domenica 18 novembre 2018

ELENA MUTINELLI, UNA SCULTRICE A VERDERIO di Marco Bartesaghi


Elena Mutinelli è un'artista, dedita soprattutto alla scultura e al disegno, che vive e lavora a Verderio.
Questa intervista è il risultato di due lunghi incontri avuti con lei nel suo laboratorio. Era presente anche un amico, Gianmaria, al quale si deve una  parte delle domande a cui Elena ha generosamente risposto. Nel testo che proponiamo si è cercato di mantenere il linguaggio parlato della conversazione, per salvaguardarne la spontaneità.
M.B.



P.S. Questa intervista ha avuto una lunga gestazione. La chiacchierata con Elena è avvenuta nel luglio scorso. Nel frattempo nella sua vita sono avvenuti almeno due fatti importanti,uno felice,l'altro molto triste.
Elena è stata fra i primi quaranta artisti selezionati per il concorso Cairo Arte e una sua opera è stata esposta nella mostra allestita a Palazzo Reale a Milano.
Recentemente è morta Amalia Monfrini, sua mamma, una persona che, scoprirete leggendo,ha avuto anche un ruolo importante nella sua scelta di dedicarsi all'arte.

 
Elena Mutinelli

ELENA MUTINELLI, UNA SCULTRICE A VERDERIO 

Elena Mutinelli è nata a Milano nel luglio del 1967. Il padre Giovanni era stato per molti anni Ufficiale di Marina e, dopo il matrimonio, si era dedicato alla ricerca chimica. La madre, Amalia, era figlia dello scultore Silvio Monfrini, artista di rilievo del  novecento lombardo.

Elena è l'ultima di cinque figli, due fratelli e tre sorelle 


Disegno e scultura: perché hai scelto queste due forme per esprimerti artisticamente?
Il disegno è come la scrittura, è immediatezza di pensiero.
È la forma che più si avvicina alla mia personalità, al mio bisogno quasi frenetico di esprimere velocemente quello che voglio comunicare.
 


"Deposizione", Elena Mutinelli, 2005



Ogni mio disegno è un'opera a sé stante, non un “bozzettino”, un preludio alla scultura. Tant'è che, finché non sono del tutto svuotata, non lo abbandono, anche se sembra improvvisato e non è né rifinito, né iperrealista o fotografico. È più di profondità psicologica e gestuale.
 

Quindi, quando pensi a un disegno e poi lo realizzi, quello è ...
Sì, quello è. Poi, da quel disegno, ne può scaturire tutta una serie, che è lo sviluppo del mio sentire in quel dato momento.
Oltre ai “disegni” veri e propri, faccio gli “schizzettini”, che mi possono servire per il mio lavoro. Li faccio su fogli A4, su cui scrivo note o inserisco il nome di qualche grande autore che mi ricorda quello che voglio esprimere.


Un bozzetto di Elena Mutinelli


E la scultura?
Nella scultura l’ispirazione si rinnova man mano che prosegui nel lavoro. Dopo la sgrossatura ti fermi e, se nel frattempo non hai deciso di rifarla, riprendi dopo un po'. Poi la rifinisci. Il processo è molto lungo.
Alla “visceralità” del disegno si sostituisce la “contemplazione”.
 


Scultura in marmo di Elena Mutinelli


In comune, disegno e scultura, hanno una  forte caratterialità  di chiaro e scuro, che fa parte della forza che io voglio mettere nella mia opera.

La pittura?
La pittura mi interessa meno, perché  vedo le cose in “bianco e nero”. Anche quando penso al rapporto fra colori, non penso al rapporto, che ne so, fra vermiglione e giallo, verde e rosso. Penso al valore cromatico… fra luce e ombra, fra chiari e scuri.
Anche Caravaggio, per quanto fosse un grande del colore, badava soprattutto alle luci e alle ombre e usava pochissimi pigmenti: un terra di Siena bruciata, un nero, un bianco di zinco, un piccolo giallo cromo, un vermiglione, tutti insieme quattro o cinque colori. Un po’ di rosso sulle punte delle dita, quando non erano troppo in ombra. Il risultato, secondo me, è una profondità plastica, non solo cromatica.
La pittura, in cui io comunque non sono capace come nel disegno e nella scultura, ha a disposizione il grandissimo artificio del colore. Un’illusione forte e così persuasiva che a volte abbaglia più di quanto tu voglia mettere nella tua opera.
Il disegno è spoglio, non ha bisogno di artificio.


