circulazione, revoluzione, ravoltamenti, raggiramento» richiamano uno dei fenomeni che più catturò l’attenzione di Leonardo, ovvero il vortice. Nei suoi quaderni si trovano numerosi disegni di mulinelli e gorghi di ogni forma e dimensione (87). Egli intravedeva in queste manifestazioni la grandezza della natura, un sistema allo stesso tempo mutevole e stabile. Nell’infinita varietà di forme che poteva assumere l’acqua in un vortice egli vedeva tale mutevolezza, ma intuiva ugualmente quella caratteristica di stabilità nel rigore delle leggi fisiche e meccaniche collegate a tali meccanismi. In definitiva, un assioma rintracciabile in tutte le forme viventi.
L’insieme di queste considerazioni non sminuisce tuttavia l’importanza che per Leonardo ebbero l’osservazione e la sperimentazione. Egli fu in grado di raggiungere una gran quantità di risultati basandosi solo sulla propria intuizione e trascorrendo molte ore immerso nella natura. Jane Roberts, nel catalogo della mostra sul Codice Hammer, svoltasi a Firenze nel 1982 (88), menziona, a testimonianza di ciò, un passo contenuto nel foglio 34v., in cui Leonardo descrive con straordinario naturalismo la forma di una goccia di rugiada, che egli aveva con tutta probabilità osservato a lungo.
I risultati di Leonardo nell'ingegneria idaulica lombarda
L’attenzione che Leonardo riservò nei suoi manoscritti alla rete idrica lombarda, ai fiumi, ai laghi e ai canali della regione ha spesso indotto il grande pubblico, ieri come oggi, a sopravvalutare il suo effettivo apporto come tecnico delle acque, tanto che gli sono stati attribuiti a più riprese, l’invenzione delle chiuse e delle conche di navigazione e il progetto per la realizzazione del Naviglio della Martesana (89). La scarsità di notizie certe riguardanti i suoi compiti di ingegnere durante il primo soggiorno milanese e la difficoltà di lettura e interpretazione dei suoi quaderni hanno alimentato l’equivoco per molto tempo.
Come è stato ampiamente descritto nelle pagine precedenti, quando Leonardo giunse a Milano nel 1482, il sistema di canalizzazione della Lombardia era già una realtà compiuta, che aveva alle sue spalle più di tre secoli di storia. Nulla potè inventare Leonardo che non fosse già stato ideato dalle maestranze altamente specializzate di un territorio storicamente piegato da una primaria necessità di contenimento e regolazione delle acque. I suoi incarichi presso la corte di Ludovico erano molteplici e la sua supervisione come ingegnere idraulico fu probabilmente condivisa con altri importanti professionisti.
Il merito di Leonardo per quanto riguarda le conche di navigazione e le relative chiuse non risiede nella loro invenzione o progettazione. Tali sistemi erano in uso fin dai tempi del duca Filippo Maria Visconti e del successore Francesco Sforza. Durante i loro governi nel territorio milanese furono costruiti ben novanta chilometri di canali, resi navigabili dalla presenza di venticinque conche (90). Da alcuni fogli del Codice Atlantico, risulta che Leonardo studiò con attenzione il loro funzionamento e apportò infine delle migliorie, progettando e introducendo un nuovo tipo di porta a doppio battente per il funzionamento delle chiuse; entrata poi in uso regolarmente, oggi è conosciuta con il nome di porta leonardesca.
Sempre durante il governo di Filippo Maria Visconti fu realizzato il Naviglio della Martesana con l’intenzione di collegare Milano ai territori lariani attraverso il fiume Adda. Il piano di scavo del naviglio fu approvato dal duca con un decreto del 3 giugno 1443, ma l’inizio lavori fu sempre rimandato; l’opera fu poi realizzata durante il governo di Francesco Sforza (1457-1463) in soli sei anni (91).
Il progetto iniziale aveva previsto un’opera che servisse sia per l’irrigazione dei campi sia per il funzionamento dei numerosi mulini, escludendo la possibilità di navigazione.
A questo pensò Ludovico il Moro, che nel 1496 diede il via ad una serie di lavori di completamento del canale per collegarlo alla cerchia interna cittadina. A questa fase risale la partecipazione di Leonardo, il quale fu incaricato di seguire le operazioni di scavo e sistemazione insieme all’ingegnere ducale Bartolomeo Della Valle.
A completamento dell’opera, furono immediatamente varate norme per regolare la navigazione, la vendita d’acqua e i commerci. Tutte le merci che entravano o uscivano dalla città erano soggette al pagamento di una tassa, il cosiddetto Dazio della Conca, i cui proventi andavano a coprire le spese di manutenzione del canale.
Un discorso a parte merita la questione della vendita dell’acqua a scopi irrigui, una pratica che costituiva da tempo un’importantissima voce d’entrata per il bilancio ducale.
I relativi canoni erano commisurati alla quantità di acqua prelevata che veniva misurata in once; numerose erano le controversie che nascevano intorno alla questione della misurazione dell’acqua e Leonardo studiò il problema a fondo. Sempre nel Codice Atlantico si è rintracciato un disegno (f. 1097r.) in cui è presente uno studio per il funzionamento dei bocchelli attraverso i quali l’acqua veniva misurata. Molti studiosi ritengono che proprio nel problema di questa pratica, risiedano gli importanti stimoli che indussero Leonardo ad affrontare lo studio del moto dei fluidi.
Il secondo soggiorno milanese
Tra il 1506 e il 1513 si colloca il secondo soggiorno di Leonardo a Milano. Le pressanti richieste del governatore francese Carlo d’Amboise avevano convinto i fiorentini a lasciar partire l’artista – non senza disappunto - con un permesso temporaneo. In seguito Leonardo fece ritorno a Firenze solo per brevi periodi, soprattutto per sbrigare pratiche familiari. Il Gonfaloniere Pier Soderini pretese più volte il suo rientro definitivo in Toscana, ma i Francesi, con molta diplomazia, riuscirono a riservarsi in maniera esclusiva la presenza del maestro presso la corte milanese (92).
Leonardo tornò dunque in Lombardia come acclamato artista e ingegnere. L’appoggio e la stima che godeva presso la corte francese gli garantirono privilegi e sicurezza economica. Questa nuova condizione gli permise di occuparsi liberamente dei suoi studi, senza dover render conto del suo operato.
Nel 1507 Leonardo conobbe Francesco Melzi d’Eril, che ospitò per un periodo nella sua abitazione a Milano. Il ragazzo, diciassettenne, era figlio di Gerolamo Melzi, un membro del Senato milanese che probabilmente conosceva Leonardo fin dal periodo sforzesco. Negli anni successivi, a più riprese, il maestro fu ospite della famiglia Melzi, nella loro villa di Vaprio, una località affacciata sulla sponda destra dell’Adda, ad una trentina di chilometri da Milano. I paesaggi abduani rapirono Leonardo, che rimase affascinato dalla natura rigogliosa e selvaggia. Nei lunghi periodi trascorsi a Vaprio, colse spesso l’occasione per fare escursioni e brevi viaggi risalendo il corso del fiume in direzione dei territori lariani.
Ancora oggi è possibile farsi un’idea di ciò che vide Leonardo, perché lungo questo tratto di fiume (il suo medio corso) il paesaggio è rimasto per gran parte immutato.
L’Adda, uscendo da Lecco e superati i bacini di Olginate e Garlate, raggiunge pacifico le località di Brivio e Imbersago. Inizia in questo punto il tratto fluviale più interessante dal punto di vista paesaggistico e naturalistico. A Paderno il fiume si immette in una grande forra dove affiorano le bianche rocce pleistoceniche (il ceppo) tipiche di questi luoghi, assumendo le sembianze di un tortuoso torrente di montagna. In pochi chilometri il fiume compie un salto di ventisette metri attraverso una lunga serie di rapide, circondato da pendii boscosi. Nei pressi di Porto, l’Adda riprende il suo corso pigramente fino a Trezzo, dove si trova l’incile del Naviglio della Martesana. Poco più a sud, fiume e naviglio scorrono paralleli fino a Vaprio, per proseguire poi verso la pianura.
Per Leonardo il soggiorno in questi luoghi fu stimolante e proficuo sotto ogni punto di vista. Già durante il primo soggiorno milanese, aveva avuto modo di conoscere le potenzialità economiche derivanti da un’eventuale sfruttamento dell’Adda, ma stavolta l’incontro così ravvicinato con una natura allo stesso tempo impetuosa e docile, diede il via a quel programma di studi sistematici sulle acque di cui si è parlato nelle pagine precedenti; non da ultimo, dettero origine ad una serie di vedute e paesaggi, oggi conservati alla Royal Library a Windsor, chiamata appunto Serie dell’Adda, che – come sottolinea Marani - «segna una sintesi ineguagliabile, nell’opera di Leonardo, fra precisione miniaturistica e senso organico delle forze della natura, fra capacità analitica di rappresentazione e senso dell’atmosfera e dello spazio» (93).
Figura 2 - Leonardo da Vinci - Veduta di case sopra un canale che costeggia un fiume - RL 12399 (Windsor) |
A Windsor si conserva un’altra serie riferibile a questo periodo. Si tratta della cosiddetta Serie Rossa, così chiamata per il colore di fondo dei fogli, per i quali Leonardo utilizzò una matita rossa (94). La serie include alcuni studi di vegetazione fluviale e vari disegni di catene montuose, in cui sono perfettamente riconoscibili alcune vette del lecchese (come il monte Resegone) e della Valtellina.
Figura 3 - Leonardo da Vinci - Vetta alpina - RL 12411 ( Monte Resegone – Cfr. con foto sotto) |
Figura 4 - Monte Resegone |
Gli studi per rendere navigabile l'Adda
In Lombardia, la questione della navigabilità dell’Adda aveva fatto perdere il sonno a intere generazioni di ingegneri. Da sempre il fiume aveva attirato l’attenzione dei governanti milanesi per la possibilità – economicamente vantaggiosa – di mettere in comunicazione Milano con la città di Como e i suoi territori, crocevia strategico per i traffici con il Nord Europa. L’impossibilità di percorrere con le imbarcazioni il tratto turbolento tra Paderno e Porto aveva di fatto impedito lo sfruttamento del fiume come via di comunicazione (95).
Il Naviglio della Martesana, reso navigabile durante il governo del Moro, metteva in comunicazione Milano con Trezzo, ma arrivati lì le imbarcazioni non potevano più continuare. Infatti nei pressi di Porto le merci dovevano essere scaricate dai barconi e trasportate con carri trainati da cavalli fino a Imbersago, dove potevano riprendere la via d’acqua e accedere ai territori lariani. Una soluzione che rallentava notevolmente i tempi di trasporto e quindi economicamente svantaggiosa.
Anche Leonardo si interessò al problema e ciò è confermato da una cospicua serie di disegni, contenuti nel Codice Atlantico, riferibili al periodo del suo secondo soggiorno milanese. Come ha rilevato Marani in un saggio dedicato alle carte leonardesche che riguardano il fiume (96), per Leonardo l’Adda era una vecchia conoscenza. E’ infatti menzionato, per differenti motivi, in numerose pagine dei manoscritti, compresi quelli che risalgono ai primi anni Ottanta, quando Leonardo era appena giunto a Milano.
Due disegni del Codice Atlantico appaiono significativi per comprendere la soluzione proposta da Leonardo. Il primo (f. 911r.) è una cartina che illustra la parte dell’Adda tra Trezzo e Brivio. A circa metà tracciato, in località Tre Corni, dove il fiume scorre incassato in una gola, egli aveva previsto una diga alta circa trenta metri per sbarrare il fiume (97) e a lato un’unica grande conca con paratoia a saracinesca, utilizzando per questa un naviglio ’irrigazione già esistente. Il foglio include anche una serie di calcoli relativi a un preventivo di spesa e misurazioni per il rilevamento dell’area interessata.
Figura 5 - Codice Atlantico - f. 911r. - Il corso dell'Adda e lo sbarramento in località Tre Corni |
Figura 6 - Codice Atlantico - f. 388v.- Studi per la conca dei Tre Corni, con la menzione del lago di Lecco, dell’Adda e della Rocchetta. |
Qualche anno più tardi, in data 7 luglio 1516, il giovane re francese Francesco I firmò un decreto per una donazione reale che prevedeva un reddito a favore della città di diecimila ducati l’anno, a condizione che la metà fossero investiti per la realizzazione di un grande naviglio che mettesse in comunicazione Milano con le zone dei laghi comaschi.
Decretum super flumine Abduae reddendo navigabili è l’incipit latino di quel rapporto che il nobile Carlo Pagnani pubblicò nel 1520, come resoconto del lavoro della Commissione governativa che nei quattro anni precedenti si era occupata di studiare le possibili soluzione per la realizzazione del naviglio (98). Il documento, di notevole interesse storico, costituisce la prima fondamentale tappa del progetto per il Naviglio di Paderno, che per varie vicissitudini verrà terminato solamente nel 1777 sotto il governo di Maria Teresa d’Austria.
La storia del Naviglio di Paderno merita un approfondimento che esula dal contesto di questo lavoro, ma il fatto che Pagnani non abbia mai nominato Leonardo da Vinci nel suo rapporto ha destato non poche perplessità tra gli studiosi. Com’è possibile che la Commissione avesse trascurato gli importanti studi di Leonardo in merito al problema?
Anche se nel 1516 l’artista aveva già lasciato l’Italia per la Francia, sembra poco plausibile che Pagnani non lo conoscesse o non l’avesse mai incontrato prima. Oppure che indirettamente non avesse mai sentito parlare delle sue idee che oramai erano diffuse in città e che erano diventate un prezioso patrimonio per la cerchia dei tecnici milanesi.
Le ipotesi che si possono avanzare per spiegare il suo misterioso silenzio sono tante, ma le ragioni sono destinate a rimanere un mistero.
SULLE ORME DI LEONARDO
L'IMPRONTA DEL GENIO IN UN ITINERARIO LUNGO IL MEDIO CORSO DELL'ADDA
«E stando così fermo, sospeso il fruscio de’ piedi nel
fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a
sentire un rumore, un mormorio, un mormorio
d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama:
- E’ l’Adda! - Fu il ritrovamento di un amico, d’un
fratello, d’un salvatore. »
Alessandro Manzoni - I Promessi Sposi – Cap. XVII
Il tratto del fiume Adda che conobbe Leonardo è ancora oggi una zona di grande interesse naturalistico, storico e artistico. Per la varietà di flora e fauna, e per le testimonianze lasciate dall’uomo nel corso dei secoli, è oggi un distretto bioculturale di notevole interesse, dove lo sviluppo delle attività legate al turismo e al tempo libero, va di pari passo con le politiche di sostenibilità ambientale.
Il parco Adda Nord. L'ambiente naturale e i caratteri storico-culturali
I territori fluviali del medio corso, a valle dei bacini lacustri di Como e Lecco, fanno parte oggi del Parco Adda Nord, istituito negli anni Settanta per scopi di tutela (99); appartiene al sistema dei parchi regionali lombardi dal 1983 e copre un’area di 5.650 ettari che comprende trentadue comuni delle province di Lecco, Milano e Bergamo. Il tratto fluviale che interessa il parco è di circa cinquanta chilometri, partendo da Lecco fino a Truccazzano, una località poco più a sud di Vaprio.
Dal punto di vista naturalistico e paesaggistico il parco fluviale occupa un territorio di notevole impatto visivo, formatosi nel Quaternario quando i movimenti dei ghiacciai diedero luogo ad anfiteatri morenici poi scavati dal fiume, che ha creato in alcuni punti il suggestivo paesaggio di rocce verticali.
L’Adda, uscendo dal lago di Lecco e oltrepassati i piccoli laghi di Garlate e Olginate, scorre maestoso nel suo ampio letto fino a Brivio, dove si restringe e presenta il passaggio più facile tra una sponda e l’altra; non è un caso che in lingua celtica il termine briva significasse proprio guado.
Figura 7 - L'Adda a Brivio. |
corso tranquillo e sinuoso verso la pianura. A Trezzo, il suo letto forma un’ansa spettacolare prima che si incanali nel Naviglio della Martesana, che corre parallelo al fiume fin quasi a Milano.
Figura 8 - L'Adda tra Paderno e Porto. |
Dopo la pace di Lodi del 1454 il fiume segnò il confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. La citazione manzoniana posta all’inizio di questo capitolo ricorda appunto l’episodio dei Promessi Sposi in cui Renzo, in fuga da Milano perché ricercato dalle guardie spagnole, riesce a guadare il fiume a Trezzo, mettendosi in salvo raggiungendo la sponda sinistra, al tempo territorio veneziano.
L’importanza strategica del fiume è testimoniata ancora oggi dalla presenza di alcuni dei numerosi castelli e forti eretti nei secoli a guardia dei transiti. Sorti inizialmente come presidi militari, venivano talvolta trasformati in lussuose residenze da parte di signori locali. Rilevanti dal punto di vista storico e per lo stato di conservazione, sono il Castello di Brivio, la Rocca di Trezzo e, più a sud, il Castello di Cassano.
L'Ecomuseo di Leonardo
Il tratto fluviale posto tra Brivio e Cassano, oltre ad essere sorprendente dal punto di vista ambientale, ricopre notevole importanza per il particolare paesaggio antropico; l’operosità dell’homo faber, che nel corso del tempo ha saputo trarre vantaggio dalla vicinanza del fiume, ha lasciato importanti testimonianze storico-artistiche oggi tutelate dalla recente istituzione dell’Ecomuseo di Leonardo, una realtà associativa che coinvolge il Parco Adda Nord e dieci comuni rivieraschi che si affacciano su questo tratto di Adda.
Figura 9 - Mappa dei comuni promotori dell'Ecomuseo. |
Il territorio ecomuseale è interamente percorribile a piedi o in bicicletta grazie alla strada alzaia che costeggia la riva destra del fiume (101). Tra i segni e le testimonianze della storia, si incontrano vestigia preistoriche (celtiche, romane e longobarde), opere idrauliche della bonifica benedettina alto medievale e del sistema di navigazione fluviale rinascimentale, castelli medievali e rinascimentali, chiese e santuari; il traghetto di Imbersago, ritratto anche da Leonardo; il ponte in ferro di Paderno, meraviglioso gioiello di archeologia industriale, residenze di campagna delle famiglie aristocratiche;
filande, filatoi e opifici cotonieri di inizio secolo; il villaggio operaio di Crespi d’Adda, sito del Patrimonio Mondiale protetto dall’Unesco; le centrali idroelettriche e le opere idrauliche di inizio secolo.
Figura 10 - Lo Stallazzo - oggi punto di informazioni dell'Ecomuseo, era un tempo stazione e ricovero per i cavalli, che risalendo l'alzaia, rimorchiavano controcorrente i barconi. |
Il traghetto di Imbersago
Figura 11 - Leonardo da Vinci - Windsor Collection – RL 12400. |
La veduta a volo d’uccello offertaci da Leonardo in questa straordinaria illustrazione fa parte dei disegni della Serie dell’Adda, oggi conservata a Windsor. Con precisione fotografica rappresentò una particolare imbarcazione a due scafi in procinto di attraversare il fiume. Un traghetto di questo tipo funzionava in almeno quattro località lungo il percorso dell’Adda tra Lecco e Milano, come dimostra anche un’incisione rappresentante una pianta della zona, pubblicata da Carlo Pagnani nel suo già citato rapporto (102). Il traghetto ritratto da Leonardo è probabilmente quello che univa Vaprio a
Canonica, allora visibile dalle terrazze di Villa Melzi.