Restiamo allora su disegno e scultura: quando ti avvicini all’una e quando all’altra di queste due forme di espressione?
A volte faccio tutte e due insiemi, così come a volte faccio più sculture insieme.  Adesso, ad esempio, ne sto facendo due: una è una commissione, ma la sento; l’altra non mi convince, ma la continuo.
Questa mattina mi sono messa a studiare e vorrei già farne un’altra, però cerco di non disperdermi. 


Modellare la creta, scolpire il marmo: anche a questi due tipi di espressione ci si accosta in modo diverso?
Il rapporto che ho con il marmo è così… come dire… lo conosco così bene che è una pratica quasi confidenziale. Fin dall’inizio capisco qual è il blocco che posso utilizzare e so che non mi crollerà mai.
Spesso e volentieri, sul marmo ho lavorato direttamente, senza modelli, solo sulla base di quello che avevo in mente o di  disegni e bozzetti molto piccoli. Non è un vanto, è la verità.
Con il marmo ho la tranquillità di sapere che, anche se si dovesse rompere, sarei in grado di intervenire totalmente.

Sulla creta faccio un buon lavoro a livello espressivo e so di poter intervenire in poco tempo, ma a volte, purtroppo, la scultura mi cade, o perché troppo pesante, o perché  il peso è fuori baricentro e non calcolo la portata del peso della creta durante l’esecuzione dell’armatura.
Per esempio il “Pirata contemporaneo” , che vedi lì, ispirato a  un testo di Jung … una notte, mentre dormivo, ho sentito un suono... wumm... caduto!
 

In primo piano "Pirata contemporaneo"
Una faccia di  80 cm  caduta, dopo due giorni di lavoro in cui sembravo quasi  posseduta.  Un miracolo, mi ero detta, non mi succederà mai più,  in così poco tempo, di fare una cosa così, che proprio è come se mi guardasse...  Caduta!

Perché è caduta?
Prima è caduta la parte del volto, che era troppo morbida, molto molto pesante, essendo grande quasi metà del mio corpo, e aveva una linea di torsione sulla sinistra. Pom! Caduta quella, l’altra parte non ha retto e la scultura è caduta dall’armatura, che era troppo liscia e non perfettamente a piombo.
Preferisco il marmo, dal punto di vista della serenità, anche se  è più faticoso, più lungo, sembra che  non si finisca mai.


Ti capita di avere ripensamenti sulle tue sculture?
Caspita, altroché. A volte le lascio a metà. A volte le sgrosso, poi le riguardo, le distruggo e le rifaccio da capo.
Ho ripensamenti  anche su quelle finite: le osservo, magari un paio di anni dopo averle fatte,  e vedo che sono parte di tutto un discorso.
A volte mi accorgo che alcune opere che avevo trascurato  sono più pregnanti di altre che a suo tempo pensavo essere definitive.
Sì, ho tanti ripensamenti…


Quando dici “sgrosso”, ti riferisci solo al marmo o anche alla creta? Con la creta si aggiunge o si toglie?
Aggiungo e tolgo.
Uso il verbo sgrossare, ma potrei dire anche “smodellare”: spoglio la forma da quello che vedo fuori, lavoro sui vuoti per trovare il pieno, lavoro sui profili del volume togliendo la massa in eccesso e trovando la forma finale che è dentro, osservo il vuoto esterno per intuire cosa contiene al suo interno.

Spesso e volentieri faccio grandi blocchi informi di creta. In quei blocchi vedo le forme che mi interessano, le imposto come le ho in testa e man mano tolgo la materia con  grandi occhielli (o mirette), che mi sono costruita.

 

Opera in creta in lavorazione, Elena Mutinelli


Parto sempre da qualche cosa da cui togliere.  Ad esempio quando devo dare la profondità dello sguardo entro  con dei legni tagliati di profilo.  Vedi, per fare questi volti entro dentro così e poi, piano  piano, pigio la creta e do la forma. Per lavorare sul grande costruisco stecche con  le doghe dei materassi.
Sgrossando non vedo il particolare, vedo solo le luci e le ombre, la tensione di quello che voglio fare.
Quando poi entro nei particolari devo stare molto  attenta che questi non rendano debole la scultura, perché a volte parlare troppo è come dire niente. Per questo devo avere molto presente l'intenzione che mi ha spinto a fare quella scultura  e  non perderla, per non indebolire il risultato.
Ultimamente ho fatto due centauri, uno stretto all’altro, con una forza emotiva fortissima. Li ho chiamati “I centauri innamorati”. Penso, in quest’opera,  di essere riuscita ad esprimere la  forza vitale  che voglio descrivere nel mio lavoro, e che, a mio avviso, è propria della scultura.



"Centauri innamorati", Elena Mutinelli
Ho “cercato” un cavallo in movimento che fosse una sorta di... due uomini che si prendono con  grande tenacia, con  grande forza si tirano e diventano materia. Non sono per niente descritti, ma se ti allontani li vedi benissimo. Credo di aver raggiunto una certa magia perché sono riuscita a fare qualcosa di nuovo attraverso il già detto.


Alcune tue opere, soprattutto quelle in marmo e quelle in resina, sono perfettamente levigate, in altre si vedono dentro le tue mani…
Sì, la pastosità. Quelle perfettamente levigate sono rare e, secondo me, meno espressive. Anche in quelle però faccio sempre mancare qualcosa, perché la figura non sia descritta nella sua totalità
Trovo  sia più difficile fare una scultura meno finita, che farne una perfetta. Oggigiorno c'è il desiderio di cercare una verosimiglianza quasi ostentata. Poi, per depistare lo sguardo e mimetizzare l'oggettività iperrealista, si inseriscono cose, oggetti di tendenza per contestualizzare l’opera alla contemporaneità.


Quindi ti ritrovi di più nelle opere meno levigate ...
Certamente, il problema è che i galleristi le amano di meno… anche perché molti sono degli incompetenti, a cui non piace vedere i segni del lavoro…


 

Opera in cotto di Elena Mutinelli

Devo dire che l’ultima mia gallerista  ha una sensibilità diversa; forse perché proviene da una famiglia di artisti, percepisce esattamente il valore dell’arte.

Come si guarda una scultura?  
Io la guardo sempre con gli occhi socchiusi, anche se adesso ho paura che mi si vedano le rughe. 

E non guardo così solo le sculture. L'altro giorno in metropolitana mi sono sorpresa da sola. Ho socchiuso gli occhi perché ho visto un volto che mi piaceva tantissimo: una ragazzina che aveva delle labbra da” quattrocento”. Mi sono detta “ma dove le trovo delle labbra così?”, con tutte le labbra gonfiate che ci sono in giro. A un certo punto ho fatto così  [Elena socchiude gli occhi] - lei mi ha guardato con una faccia! -  perché dovevo capire, nonostante i neon, i chiari e gli scuri; capire la profondità espressiva dei segni più profondi marcati dalla luce radente.

E gli occhi socchiusi?
Gli occhi socchiusi aiutano tantissimo – provaci -  perché ti aiutano a non puntare sul particolare. 




 



È un trucco tuo o una cosa che si fa abitualmente?
Avevo un professore di anatomia molto bravo, Salvatore Esposito - un grandissimo artista,  è lui che mi ha insegnato a disegnare veramente bene – che mi diceva  “socchiudi gli occhi e riuscirai a penetrare nella forma”.
Quando socchiudo gli occhi, riesco a capire  il valore di tutti i chiaroscuri: quello più scuro, quello meno scuro, il mezzo tono e  non mi sbaglio.
Volendo potrei fare un disegno solo guardando il profilo dell'oggetto da disegnare;  ma solo quando  entro a fare tutti i valori chiaroscurali riesco  a far venir fuori la forma, a farla venir fuori dal foglio, e questa è la cosa importante.
Guardare a occhi socchiusi è una regola valida anche  per chi dipinge. Quando d'estate scendo al mare dalla casa di mia mamma, in Liguria, alle tre e mezza del pomeriggio  (scendo sempre a quell’ora) c’è un’ombra. Mi capita spesso di pensare al colore che dovrei usare per dipingerla. A memoria  la farei in un certo modo, ma per capire il giusto colore devo togliere l'ombra dal contesto del paesaggio. Socchiudendo gli occhi riesco a vedere di che natura è quel colore, senza pensare alle cose che ha intorno.