Oggi, l’unico esemplare rimasto è quello che unisce Imbersago e Villa d’Adda, sulla sponda bergamasca. Il traghetto funziona manualmente. E’ infatti agganciato ad un lungo cavo, issato da riva a riva, ed è in grado di muoversi grazie alla sola forza della corrente fluviale. Per molto tempo, l’invenzione di questo tipo di imbarcazione fu attribuita a Leonardo, proprio in virtù del disegno di Windsor e di alcuni scritti che si riferiscono al suo meccanismo costruttivo.
Gli studi più recenti hanno poi stabilito che i traghetti erano stati inaugurati già sotto il governo di Ludovico il Moro per regolamentare il trasporto fluviale, andando a sostituire le barche per il trasporto merci che giornalmente attraversavano il fiume.
Figura 12 - Il traghetto di Imbersago. |
Figura 13 - Il fiume ripreso dall'alzaia nei pressi di Imbersago. |
Lasciato Imbersago, dopo pochi chilometri si raggiunge Paderno, dove il fiume scorre incassato tra alte pareti rocciose ricoperte di boschi. Subito si rimane rapiti dalla maestosità del ponte San Michele, un’imponente struttura in ferro ad arco, gioiello di archeologia industriale e simbolo del progresso umano di fine Ottocento (103).
Il ponte fu realizzato tra il 1887 e il 1889 dalla Società Nazionale delle Officine di Savigliano, che aveva vinto il concorso per un ponte a doppio scorrimento (ferroviario e stradale) indetto dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Il progetto fu affidato all’ingegnere svizzero Roethlisberger, che fu in grado di realizzare un’opera di straordinaria eleganza e di grande audacia ingegneristica.
I lavori di costruzione durarono ventotto mesi ed impegnarono 470 lavoratori. Per la sua realizzazione furono utilizzati 2650 tonnellate di ferro, ghisa e acciaio, nonché altri materiali di diversa provenienza. Le due spalle in muratura furono innalzate con pietre e graniti dei territori lariani, mentre il ponte di servizio fu realizzato con abete proveniente dalla Baviera. Il ponte è lungo 266 metri e si trova a 85 metri dal livello del fiume.
Figura 14 - Il ponte San Michele. |
Figura 15 - Il treno diretto a Bergamo percorre il ponte San Michele. |
Il Naviglio di Paderno
Figura 16 - L'incile del Naviglio di Paderno nei pressi del Ponte San Michele. |
Dopo che i Francesi furono sostituiti dagli Spagnoli nel dominio del ducato di Milano, nel 1574 l’ingegnere Giuseppe Meda sottopose alle autorità un nuovo progetto, che prevedeva solo due conche, e un preventivo di spesa che si rivelò poi sottostimato. Nel 1591, dopo l’approvazione di Filippo II, re di Spagna, i lavori iniziarono sotto la direzione dello stesso Meda. L’opera si presentò da subito tecnicamente impegnativa e i lavori si rivelarono difficili fin da subito per una serie di problemi che riguardavano la permeabilità del suolo e la natura dei terreni. In aggiunta, una serie di piene eccezionali e alcune proteste dei lavoratori fecero naufragare il progetto. Con questo fallimento il Meda si giocò la carriera e i lavori furono interrotti.
Con la pace di Utrecht del 1713, il ducato di Milano passò sotto il dominio degli Austriaci. Dopo la metà del secolo, il governo si rese conto che una via d’acqua tra Como e Milano sarebbe stata di grande importanza commerciale e strategica per lo scambio di merci con il Nord Europa. Furono inviati sul posto ingegneri svizzeri, tedeschi e italiani per esaminare le opere eseguite due secoli prima e studiare il nuovo progetto.
Anche stavolta l’iniziativa andò incontro ad una certa opposizione; innanzitutto da parte della città di Como che temeva una contrazione dei trasporti sulle rotte finora utilizzate e che l’avevano sempre avvantaggiata; inoltre, da parte della Repubblica di Venezia si presagiva un calo nella fornitura di materie prime alla pianura lombarda.
Ci volle la determinazione di Maria Teresa d’Austria per sbloccare la situazione. Nel 1773, a Vienna, fu firmato il decreto imperiale che dette ufficialmente il via ai lavori.
Vennero realizzate sei conche di navigazione di altezza variabile tra i tre e i sei metri per un dislivello totale di 26, 40 metri (Conchetta, Conca Vecchia, Conca delle Fontane, Conca Grande o della Rocchetta, Conca di mezzo, Conca in Adda). L’11 ottobre 1777 il Naviglio fu solennemente inaugurato alla presenza dell’arciduca Ferdinando, governatore di Milano e di una gran folla di persone festanti.
Il Naviglio entrò immediatamente in funzione. Per percorrere il tratto da Lecco a Trezzo erano necessarie tredici ore e il passaggio ad ogni conca richiedeva circa mezz’ora. La navigazione veniva effettuata in salita (cioè da Trezzo a Lecco) nel pomeriggio, e in discesa al mattino. Per il trasporto delle merci venivano impiegati barconi costruiti in castagno e rovere presso i cantieri di Pescarenico e Brivio; poco dopo l’apertura del naviglio al traffico delle merci, venne istituito un servizio pubblico per il trasporto dei passeggeri tra il lago di Como e Milano, che utilizzava una flotta di nove barche.
Le fortune del Naviglio durarono per circa un secolo e mezzo. La diffusione del trasporto su ferrovia ne ridusse l’interesse e la convenienza economica. Tra il 1898 e il 1910 furono realizzate altre tre conche (Conca Nuova, Conca Edison, Conca Terminale) in occasione dell’entrata in servizio delle centrali idroelettriche Bertini ed Esterle. La navigazione proseguì fino al 1930 per poi cessare definitivamente. Fino al 1963 furono comunque effettuate le necessarie operazioni di manutenzione, che erano affidate ai proprietari delle centrali. A seguito della nazionalizzazione dell’energia elettrica, venne
a mancare qualsiasi intervento che diede inizio all’inevitabile degrado delle strutture.
Oggi, un degli scopi che l’Ecomuseo vuole perseguire è proprio quello del restauro e il recupero delle chiuse con l’intenzione di rendere di nuovo navigabile il Naviglio. Un obiettivo che ad oggi appare quasi impossibile da realizzare, visto lo stato di degrado in cui versano le chiuse e l’endemica mancanza di fondi in ambito culturale.
Figura 17 - Tratto del Naviglio di Paderno e l'alzaia ciclabile. |
Figura 18 - A destra del Naviglio e dell'alzaia l'Adda scorre impetuoso formando una serie di rapide. |
Figura 19 - Chiusa a doppio battente. |
Figura 20 - Conca di navigazione in disuso. |
La chiesa di Santa Maria della Rocchetta
A circa metà del naviglio, subito dopo aver superato lo Stallazzo (punto informazioni dell’Ecomuseo), su uno sperone di roccia che domina da una cinquantina di metri d’altezza il corso del fiume, sorge l’antica chiesetta di Santa Maria della Rocchetta. Il panorama che si gode una volta arrivati in alto, giustifica la fatica per salire la lunga scalinata di 168 gradini.
La chiesa risale al 1386 e fu voluta da Beltrando da Cornate, possidente del luogo, che la fece edificare sui resti di un’antica rocca, probabilmente di origine longobarda. Al piccolo oratorio venne annesso un eremo che ospitava alcuni frati Agostiniani del convento di San Marco di Milano.
La permanenza della comunità religiosa ebbe vita breve, perché già nel 1428 i frati dovettero ritirarsi a causa dei conflitti politici tra Milano e Venezia; la Rocchetta infatti si trovava in un punto strategico e l’eremo ben presto divenne uno strategico fortino per i soldati milanesi.
Dopo la pace di Lodi del 1454, l’Adda divenne ufficialmente il confine tra i territori di Milano e quelli veneziani. I frati poterono tornare ad abitare l’eremo, ma la presenza di soldati era continua. Per questo motivo nel 1484 il monastero fu definitivamente soppresso.
Nonostante la chiesa continuasse ad essere luogo di culto e meta di visite pastorali, nei due secoli successivi subì numerosi saccheggi e danni dovuti all’incuria. Con la secolarizzazione voluta da Napoleone nel 1797, la Rocchetta fu confiscata insieme a tutti i beni appartenenti al convento agostiniano di San Marco, che aveva sempre mantenuto il possesso della chiesa.
Verso la metà del 1800, la chiesa fu donata alla parrocchia di Porto d’Adda, dalla quale ancora oggi dipende. Nel corso del Novecento l’oratorio subì numerosi restauri, ma solo nel 1991, tornò all’antico splendore grazie all’intervento di associazioni private.
A circa metà del naviglio, subito dopo aver superato lo Stallazzo (punto informazioni dell’Ecomuseo), su uno sperone di roccia che domina da una cinquantina di metri d’altezza il corso del fiume, sorge l’antica chiesetta di Santa Maria della Rocchetta. Il panorama che si gode una volta arrivati in alto, giustifica la fatica per salire la lunga scalinata di 168 gradini.
La chiesa risale al 1386 e fu voluta da Beltrando da Cornate, possidente del luogo, che la fece edificare sui resti di un’antica rocca, probabilmente di origine longobarda. Al piccolo oratorio venne annesso un eremo che ospitava alcuni frati Agostiniani del convento di San Marco di Milano.
La permanenza della comunità religiosa ebbe vita breve, perché già nel 1428 i frati dovettero ritirarsi a causa dei conflitti politici tra Milano e Venezia; la Rocchetta infatti si trovava in un punto strategico e l’eremo ben presto divenne uno strategico fortino per i soldati milanesi.
Dopo la pace di Lodi del 1454, l’Adda divenne ufficialmente il confine tra i territori di Milano e quelli veneziani. I frati poterono tornare ad abitare l’eremo, ma la presenza di soldati era continua. Per questo motivo nel 1484 il monastero fu definitivamente soppresso.
Nonostante la chiesa continuasse ad essere luogo di culto e meta di visite pastorali, nei due secoli successivi subì numerosi saccheggi e danni dovuti all’incuria. Con la secolarizzazione voluta da Napoleone nel 1797, la Rocchetta fu confiscata insieme a tutti i beni appartenenti al convento agostiniano di San Marco, che aveva sempre mantenuto il possesso della chiesa.
Verso la metà del 1800, la chiesa fu donata alla parrocchia di Porto d’Adda, dalla quale ancora oggi dipende. Nel corso del Novecento l’oratorio subì numerosi restauri, ma solo nel 1991, tornò all’antico splendore grazie all’intervento di associazioni private.
Figura 21 - La chiesa di Santa Maria della Rocchetta |
Figura 22 - L'Adda visto dalla Rocchetta |
Le centrali idroelettriche Bertini, Esterle, Taccani
A fine Ottocento l’Adda diventò protagonista per la produzione di energia elettrica e simbolo del progresso dell’industria italiana, grazie alla realizzazione di tre importanti centrali idroelettriche costruite lungo il fiume tra Paderno e Trezzo. Per far fronte infatti alle esigenze di un’industria in piena espansione e di un altrettanto intenso sviluppo sociale, fu necessario approntare nuovi impianti, nelle quali si sarebbero fuse le più moderne tecnologie dell’epoca.
Queste realizzazioni contribuirono a far decollare l’economia del paese, grazie anche alla nuova possibilità di trasportare l’energia elettrica a distanze sempre più lontane dal luogo di produzione. Il complesso delle centrali del medio corso dell’Adda aprì questa nuova e straordinaria fase di modernità tecnologica e costituiscono oggi un punto di interesse non solo storico, ma anche architettonico.
La centrale Bertini di Porto d’Adda
Figura 23 – La centrale Bertini |
L’inaugurazione della centrale Bertini, avvenuta il 28 settembre 1898 per opera della società Edison, è da considerare un fatto di portata storica, perché proiettò l’Italia in cima alla classifica europea per la produzione di energia idroelettrica. Progettata dall’ingegnere Paolo Milani, la centrale era dotata di macchine che all’epoca erano seconde – per potenza – solo a quelle utilizzate per le cascate del Niagara e l’energia che vi era prodotta, era trasportata con un percorso aereo di 32 chilometri fino alla centrale termoelettrica di Porta Volta a Milano.
La centrale Esterle
Poco più a valle della Bertini, sorge la centrale Esterle che fu attivata sempre da Edison nel 1914. Ad oggi è ancora la centrale più potente del sistema del medio corso dell’Adda e presenta una particolare architettura neorinascimentale in mattoni rossi, con la presenza di finestre e finestroni a sesto acuto e a tutto sesto con incorniciature in cotto; citazioni storico-stilistiche che evocano la stagione leonardesca.
Figura 24 - La facciata neorinascimentale della centrale Esterle |
Figura 25 - Centrale Esterle - particolari architettonici |
La centrale Taccani
La più monumentale delle centrali è sicuramente la Taccani, edificata a Trezzo tra il 1906 e il 1909 grazie all’industriale cotoniero Cristoforo Benigno Crespi su progetto tecnico dell’ingegnere Adolfo Covi e su progetto architettonico di Gaetano Moretti.
Crespi richiese esplicitamente ai suoi progettisti di rispettare il contesto storicoarchitettonico del luogo, chiedendo di porre la centrale in rapporto diretto sia con il castello visconteo che sovrasta ancora oggi dall’alto il paesaggio, sia con il tratto sinuoso del fiume che in quel punto forma una maestosa doppia ansa.
Figura 26 - La centrale Taccani si specchia nelle acque dell'Adda |
Figura 27 - Centrale Taccani - le merlature richiamano l'architettura della rocca soprastante |
Più che per il finanziamento della centrale Taccani, Cristoforo Benigno Crespi è noto oggi per aver fondato il villaggio operaio di Crespi d’Adda, dal 1995 entrato a far parte dei beni Unesco, come monumento di archeologia industriale.
Il 24 luglio 1878 Crespi apriva un cotonificio a Capriate, sulla sponda bergamasca dell’Adda, a pochi chilometri da Trezzo. Comincia così la storia del villaggio operaio di Crespi d’Adda, che nacque dalla mente di un capitano d’industria illuminato, e che aveva l’ardire di voler realizzare la città ideale. Insieme al figlio, fece costruire, a cavallo tra Ottocento e Novecento, un villaggio ad uso degli operai e degli impiegati della fabbrica. Oltre allo stabilimento e a un castello adibito a residenza padronale estiva, il Crespi fece realizzare le abitazioni per ogni famiglia, una scuola, un ospedale e tutto ciò che poteva servire ai suoi dipendenti dentro e fuori dalla fabbrica
Figura 28 - Pianta del villaggio operaio di Crespi |
Come si può vedere dalla cartina, a Crespi c’era proprio tutto. Ogni famiglia, oltre all’abitazione, possedeva un orto. C’era la chiesa, uno spaccio e persino luoghi di divertimento, come una piscina con acqua calda. La scuola era gratuita. Il Crespi forniva ai bambini tutto il necessario: libri, penne, grembiule e c’era persino la mensa.
Passeggiando tra le strade del villaggio si ha come l’impressione che tutto vada in progressione. Al centro dell’abitato c’è il cotonificio e dietro ad esso il castello, la chiesa e le scuole. C’è il lavatoio e le docce di pubbliche. Le case furono costruite seguendo una linea gerarchica immaginaria; i condomini degli operai, le case con un piccolo giardino per impiegati e quadri e infine – più fuori – le ville dei dirigenti. Anche nel cimitero sembra che si rispetti la gerarchia. Attorno al mausoleo (eccentrico e gigantesco) di Crespi, ci sono semplici tumuli, ma anche lapidi lavorate.
Figura 29 - Crespi d'Adda - le case della middle class si susseguono in sequenza |
Figura 30 - Crespi d'Adda - l'ingresso allo stabilimento |
Nel 1995 il Comitato per il Patrimonio Mondiale dell’Unesco ha accolto il villaggio nella lista dei siti protetti in quanto «esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa».
Verso Vaprio
Oltrepassata la centrale Taccani il percorso continua costeggiando il Naviglio della Martesana che per gran parte del suo tratto corre parallelo al fiume. Pochi chilometri più a sud c’è Vaprio, Milano e la pianura che attende il fiume; dopo 313 chilometri dalla sorgente, l’Adda, nei pressi di Lodi, si immette nel Po.
Figura 31 - Bernardo Bellotto - Vaprio d'Adda - 1744 (New York - Metropolitan Museum) |
APPENDICE
I CODICI LEONARDESCHI (105)
Codice Atlantico – Si tratta di una raccolta miscellanea di appunti e disegni che abbracciano tutto l’arco della carriera di Leonardo, dal 1478 fino al 1519, anno della sua morte. Il suo nome deriva dal formato dei fogli che misurano cm. 65 x 44 e ricordano appunto le pagine di un atlante. Nella sua rilegatura originale risalente al Cinquecento, poteva sembrare un vero e proprio libro di appunti compilato dall’autore. In realtà fu composto dallo scultore e collezionista d’arte Pompeo Leoni, attivo alla corte di Spagna nella seconda metà del XVI secolo. Dopo aver sottratto agli ingenui eredi di Francesco Melzi un’ingente quantità di materiale, nel 1590 tornò a Madrid e cominciò un’imponente opera di ritaglio e assemblaggio delle carte, ignorando temi e cronologia per ricercare piuttosto la spettacolarità della composizione. Neanche con il restauro compiuto in tempi recenti si è voluto prediligere una catalogazione sistematica del materiale, che si compone di 1750 unità tra fogli e frammenti. Alla morte del Leoni, nel 1608, gli eredi vendettero il libro al conte Galeazzo Arconati che più tardi lo donò alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Nel 1795 Napoleone ordinò di trasferire il codice e altri manoscritti leonardeschi a Parigi; solo il Codice Atlantico fece ritornò in Ambrosiana dopo le decisioni prese durante il Congresso di Vienna del 1815. Qualsiasi campo della scienza indagato da Leonardo si può ritrovare negli scritti e nei disegni contenuti in questo codice, che rappresenta la summa degli studi compiuti e l’universalità del genio leonardesco. Oggi la Biblioteca Ambrosiana organizza con continuità esposizioni dei fogli, a rotazione. Le moderne tecnologie hanno inoltre consentito la digitalizzazione di tutto il materiale, visibile in gran parte sul sito web della biblioteca.