La prima volta che sono venuto qui, nel tuo laboratorio, sono stato colpito nel vedere le statue negli scaffali. Molte di loro le avevo già viste in due mostre, a Muggiò e a Monza, disposte con un certo ordine, in un percorso predisposto. Qui sembra invece un dietro le quinte, hanno un aspetto più confidenziale...
Qui può essere anche più intimo, ma sono tutte così ammassate che non riesci neanche a renderti conto…



Nel laboratorio di Elena Mutinelli

Non dico che sia più bello qui che là, ma sono due modi diversi di vederle. Ho pensato che mentre puoi guardare un quadro astraendoti da quello che gli sta intorno, limitando lo sguardo a ciò che è compreso nel perimetro, nella cornice,  la percezione di una scultura risente  molto di più dell'ambiente in cui è collocata…
Certo, la  scultura cambia a seconda di dove è inserita, per il contesto di luce o di spazio.  Oppure tematico: mettendo vicine due sculture di diverso periodo o di diverso stato d'animo, una lieta e l'altra no, si può creare un contrasto che attira l’attenzione, o una dissonanza che la allontana.
 

 
Estate 2016. Opere di Elena Mutinelli in mostra ai Musei Civici di Monza


Qui in laboratorio non si  riesce  a comprendere  come ho  pensato l'opera  in base allo spazio: alcune di quelle che vedi sono state pensate per essere da sole, e qui non lo puoi capire. Quante volte cambio, anche qui, la loro posizione.

L'ho notato. Anche dall’ultima volta che sono venuto la disposizione è cambiata. Per chi lo fai?
Per me stessa. A volte non mi piace in quel posto lì, oppure penso che si veda male.  Qualche scultura non la voglio proprio vedere e la caccio dietro alle altre. C’è stato un periodo che le avevo in casa, a Osnago; volevo coprirle tutte, con loro intorno non riuscivo più a lavorare. Pazzesco.
 

 
Uno sguardo al laboratorio di Elena Mutinelli


Quelle che adesso ho esposto a Firenze alla galleria ETRA Studio, una galleria storica, situata nello studio di Benvenuto Cellini. hanno assunto tutto un altro valore. Lo si deve alla gallerista, che ha un’idea romantica dell’approccio alla scultura,  più vera, meno tecnologica.

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Soggetto della tua ricerca è il corpo umano, che quasi mai, però, nelle tue opere , appare completo. Perché?
Eh sì. Sarebbe come dire troppo, non so come spiegare. Come dire? Potrei mettere  anche un volto insieme a tutto il resto… potrei farlo benissimo e sarebbe magari una bella opera... Però più importante è la forma del corpo, la contrazione del suo addome o la mano che scrive su una carta.
 

Due opere di Elena Mutinelli

Ad esempio, del San Gerolamo, nella sua iconografia classica, che è bellissima, non guardo mai la totalità. Guardo  la sua mano vicino al “vanitas”.
Anche i volti in Rembrandt, sono sì dei volti, e quindi sembrano un opera finita, ma in realtà sono nell’ombra, sono  quasi solo una notazione della sua profondità psicologica.
Ho l’impressione che dire tutto sia come togliere la possibilità di entrare nel racconto da parte dello spettatore. Per me è già finito lì, non ho bisogno di fare il resto, perché è come se ci fosse.
Se vediamo un cerchio non finito, a cui manca un pezzetto, per noi è comunque un cerchio.

Poi magari un giorno cambierò idea, no?

I tuoi ritratti non sono mai di rappresentanza, “foto ricordo”:  hanno sguardi intensi, aggressivi o malinconici…
È  vero. La fisiognomica mi piace molto. Ottengo la loro espressività lavorando con la stecca: li vedi così forti, con questo sguardo truce, perché con la stecca posso entrare in loro, penetrare nelle loro membra. Entrando è come se riuscissi a immedesimarmi.

 
Volti realizzati da Elena Mutinelli


Le mie opere  sono molto drammatiche, anche se nella vita sono una che sdrammatizza sempre e penso di essere abbastanza ironica. Poi magari ho fasi di depressione totale o di ansia, quando ad esempio devo fare delle cose e mi sembra di non avere il tempo.
Mi piace tantissimo  anche la caricatura e ora voglio provare a entrare in un linguaggio leonardesco. Leonardo era molto forte nelle caricature. Anche nel grottesco riusciva a trovare la signorilità dell'opera d'arte. Voglio sviluppare questo aspetto caricaturale e proporlo  alla galleria, che magari mi dirà “sei pazza, non ti tengo più”.




Un lavoro a metà fra il drammatico e il caricaturale, tutte e due le cose.