Visibile su www.ambrosiana.eu
Raccolta di Windsor – E’ la più straordinaria raccolta di disegni leonardeschi, di proprietà della casa reale inglese fin dal 1690. In origine i disegni facevano parte della collezione del Leoni, il quale, come per il Codice Atlantico, fece con i disegni un opera di assemblaggio piuttosto arbitraria, riunendoli in un libro di 234 fogli del formato di circa cm. 48 x 35. Nel 1630 il collezionista d’arte inglese Thomas Howard, conte di Arundel, acquistò dagli eredi del Leoni i disegni, i quali, qualche decennio dopo, transitarono definitivamente nelle collezioni reali inglesi, acquistati o ricevuti in dono. I circa seicento disegni che compongono la collezione furono eseguiti a matita nera o rossa ovvero a sanguigna. Verso la fine del XIX secolo si decise di smontare il libro per via dello sfregamento da contatto che i disegni avevano subito nell’arco degli ultimi tre secoli. Nel 1994 si concluse definitivamente l’opera di restauro, con la collocazione dei singoli fogli in lastre di perspex (che favoriscono la visione e la conservazione) e la loro catalogazione secondo uno schema tematico ideato da Carlo Pedretti, che ha curato anche la loro pubblicazione in facsimile. La parte più stupefacente della raccolta è
formata da circa duecento disegni di anatomia; Leonardo aveva una certa predilezione per lo studio del corpo umano, che perseguì con rigore scientifico nell’arco di tutta la sua carriera di scienziato. I disegni restano a tutt’oggi insuperati per l’altissima qualità del tratto. I rimanenti disegni della collezione riguardano: i paesaggi - circa settanta disegni - che includono gli studi sulle acque, alcune vedute del fiume Adda, studi sulla vegetazione per la Leda e le celeberrime illustrazioni del Diluvio; altri settanta disegni riguardano l’anatomia del cavallo e altri animali che dovettero servire come studi per la realizzazione dei monumenti allo Sforza e al Trivulzio, nonché per l’affresco della Battaglia di Anghiari; infine, i disegni preparatori per la Vergine delle Rocce e del Cenacolo, profili, teste umane e caricature. La collezione comprende anche circa venti carte geografiche. Tutti i disegni sono stati digitalizzati e sono disponibili per la visione sul sito della Windsor Collection.
Visibile su www.royalcollection.org.uk
Codice Arundel – Riunisce fascicoli a se stanti per un totale di 283 fogli di vario formato. Come per i disegni della collezione di Windsor, si tratta di materiale che inizialmente passò tra le mani di Sir Thomas Howard, conte di Arundel. Howard era un accanito collezionista di manoscritti leonardeschi che ricercò in tutta Europa nel corso di numerosi viaggi. Alla sua morte, avvenuta a Padova nel 1646, i suoi eredi donarono i manoscritti alla Royal Society di Londra, per finire poco meno di due secoli dopo nel patrimonio della British Library. Le materie affrontate in questa collezione sono diverse, ma è la matematica a farla da padrone. E’ contenuto in questo codice anche il celebre foglio in cui Leonardo scrive della morte del padre. Raramente registrò nei suoi appunti avvenimenti personali; sorprende qui il tono freddo in cui annota una notizia di tal genere. Altri contenuti: i progetti architettonici per la nuova residenza del re di Francia Francesco I a Romorantin, che risalgono agli ultimi tre anni della sua vita. Tra le curiosità: il disegno di ’apparecchiatura per la respirazione subacquea e gli studi per l’allestimento dell’Orfeo di Agnolo Poliziano, rappresentato a Milano tra il 1506 e il
1508.
Visibile su www.bl.uk
Manoscritti di Francia – Sono i manoscritti che nel 1795 Napoleone Bonaparte fece prelevare dalla Biblioteca Ambrosiana insieme al Codice Atlantico per essere trasferiti alla biblioteca dell’Institut de France di Parigi, dove tuttora sono conservati. Sono dodici volumi differenti tra loro per formato, contenuto e cronologia; facevano parte del lascito del conte Arconati all’Ambrosiana. Verso la fine del Settecento il fisico italiano Giovan Battista Venturi li catalogò, segnandoli con lettere dell’alfabeto da A fino a M. A metà Ottocento l’illustre storico, naturalizzato francese, Guglielmo Libri, approfittò della sua posizione di funzionario di biblioteche per asportare di nascosto numerosi fogli dai manoscritti A e B; il sistema adottato era semplice: tra le pagine dei codici lasciava un filo imbevuto di acido muriatico come se fosse un segnalibro. Al momento opportuno prelevava i fogli, che risultavano già staccati per via dell’acido. Fuggito in Inghilterra, Libri ricompose i fogli sottratti in due codici per rivenderli poi a Lord Ashburnham (oggi sono detti rispettivamente Ashburnham 2038 e 2037). Dopo una lunga trattativa, nel 1888 i due codici furono restituiti alla Francia e dal 1891 sono di nuovo conservati presso l’Institut de France.
· Manoscritto A – E’ un volume che inizialmente era composto da 114 fogli di cm.22 x 15, ridotti a 63 dopo il furto di Libri. Pittura e fisica sono gli argomenti trattati da Leonardo, visti sotto la lente unificante del concetto di moto che tanto influenzerà il suo modo di dipingere, ovvero di rendere le manifestazioni della natura. La datazione dei fogli si colloca tra il 1490 e il 1492.
· Manoscritto B – Dagli originali 100 fogli di cm. 23 x 16, Guglielmo Libri – insieme a un consistente numero di pagine di appunti e disegni, sottrasse un
piccolo codice sul volo degli uccelli che era cucito all’interno di una delle copertine. E’ il manoscritto più antico perché risale al primissimo periodo del soggiorno milanese al servizio degli Sforza. Contiene infatti la famosa lettera di presentazione, oltre a una serie di disegni e descrizioni di armi; è presente anche l’argomento architettura con gli studi sugli edifici sacri a pianta centrale e il progetto della città ideale. Curiosi sono i disegni che rappresentano progetti avveniristici come quello della macchina volante e il sottomarino.
· Manoscritto C – E’ composto da 32 carte di cm. 31,5 x 22, trafugate a Villa Melzi dal tutore di famiglia Lelio Gavardi d’Asola intorno al 1585. Qualche
anno dopo il canonico Ambrogio Mazenta, amico della famiglia Melzi, convinse Gavardi a restituire le carte, che però rimasero in custodia ad Ambrogio e al
fratello Guido. Nel 1603, quest’ultimo, cedette tutto il materiale al cardinale Federigo Borromeo che lo donò poi all’Ambrosiana. Il tema principale del
manoscritto sono gli studi di ottica in relazione alla scienza della pittura, con approfondimenti dei concetti di luce ed ombra. Il quaderno reca la data in cui presumibilmente Leonardo cominciò ad utilizzarlo, cioè il 23 aprile 1490. Una curiosità: alcune note ci rimandano agli eventi della quotidianità, come ad esempio l’elenco delle malefatte di Salaì che al tempo aveva circa dieci anni.
· Manoscritto D – E’ un piccolo volume composto da 5 bifogli di cm. 22,5 x 16 per un totale di 20 pagine. Il suo contenuto sarebbe una versione meditata degli appunti precedenti riguardanti l’occhio e il fenomeno della visione. Qui Leonardo si confronta con i testi di autori antichi, giudicati però sotto la luce della sua sperienzia; molti disegni infatti illustrano esperimenti da lui condotti in relazione alle teorie dei classici.
· Manoscritto E – Era inizialmente composto da 96 pagine di cm. 14,5 x 10, come i manoscritti F e G. Dopo il furto di Guglielmo Libri ne rimangono 80. Alcuni appunti riguardanti il suo trasferimento da Milano a Roma testimoniano che è uno dei codici più recenti, scritto probabilmente intorno al 1513. Fondamentali sono in questo manoscritto gli studi di fisica meccanica, con i quali – secondo gli specialisti di settore – Leonardo avrebbe dato un contributo fondamentale per la formulazione della legge della composizione di forze concorrenti. L’altro argomento trattato è il volo degli uccelli, in particolare sono presenti studi sulla funzione dell’ala in relazione alle correnti d’aria. Sono presenti alcune riflessioni sulla necessità di dare un ordine ai propri appunti. Un’intenzione che Leonardo ribadisce in molti manoscritti, ma che – sappiamo – non riuscirà a realizzare.
· Manoscritto F – E’ un codice che si è mantenuto praticamente intatto, formato da 96 fogli di cm. 14,5 x 10,5. Le date riportate a inizio e a fine volume
(settembre e ottobre del 1508) denunciano una compilazione concentrata nel tempo. Il tema principale di questo manoscritto è l’acqua e i suoi movimenti,
corredati da disegni che illustrano vortici e onde di varie forme, nonché strumenti utili alla regolazione delle acque, come le pompe idrauliche. Sono inoltre presenti elementi di cosmologia e geometria.
· Manoscritto G – Come i due manoscritti precedenti, questo codice è in ottavo ovvero della misura di cm. 14 x 10 circa e composto da 96 fogli. Secondo le date rintracciabili al suo interno, è stato stabilito che si tratta di scritti relativi al secondo periodo milanese e al successivo periodo romano. Nel codice sono presenti numerosi disegni che si riferiscono ai suoi studi di botanica, in relazione però alla pittura. Proprio da queste pagine, Francesco Melzi trascrisse numerose note, riportate poi nel Libro di Pittura. Alcuni disegni mostrano inoltre macchinari per la lavorazione di specchi concavi. Dalle fonti infatti risulta che durante il periodo romano, Leonardo si dedicò con assiduità agli studi per la costruzione di specchi ustori, realizzati componendo dei tasselli metallici, uniti tra loro attraverso la fusione a stagno.
· Manoscritto H – Si tratta di un libretto tascabile (cm. 10,5 x 8) composto da 3 quaderni per un totale di 142 fogli. Sono appunti scritti tra il 1493 e il 1494 dove è di nuovo l’acqua il tema prediletto. In questo caso vengono trattati i problemi di smottamento degli argini dei fiumi, dovuti alla forza e alla violenza della corrente; un problema questo che probabilmente Leonardo potè osservare di persona durante le numerose escursioni nei territori del ducato milanese.
· Manoscritto I – Il manoscritto è composto da due taccuini di uguale formato (cm. 10 x 7,5) rispettivamente di 48 e 96 pagine. Gli argomenti in esso trattati rivelano le differenti attività con cui Leonardo era impegnato alla corte di Ludovico, come l’organizzazione delle feste. Nei quaderni ci sono inoltre dei riferimenti alla cosiddetta “vigna di Leonardo”, un podere che Ludovico gli aveva concesso quale compenso per i lavori svolti per il ducato.
· Manoscritto K - Fu il conte milanese Orazio Archinti a donare questo codice all’Ambrosiana nel 1674; si tratta di un volume composto da tre taccuini, rispettivamente di 48, 32 e 48 fogli di una misura media di cm. 9,6 x 6,5. Due dei tre taccuini risalgono agli anni 1503-1505 e trattano principalmente di geometria euclidea. Il terzo taccuino risale agli anni 1506-1507 e contiene studi di anatomia e architettura con riferimento al secondo soggiorno milanese, quando Leonardo era al servizio del governatore francese Charles d’Amboise.
· Manoscritto L – E’ un libretto, in origine di 96 fogli, ora ridotti a 94 che misurano cm. 10 x 7. Gli appunti si riferiscono agli ultimi anni trascorsi alla corte sforzesca, poi dopo una pausa dovuta probabilmente alla caduta del Moro e alla partenza dalla Lombardia, riprendono a partire dal 1502 fino al 1504. Sono contenuti appunti riguardanti il Cenacolo, ma si trovano in abbondanza studi di architettura militare e fortificazioni in Romagna e in Toscana, corrispondenti ai territori di Cesare Borgia, per il quale Leonardo lavorò come ingegnere militare e architetto.
· Manoscritto M – E’ un volume simile al precedente per misure e numero di fogli, compilato intorno al 1498 e per i due anni successivi. Qui trovano spazio le teorie di Leonardo riguardanti la geometria – che apprendeva in quegli anni con l’aiuto di Luca Pacioli – e la fisica. Leonardo mette al vaglio dell’esperienza i suoi recenti studi degli autori classici, come Euclide e Aristotele. Tra i disegni, ci sono alcuni studi di ponti, tra cui uno che – come spiega lo stesso Leonardo – gli era stato mostrato dall’amico Bramante.
Codici Forster – Sono tre taccuini tascabili, diversi per argomenti trattati e datazione, ma raggruppati perché passarono dalla proprietà di Pompeo Leoni a quella del conte inglese Lytton che li acquistò a Vienna, per poi passare in eredità a John Forster, da cui prendono il nome. Sono denominati Forster I, II e III e sono conservati a Londra presso il Victoria and Albert Museum. Collegandosi al sito web del museo è possibile sfogliare virtualmente i codici.
· Forster I - E’ composto da due manoscritti (misura cm. 14,5 x 10); il primo risale al 1505 ed è strutturato a capitoli. L’argomento principe è di nuovo la geometria con parti che riguardano le figure piane, i solidi e le trasformazioni della piramide. Il secondo manoscritto risale ai primi anni trascorsi a Milano e riflette gli interessi di quel periodo ovvero l’ingegneria idraulica.
· Forster II – Come il precedente, questo codice è formato da due manoscritti di piccolissimo formato (cm. 9,5 x 7). Il primo, compilato perlopiù a sanguigna, viene datato al 1497 per via dei numerosi riferimenti al Cenacolo e ai lavori di Bramante presso Santa Maria delle Grazie. Il secondo risale invece al 1495 ed è un quaderno di esercizi relativo a un libro di fisica che Leonardo menziona e da lui stesso scritto. Purtroppo non è rimasta traccia di questo testo, ma dagli esercizi contenuti nel codice se ne deducono gli argomenti trattati: la gravità, la forza, il moto accidentale e la percussione, ovvero le componenti della fisica che Leonardo applicherà in molti campi delle scienze da lui indagate.
· Forster III – Si tratta di un libretto di 94 carte (cm. 9 x 6), compilato tra il 1493 e il 1496. E’ sostanzialmente un brogliaccio, un taccuino utilizzato per appunti veloci. Le pagine sono riempite in maniera disordinata, dove vengono affrontati gli argomenti più disparati.
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Codice sul volo degli uccelli – Quando Guglielmo Libri lo asportò dal manoscritto B, lo smembrò per vendere 5 fogli in Inghilterra. I rimanenti 13 fogli furono acquistati nel 1867 dal collezionista romagnolo Giacomo Manzoni e venduto poi dai suoi eredi al principe russo Teodoro Sabachnikoff. Questi, dopo aver recuperato uno dei fogli mancanti, donò il manoscritto alla famiglia Savoia che lo collocò nella Biblioteca reale di Torino. I quattro fogli mancanti furono recuperati nei primi anni del Novecento.
Gli studi sul volo degli uccelli, che si ritrovano in molti manoscritti leonardeschi, sono riferiti in questo codice ai tentativi di costruire una macchina volante, una delle idee di Leonardo che ritorna nei manoscritti con una certa frequenza. Il codice, compilato intorno al 1505, testimonia un avanzamento nello studio di questo argomento. Infatti Leonardo non pensa più ad una macchina che si muove come un uccello che sbatte le ali e perciò mossa dall’energia muscolare di un uomo, ma è qui concepita come un aliante che sfrutta le correnti d’aria.
Codice Trivulziano – Il manoscritto aveva in origine 62 fogli di cm. 20,5 x 14 ed era stato marcato da Francesco Melzi con la sigla F. Prima di arrivare definitivamente tra le mani del principe Trivulzio, il codice era stato di proprietà del Leoni e poi dell’Arconati. Nel 1935 passò, insieme al fondo trivulziano, alla Biblioteca del Castello Sforzesco, dove oggi è conservato. E’ tra i manoscritti più antichi, perché risale agli anni 1487-1490, quando Leonardo decise di approfondire i suoi studi linguistici; infatti quasi tutti i fogli superstiti contengono liste di vocaboli, perlopiù latinismi, tratti da vari libri.
Oltre ai repertori lessicali, il codice contiene disegni di caricature e numerosi schizzi dedicati al problema del tiburio del Duomo.
Codici di Madrid – Si tratta di due volumi – denominati Madrid I, 8937 e Madrid II, 8936 – ritrovati casualmente nel 1967 a Madrid, nella Biblioteca Nacional, dove tuttora sono conservati.
Secondo alcune fonti storiche seicentesche, il nobile madrileno Don Juan Espina aveva acquistato dagli eredi del Leoni i due libri, vincendo la concorrenza di Lord Arundel.
Alla sua morte, furono donati al re di Spagna e trovarono posto presso la biblioteca reale, dove furono catalogati per la prima volta nel 1831. Durante un successivo trasloco, si compì il fatale errore di trascrizione della segnatura, che fece perdere le tracce dei due manoscritti, fino al fortunoso ritrovamento. I fogli dei codici sono stati digitalizzati e sono visibili sul sito internet della Biblioteca.
· Madrid I, 8937 – Composto da 192 fogli di cm. 21 x 15, raccoglie principalmente scritti risalenti all’ultimo decennio del secolo. Nella prima parte
sono presenti progetti di meccanismi tecnologicamente avanzati e di grande raffinatezza, riferiti al settore dell’orologeria e in quello degli impianti idraulici, nonché macchine utensili di vario genere. Nella seconda invece, si trovano in prevalenza studi di meccanica teorica.
· Madrid II, 8936 – Questo codice, composto di due manoscritti di cm. 21 x 15, ha aperto nuovi spiragli sulla conoscenza di Leonardo per la varietà degli argomenti in esso trattati. Il primo manoscritto è di 140 fogli e risale agli anni 1503-1505; gran parte dei disegni in esso contenuti riguardano i progetti di architettura militare e civile, realizzati durante il secondo soggiorno fiorentino al servizio della Repubblica; in particolare, le opere di fortificazione per Piombino e la canalizzazione dell’Arno tra Firenze e Pisa. Vi si ritrovano inoltre, la trascrizione di parti del trattato di ingegneria militare di Francesco di Giorgio Martini, appunti relativi alla Battaglia di Anghiari, e gli studi di ottica e prospettiva che Francesco Melzi riversò ne Il libro di pittura. Separato dal primo manoscritto, ma legato ad esso in coda, c’è un quaderno databile agli anni 1491-1493 con gli studi per la fusione del monumento equestre a Francesco Sforza.
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Codice Hammer – Fu lo scultore milanese Guglielmo della Porta che nel 1537 divenne il primo proprietario di questo codice, che probabilmente non faceva parte del lascito conservato da Francesco Melzi. Nel 1690 fu acquistato, con notevole esborso di denaro, dal pittore Giuseppe Ghezzi, che nel 1717 lo rivendette a Thomas Coke, futuro conte di Leicester, da cui il codice prese il nome. Questo fino al 1980, quando fu messo all’asta e acquistato dal petroliere americano Armand Hammer. Rimesso all’asta nel 1994, fu acquistato da Bill Gates, oggi è conservato a Seattle. Il codice è formato da un gruppo di
18 carte doppie (36 fogli con recto e verso che misurano cm. 29 x 22) compilati tra il 1506 e il 1510; Leonardo lavorava su un doppio foglio alla volta, riponendolo poi all’interno degli altri, forse con l’idea di poterne ottenere un libro.