Da alcuni dei tuoi ritratti ci si sente scrutati, indagati, non solo guardati come è normale. Penso, ad esempio, a due sculture: “Sola” e “Persus, guerriero metropolitano”; a un autoritratto a matita, “Penia, autoritratto,2004”, dove sei così truce…
Sì, ero troppo intenta, me lo stavo facendo allo specchio. Vedersi  e riconoscersi non è facile: bisogna nello stesso tempo vedersi ad occhi socchiusi, per astrarsi, e  vedersi ad occhi aperti…




"Sola", Elena Mutinelli, 2002





























"Persus, guerriero metropolitano", Elena Mutinelli, 2008

"Penia, autoritratto", Elena Mutinelli, 2004



























… e a un altro disegno, “Matrona, 2005”...
… Ah, la matrona sì. Queste donne sono cannibali,  sembra  ti divorino. Un' umanità che è ancora presente, con  sguardo truce, ma che non ha più dignità di sé stessa. In questi disegni è molto presente la vecchiaia -  perché è materia, è possente - e  il rapporto con il cibo che ci nutre, ma che noi divoriamo come se non fossimo mai sazi di quel che desideriamo nella vita: non ti basta mai niente, non sei mai contento, hai sempre paura di perdere qualcosa.





 
"Matrona", Elena Mutinelli, 2005

A me  succede tantissimo. Non sono attaccata a niente ma, paradossalmente, ho sempre paura di perdere qualcosa. Non riesco  a capire perché sono così: forse il non essere stata sempre nello stesso posto, l’aver cambiato troppe case, troppi studi, troppe gallerie. Tutto questo, forse, mi fa mancare il senso di stabilità.
Faccio fatica a liberarmi delle mie sculture, quando le vendo sto male, anche perché non so chi le abbia. È come se una parte di me andasse via.
Da una parte, regalo cose, mi disfo dei mobili, ricomincio da capo, ma, da un’altra parte, sto malissimo perché ho tutto in giro... non so come dirti…
Quello che ho cercato di esprimere in queste donne è  il lato oscuro, quasi bulimico: non ti mancano le cose, però ti abbruttisci a rivolerle e continui a mangiare. C’è senz'altro un po’ di autobiografia.


Questo  aspetto è quasi esasperato nel disegno intitolato “È tardi, ora sei preda del bulimico cannibale”, ritratto di una donna che mangia, o meglio, “sbrana” un animale, forse un agnello…
Un coniglio. Mi ricordo ancora che ero andata a prenderlo da un ligure, vicino a Zoagli, gli ho detto “mi dia quel coniglio lì”  - “glielo devo pulire?” -  “no lo lasci così e lo tenga lì perché deve essere ancora rosso” : dovevo andare in spiaggia  e non potevo farlo  arrivare a casa cotto.
Alla sera, quando sono arrivata a casa, ho detto a mia  mamma: “mamma, ti prego, posa perché abbiamo pochissimo tempo”.
 

 
"È tardi ,ora sei preda del bulimico cannibale", Elena Mutinelli, 2012

E lei ha posato nuda, a ottanta e passa anni. Per fare quello sguardo ho pochissimi minuti a disposizione, non posso farlo dalla foto perché non sarebbe la stessa cosa. Anche  le mani quando posa, oppure la bocca, quando mangia così o mi guarda stravolta.
Quella donna è proprio mia mamma. Poi per non farla identificare, se no mi ammazza, le ho cambiato la fisiognomica.


In questo disegno, al corpo di una donna hai messo il volto di una tigre…
È  una mia amica di Milano. A quel tempo aveva 45 anni, era anoressica. Una nota professionista, sempre sul pezzo… poi è guarita - guarita insomma, va su e giù, non se ne esce mai. 
 

"Affamata", Elena Mutinelli, 2005

Con la figlia di Milva, Martina Corniati, una grande critica, molto sensibile, dovevo fare, per la città di Trento, un lavoro sull’anoressia  e la bulimia, che poi non è andato in porto. Allora ho chiesto a questa mia  amica di posare per me, pensando anche che potesse essere un modo per tirarla fuori.
Ma era talmente magra che mi faceva male vederla e non ho avuto il coraggio di ritrarla dal vero. Le ho fatto le foto dall’alto della scala e poi ho messo insieme lei e il volto di una tigre che si voltava. Penso che l’anoressia sia un atto predatorio, dove tu sei preda di te stesso.