Il tema portante di questo codice sono gli studi sull’acqua, che qui viene riprodotta nei celebri disegni di correnti, onde e vortici. L’acqua è protagonista anche nei fogli in cui Leonardo cercò di spiegare i grandi mutamenti del suolo terrestre, dovuti all’erosione, dando così una propria versione della storia della Terra. Al tal proposito, egli confutò la teoria secondo la quale i fossili marini da lui osservati in zone del Centro del Nord Italia, sarebbero stati trasportati durante il Diluvio. Un evento isolato, seppur così catastrofico, non avrebbe potuto produrre la serie di strati del terreno, ascrivibili ad epoche diverse, in cui i fossili erano stati ritrovati. Altre considerazioni sul loro stato di ritrovamento e sulla possibilità di trasporto in luoghi così lontani dal mare, indussero Leonardo a dare l’unica spiegazione razionale, ovvero il progressivo abbassamento del livello del mare che in età preistorica avrebbe occupato gran parte dell’Europa, anticipando così, secondo alcuni studiosi, il concetto di orogenesi. L’acqua, che con il suo incessante moto distrugge, erode e modifica, sarà – per Leonardo – la ragione del ritorno della Terra alla sua primitiva condizione liquida.
Altre pagine importanti riguardano l’astronomia, con la spiegazione del lumen cinereum, ovvero quel bagliore che contraddistingue la parte in ombra della Luna quando è nuova, causato secondo Leonardo, dal riflesso indiretto della luce lunare. Una
teoria che verrà poi confermata nel Seicento da altri scienziati, tra cui Galileo.
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NOTE
1 -E. H. GOMBRICH, La forma del movimento nell’acqua e nell’aria, in L’eredità di Apelle, trad. it., Torino,Einaudi, 1986, p. 51.
2 - M. DE MICHELI (a cura di), Leonardo da Vinci, l’uomo e la natura, Milano, Rizzoli, 2007, p. 5.
3 - C. PEDRETTI,M. CIANCHI, Leonardo. I codici, Firenze, Giunti, Art e Dossier, 1995, p. 4.
4 - A.M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, Torino. UTET, 1966, p. 8.
5 - A.MARINONI, Gli scritti di Leonardo, in C. Zammattio, A. Marinoni, A.M. Brizio, Leonardo scienziato, Firenze, Giunti Barbera, 1981, p. 72.
6 - Per l’elenco dei codici leonardeschi e i loro contenuti si veda l’Appendice.
7 - M. DE MICHELI, Leonardo da Vinci, l’uomo e la natura, op. cit., pagg. 49, 50.
8 - Questa nota biografica si basa principalmente, per la parte storica sul testo di S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, Milano, Rusconi, 1983; per la parte riguardante la critica d’arte sono stati consultati i volumi: A. CHASTEL, Leonardo da Vinci, trad. it., Torino, Einaudi, 1995; C. PEDRETTI, Leonardo, la pittura, Firenze, Giunti, Art Dossier, 2005.
9 - Questo passo di Leonardo è tratto da A. M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, op. cit., p. 633.
10 - Ivi, p. 631
11- Ibid.
12 - Ivi, pag. 632.
13 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, trad. it., Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1982, pp. 65-76.
14 - Ibid.
15 - G. VASARI, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, II, Torino, Einaudi, 1986, p. 546.
16 - M. KEMP, Le mirabili operazioni, cit., pp. 30-32.
17 - C. CENNINI, Il libro dell’Arte, edizione commentata e annotata da Franco Brunello, Vicenza, Neri Pozza, 1982, p. 4.
18 - Uno studio esauriente su Andrea del Verrocchio, si trova in D. A. COVI, Andrea del Verrocchio, life and work, Firenze, Olschki, 2005.
19 - Per un’analisi più approfondita sul mecenatismo mediceo e sulla sua funzione, si rimanda alla lettura del saggio di E. H. GOMBRICH, Il mecenatismo dei primi Medici, in Norma e forma, studi sull’arte del Rinascimento, trad. it., Milano, Electa Leonardo Arte, pp. 46-67.
20 - A Careggi, una località nelle vicinanze di Firenze, aveva sede una delle più antiche ville dei Medici. Fu una delle dimore preferite dal Magnifico. Per un esauriente panorama sulle ville medicee, si veda L. ALIDORI BATTAGLIA, Le dimore dei Medici in Toscana, Firenze, Edizioni Polistampa, 1995.
21 - M. KEMP, La scienza dell’arte, prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat, trad. it., Firenze, Giunti, 1994, pp. 30-33.
22 - A.M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, op. cit., pag. 168.
23 - Autorità.
24 - Quest’ultimo passo è contenuto in un foglio del codice Forster III, che comprende appunti di argomenti diversi, databili tra il 1493 e il 1496. A.M. BRIZIO (a cura di), Scritti scelti di Leonardo da Vinci, op. cit., p. 98.
25 - Tra gli artisti che tra il 1480 e il 1485 lasciarono Firenze ci sono molti nomi eccellenti: l’architetto Giuliano da Sangallo fu raccomandato alla corte di Napoli; Andrea del Verrocchio si trasferì a Venezia. Botticelli e Domenico Ghirlandaio furono chiamati a Roma per la decorazione della cappella Sistina,
seguiti più avanti dai Pollaiolo e da Filippino Lippi.
26 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., pag. 78.
27 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., pag. 42 e seguenti.
28 - G. VASARI, Le Vite, op. cit., vol. II, p. 549.
29 - G. BOLOGNA, Leonardo a Milano, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1982, p. 3.
30 - Bernardino Corio nacque a Milano nel 1459 dove visse per tutta la vita. Nel 1485, rifugiatosi in campagna per sfuggire alla peste, iniziò a scrivere la storia della sua città partendo dalle origini. Ludovico mise a sua disposizione gli archivi dello stato e gli fornì il lasciapassare per la consultazione di documenti conservati in città e monasteri dei suoi territori. Nel 1503 l’opera fu terminata e stampata a spese dello stesso Corio.
31 - B. CORIO, Storia di Milano, A. Morisi Guerra (a cura di), II, Torino, UTET, 1978, pp. 1479-80.
32 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., pp. 85-87.
33 - C. SANTORO, Gli Sforza, Milano, Dall’Oglio, 1968, pp. 289-292.
34 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., p. 51.
35 - C. PEDRETTI, Leonardo architetto, Milano, Electa, 2007, pp. 57-63.
36 - Ibid.
37 - Ivi, p. 58. Secondo Pedretti testimonianze di questi studi si rintraccerebbero in alcuni fogli dei codici Atlantico e Forster III, ma anche in alcuni schizzi contenuti in un foglio del manoscritto A (folio 114v) datato 10 luglio 1492; gli schemi di reticoli stradali in esso rappresentati, sarebbero tipici di certi quartieri milanesi.
38 - Niccolò Perotto (1430-1480), è stato un noto umanista e filologo italiano. Le sue opere letterarie sono
principalmente testi di filologia, grammatica e traduzioni dal greco e dal latino. Per un approfondimento sull’umanesimo rinascimentale, si veda E. GARIN, L’umanesimo italiano, filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari, Laterza, 1994.
39 - Elio Donato è stato un grammatico romano del IV secolo. La sua Ars Grammatica fu un’opera molto nota fra i suoi contemporanei, tanto da essere poi commentata e trascritta da molti autori nei secoli successivi. www.treccani.it
40 - M. KEMP, Leonardo da Vinci – Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., p. 87.
41 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., p. 83.
42 - Bramante aveva raggiunto Roma nel 1499 dopo la caduta di Ludovico il Moro; negli anni precedenti all’incontro con Giulio II, l’architetto non realizzò opere di grandi dimensioni, ma sicuramente tali opere furono importanti per il suo percorso professionale. Si pensi al tempietto di San Pietro in Montorio,
realizzato nel 1502, che unisce in sé i canoni degli edifici a pianta centrale, di cui si era occupato durante il soggiorno milanese, e il culto per l’architettura classica. L’incontro con il papa portò alla realizzazione di opere di grandi dimensioni come il percorso ideato per collegare i palazzi vaticani sulla collina del Belvedere. L’audacia di Giulio II unita all’ardore creativo di Bramante portarono poi alla decisione papale di abbattere la vecchia e pericolante basilica di San Pietro per provvedere poi alla sua ricostruzione seguendo il noto progetto bramantesco. W. LOTZ, Architettura in Italia, 1500-1600, trad. it., Milano Rizzoli, 1995, pp. 11-23.
43 - G. VASARI, Le Vite, op. cit., II, p. 572.
44 - C. PEDRETTI, Leonardo architetto, Milano, Electa, 1981, pagg. 32-33. Secondo Pedretti la prova che Leonardo avesse partecipato al concorso indetto per la costruzione del nuovo tiburio tra il 1487 e il 1490 è rintracciabile nei suoi stessi manoscritti. Un foglio del codice Atlantico (333v), recante alcuni progetti di attacchi sottomarini, è stato messo in relazione ad un altro foglio appartenente allo stesso codice (346r-a, v-a) per via dello stile di scrittura usato e per il tipo particolare di carta; sembrerebbe infatti la stessa carta usata per i registri della Fabbrica del Duomo, che probabilmente Leonardo ebbe modo di usare in quanto materiale di scarto. Il successivo confronto del foglio 333v con un altro ancora, anch’esso appartenente al
Codice Atlantico, (148r-a), recante alcuni riferimenti ai progetti del tiburio, ha permesso di confermare tale teoria.
45 - P.C. MARANI, Bramante e Leonardo architetti militari, in Leonardiana, Milano, Skira, 2010, pp. 303-309.
46 - Vasari ne parla nel capitolo dedicato a Piero della Francesca. G. VASARI, Le Vite, op. cit., II, pp. 337-338.
47 - A. CIOCCI, Luca Pacioli tra Piero della Francesca e Leonardo, Sansepolcro, Aboca Edizioni, 2009.
48 - Appartenente ad una nobile famiglia veneziana, fu per un trentennio una delle personalità più eminenti della Scuola di Rialto, dove impartiva lezioni di filosofia, teologia, logica e matematica. www.treccani.it
49 - S. ALBERTI DE MAZZERI, Leonardo, l’uomo e il suo tempo, op. cit., p. 119.
50 - Fu un tipografo bresciano, attivo a Venezia a partire dal 1483. Stampò soprattutto opere di teologia e giurisprudenza. Per Pacioli stampò anche il De Divina Proportione nel 1509. www.treccani.it
51 - M. KEMP, Leonardo da Vinci - Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, op. cit., pp. 133.
52 - Ivi, p. 131.
53 - A. MARINONI, Gli scritti di Leonardo, in C. ZAMMATTIO, A. MARINONI, A.M. BRIZIO, Leonardo scienziato, op. cit., p. 95.
54 - MARANI P. C., FIORIO M. T. (a cura di), Leonardo. Dagli studi di proporzioni al trattato della pittura, Milano, Electa, 2007, p.70.
55 - Ibid.
56 - M. DE MICHELI, op. cit., p. 50.
57 - P. GALLUZZI, Gli ingegneri del Rinascimento. Da Brunelleschi a Leonardo da Vinci, Firenze, Giunti, 2001, p. 81.
58 - P. C.MARANI, Leonardo e Francesco di Giorgio. Architettura militare e territorio, in Leonardiana, op. cit., pp. 287-301.
59 - Si veda R. PAPINI, Francesco di Giorgio architetto, Firenze, Electa, 1946.
60 - Si veda F. DI GIORGIO MARTINI, Trattati di architettura, ingegneria e arte militare, C.MALTESE (a cura di), Milano, Il Polifilo, 1967.
61 - P. GALLUZZI, op. cit., pp. 25-27.
62 - P. TORRITI, Francesco di Giorgio Martini, in Art Dossier, Firenze, Giunti, 1993, pp. 33-37.
63 - P. C.MARANI, Leonardo e Francesco di Giorgio. Architettura militare e territorio, in Leonardiana, op.cit., p. 288.
64 - Ibid.
65 - E. H. GOMBRICH, La forma del movimento nell’acqua e nell’aria, in L’eredità di Apelle, op. cit., p. 51.
66 - F. CAPRA, La scienza universale. Arte e natura nel genio di Leonardo, trad. it., Milano, Rizzoli, 2007, p. 25-27.
67 - Ivi, p. 29-30.
68 - M. DE MICHELI, op. cit., p. 27.
69 - Il ricorso all’analogia, di concezione aristotelica, fu ampiamente in uso tra gli studiosi medievali e rinascimentali. Lo stesso Leonardo ricorse all’analogia tra macrocosmo (la Natura come essere vivente) e il microcosmo (l’uomo) per quasi tutta la sua carriera di scienziato. Durante gli ultimi anni di vita, si fece critico nei confronti di questo sapere tradizionale; un segno – questo – della sua conversione intellettuale verso una scienza sempre più basata sulla rielaborazione mentale e sulla certezza delle leggi matematiche. Per un approfondimento in merito si rimanda al saggio di M. KEMP, La crisi del sapere tradizionale nell’ultimo Leonardo, in Lezioni dell’occhio. Leonardo da Vinci discepolo dell’esperienza, trad. it., Milano, Vita & Pensiero, 2004, pp. 133-153.
70 - F. CAPRA, L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, trad. it, Milano, Rizzoli, 2012, p.37.
71 - Ibid.
72 - A.M. BRIZIO, op. cit., p. 285.
73 - F. CAPRA, L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, op. cit., p.34-35.
74 - Ibid.
75 - C. PEDRETTI (a cura di), Leonardo da Vinci. Studi di Natura dalla Biblioteca Reale nel Castello di Windsor, Firenze, Giunti Barbera, 1982, p. 50.
76 - P. C. MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, Lecco, Cattaneo, 2005, p.189.
77 - Ibid.
78 - F.MAVERO, Le vie d’acqua, una cultura lombarda, in Storia della Brianza. Il paesaggio e l’uomo, vol. VI, T. Casartelli, F, Mavero, V. A. Sironi (a cura di), Lecco, Cattaneo, 2011.
79 - La lettera, detta patente, con la quale Cesare Borgia nominava Leonardo suo architetto e ingegnere, fu ritrovata a Vaprio d’Adda, presso la dimora dei Melzi d’Eril, nel 1792. Questo documento, insieme ad alcuni studi di fortificazioni in Romagna, contenuti nel manoscritto L, sono le uniche testimonianze del viaggio di Leonardo in queste terre. Per approfondire l’argomento si veda il catalogo della mostra tenutasi a Vaprio d’Adda nel 1993. C. PEDRETTI (presentazione), F. VAGLIENTI (introduzione), Il lasciapassare di Cesare Borgia a Vaprio d’Adda e il viaggio di Leonardo in Romagna, Firenze, Giunti, 1993.
80 - P. GALLUZZI, Gli ingegneri del Rinascimento. Da Brunelleschi a Leonardo da Vinci, op. cit., p. 71.
81 - M. KEMP, Leonardo. Nella mente del genio, trad. it., Torino, Einaudi, 2006, p. 95.
82 - C. ZAMMATTIO, Acque e pietre: loro meccanica, in Leonardo scienziato, op. cit., pp. 11-15.
83 - E. H. GOMBRICH, La forma del movimento nell’acqua e nell’aria, in L’eredità di Apelle, op. cit., p. 55.
84 - A.M. BRIZIO, op. cit., pp. 304-305.
85 - Per un approfondimento sulla figura del filosofo inglese Francesco Bacone, si veda P. ROSSI, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Bologna, Il Mulino, 2004 (prima ed. 1957).
86 - E. H. GOMBRICH, op. cit., p. 53.
87 - F. CAPRA, L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, op. cit., pp. 67-70.
88 - J. ROBERTS (a cura di), Il Codice Hammer di Leonardo da Vinci. Le acque, la terra, l’universo, trad. it., Firenze, Palazzo Vecchio, 1982, p. 18.
89 - P. C. MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p.187.
90 - T. CELONA, G. BELTRAME, I navigli milanesi. Storia e prospettive, Milano, Silvana Editoriale, 1982, p.25.
91 - Ivi, p. 43.
92 - Nella sua monografia dedicata all’artista, Edmondo Solmi riporta alcuni stralci dei carteggi tra i Francesi e la Repubblica. Se ne deduce che la trattativa con Firenze fu lunga e laboriosa, giocata con le carte della diplomazia ma anche a forza di pressioni politiche, alle quali i fiorentini dovettero infine piegarsi. Si veda E. Solmi, Leonardo (1452-1519), Firenze, G. Barbera, 1923, pp. 163-169.
93 - P. C. MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p.198.
94 - C. PEDRETTI (a cura di), Leonardo da Vinci. Studi di Natura dalla Biblioteca Reale nel Castello di Windsor, op. cit., p. 48.
95 - C. ZAMMATTIO, Acque e pietre: loro meccanica, in Leonardo scienziato, op. cit., p. 40.
96 - P. C.MARANI, L’Adda nelle carte e nei disegni di Leonardo, in L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p.191-194.
97 - ZAMMATTIO, Acque e pietre: loro meccanica, in Leonardo scienziato, op. cit., p. 45.
98 - Il rapporto di Carlo Pagnani è stata ripubblicato in anni recenti da vari autori. Qui si segnala l’edizione curata da Gianni Beltrame e Paolo Margaroli nel 2003. C. PAGNANI, Decretum super flumine Abduae reddendo navigabili, G. Beltrame, P. Margaroli (a cura di), Milano, edizione stampata nell’officina d’arte grafica Lucini, 2003.
99 - C. e P. VIOLANI, La tutela dell’ambiente: parchi e zone protette, in Storia della Brianza. Il paesaggio e l’uomo, vol. VI, op. cit., pp. 234-238.
100 - A. BURATTI MAZZOTTA, L. DACCÒ, L’Adda trasparente confine. Storia, architettura e paesaggio tra Lecco e Trezzo, op. cit., p. 5.
101 - L’alzaia che costeggia la sponda destra del fiume inizia Lecco; è possibile raggiungere Milano senza mai abbandonarla, costeggiando il fiume e i Navigli di Paderno e della Martesana.
102 - L’incisione fa parte oggi della collezioni della Biblioteca Ambrosiana.
103 - O. SELVAFOLTA, Paesaggi tecnici, ponti in ferro e architettura elettriche da Lecco a Trezzo, in L’Adda trasparente confine, op. cit., pp. 138-142.
104 - M. Rossetto, Acque che dividono, acque che uniscono: confini, criminalità e sfruttamento delle acque tra Cinque e Settecento, in L’Adda trasparente confine, op. cit., pp. 122-129.
105 - A. MARINONI, Gli scritti di Leonardo, in C. Zammattio, A. Marinoni, A.M. Brizio, Leonardo scienziato, op. cit., pp. 68-123. - C. PEDRETTI, M. CIANCHI, Leonardo. I codici, op. cit.; A. CHASTEL, Leonardo da Vinci, op. cit.
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Victoria and Albert Museum www.vam.ac.uk
Villaggio Crespi d’Adda www.villaggiocrespi.it
Visit Adda www.visitadda.com
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio la mia relatrice, la professoressa Patrizia Castelli, che con rigore e passione mi ha guidata in questi mesi.
Ringrazio le mie compagne e i miei compagni di corso, con i quali ho condiviso gioie e dolori di questa straordinaria avventura. A ognuno di loro va il mio profondo affetto, che rimarrà immutato nel tempo.
Ringrazio tutte le persone che in questi anni mi hanno sostenuto e incoraggiato. Mia mamma, le mie sorelle, amiche e amici, semplici conoscenti.
Ringrazio e abbraccio mio figlio Gianluca e mio marito Gianfranco che con amore e pazienza sono stati sempre al mio fianco durante questi anni di studio. A loro è dedicato questo importante traguardo.
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