Mani. Ora tese, che si aggrappano a funi o a corpi, quasi penetrandoli; ora distese, intrecciate, appoggiate alla pelle. Perché le mani sono così presenti nella tua opera?


"Nodi nelle pieghe dell'anima", Elena Mutinelli, 2007




"Eros nello stomaco", Elena Mutinelli, 2009


















Quello che abbiamo avuto a disposizione all’inizio della nostra vita per imparare sono le mani. Loro sono le prime che prospettano un dialogo, pur non avendo una verbalizzazione; la loro gestualità è fortissima; sono le nostre intenzioni quotidiane.
 

Elena Mutinelli durante la finitura di un'opera in marmo

Con le mani fai tutto: ti prendi cura, puoi avere un gesto violento, hai capacità di operare e quindi di esistere. Sono espressive.
Non farei mai un corpo senza mani, tanto è vero che “A volto coperto” almeno ce le ha qua.


"A volto coperto", Elena Mutinelli


Alcune le fai immense…
Sì, come fossero altro dallo stesso corpo, come se qualcosa ti venisse a prendere o come se tu con le tue uniche mani potessi reinventarti. Sì, si, sono volutamente immense,

 

Opera in creta di Elena Mutinelli
Conta di più la loro forma o la  loro gestualità?
La gestualità. Ci sono mani bellissime di donne, che adesso apprezzo anche di più, però mi affascinano meno. Sono belle, aggraziate, ma non hanno quell’espressione in cui io mi identifico.


Di uomini o di donne, di vecchi o di giovani, che siano “belli” o no, i tuoi corpi sono nudi: cosa è “il bello” ai tuoi occhi di artista?
Il corpo bello, il volto bello è quello espressivo, che racconta. Di sicuro non è quello perfetto.
 

 
"Ritratto di donna inesistente", Elena Mutinelli, 1993


Forse non è carino da parte mia dirlo, ma l’ esempio rende: ci sono artisti contemporanei, che lavorano molto in Trentino, che fanno dei legni così ieratici che le loro opere mi sembrano vuote, fredde. Non puoi fare neanche la caricatura di qualcosa che non ha espressione.
Il muscolo racconta, parla, perché è una vibrazione.
 

"Acrobati", Elena Mutinelli, 2004

Preferisco un fisico atletico, un fisico che abbia una certa virilità nella postura. Può essere anche di un vecchio: San Gerolamo era vecchio, non era atletico, però nelle sue rappresentazioni si vede anatomia ed è una cosa molto bella, anche nella magrezza.
 

 
"San Gerolamo", Caravaggio


Il corpo bello è quello che non ti tradisce, che non usa troppi giochi d’artificio. Un conto è il costume o il trucco, che è una tradizione, altro conto è il travisamento della fisiognomica, attraverso la chirurgia.


Quanto mi hai detto vale anche per il corpo femminile?
Si, sì, vale anche per la donna.


I tuoi personaggi non hanno mai pose distaccate: si abbracciano si toccano. Quanto sei consapevole dell’erotismo presente nella tua arte?
 

"Temistocle", Elena Mutinelli, 2004




Ne sono consapevole perché l’erotismo è vita, nel senso di desiderio, e l’atto creativo è desiderio. Come artista potrei mettermi a fare  un'opera qualsiasi, ma sarebbe solo un atteggiamento edonistico. Devi desiderare di fare qualcosa che senti. Ti deve partire da dentro.
 

Sì. Sono consapevole che ci sia una grande componente erotica, però dal punto di vista bello, mitologico, di racconto dell’eros in quanto spinta vitale, di soffio di vita.
Per esternarlo la cosa più bella è essere come siamo: nudi, in un momento di congiunzione che sia quasi un riconoscersi l’uno nell’altro.
 





Il fisico che compenetra nel fisico dell’altro e magari diventa anche l’altro, in una sorta  di metamorfosi, è bello dal punto di vista di racconto, perché la forma cambia e non è più il corpo, ma già una sua trasformazione. È  bello anche dal punto di vista del contenuto: essere l’altro, identificarsi nell’altro.Tanto è vero che quando l’amato o l’amata ci sfugge ci diciamo, o ci dicono: “ma riprenditi”, cioè riprendi una parte di te, perché tutto quello che tu hai già raccontato a lui, o a lei, se n’ è già andato con lui, o con lei.
 

Lo stesso succede nell’atto creativo. Quando finisci una scultura dici, molto poeticamente, che non ti appartiene più. Ma è proprio così: non ti appartiene più... Tu non vorresti distaccarti perché ti dispiace, perché poi magari non la vedi più, però è già altro.
Invece  l’unione forte, in cui non sai esattamente cosa stai facendo, è il momento in cui tu la stai creando.


Probabilmente, anzi certamente, se tu fossi vissuta poco più di un secolo fa, nell’ottocento, in quanto donna non avresti potuto fare queste opere…
No di certo, i nudi no.
E a parte i soggetti, anche fare l’artista per una donna non era facile. Una mia prozia, Anna Mutinelli, nata nel 1851, pittrice, era molto brava nei fiori, nei ritratti e nelle nature morte; era stata  allieva del Fattori e del Barabino. Lei ottenne dalla famiglia di poter vivere per conto 


 
Un quadro di Anna Mutinelli (da internet)

suo solo perché insegnava all’Accademia di Firenze. Come “artista” tanta indipendenza non le sarebbe mai stata concessa. Alla famiglia andava perfino  bene  che non fosse sposata e avesse un amante, ma solo perché si trattava di un grande letterato, Diego Garoglio, e a condizione che nessuno lo sapesse.
Per quanto mi riguarda, se fosse stato per mio padre non avrei fatto questo lavoro. Per lui, classe 1923, era impensabile che, dopo gli studi, non mi sposassi e non facessi la casalinga o qualcosa di simile. Mi lasciava fare di tutto,  “tanto - diceva - voi donne poi prendete un’altra strada”, quella del matrimonio...


La corda, vera o scolpita o disegnata, è una presenza ricorrente: perché?
Perché rappresenta la tensione e la tensione è come la spina dorsale delle cose, è quella che le regge, è il filo conduttore. È anche il filo d’Arianna, che sa tirare, ma anche attendere.
 

 
"Lui ama lui", Elena Mutinelli, 2004

La corda, per me, non è un elemento decorativo, ma pregnante, perché  unisce le nostre  storie, i nostri racconti.
Quando metto insieme corde e frammenti umani, cerco di appuntare i profili di ognuno di noi aldilà delle convenzioni sociali, del ruolo  che ricopriamo come professione, come individuo, come riconoscimento - insegnante, professore, ecc... Siamo noi spogli, siamo noi con le nostre imprese quotidiane.


Una volta mi hai detto che avevi scolpito una corda anche come sfida manuale, tecnica.  Quando ho visto una corda scolpita da Michelangelo, mi è venuto in mente quello che mi avevi detto...
Sì, anche Bernini ne ha scolpite, anche Sammartino.
Avrei potuto prendere una corda vera, portarla dal fonditore, metterla nella cera, bruciarla e fare il suo calco, fare la fusione. Così fanno in tanti: delegano.
Io penso  che ogni elemento che diventa parte di una mia  scultura debba essere scolpito da me.




"Zeus e Pandora", Elena Mutinelli, 2010


Però mi piace inserire anche materiali poveri, per questo uso anche corde vere.

Alcune tue opere più esplicitamente di altre sembrano contenere un messaggio. Ne cito qualcuna:  “Nel segno di eros”, “Proteggi Davide”, “Nessun manifesto principio”, “Ingorda”, “Folle matrona ingorda”, “È tardi ora sei preda del bulimico cannibale”. C’è un messaggio di fondo che vuoi trasmettere con la tua arte?


"Non mollare la presa", part., Elena Mutinelli,2006

"Nessun manifesto principio", Elena Mutinelli, 2003

























Sì, che  siamo parte di un processo, che questo processo va continuamente raccontato e io desidero raccontarlo.
Voglio trasmettere che attraverso l’arte possiamo avere idea della vita eterna, anche se non crediamo. Ognuno di noi, anche nel dramma, ha una forma di eternità, ecco perché non deve mollare la presa.
 

Con  il “noi” non intendo noi artisti, intendo ognuno di noi. Anche chi non ha un nome, un titolo su un biglietto da visita, c’è, ed è lui, solo per il fatto che esiste, che è consapevole di quello che può fare e che desidera fare e che fa.
E voglio dire anche che c’è un atto evolutivo dalla vita alla morte.
La cosa che mi preoccupa di più è che  non abbiamo più voglia di parlare di vita e di morte, perché pensiamo sia un discorso che appartenga al passato. Così non viviamo niente, non viviamo neanche questo tempo così veloce.
Le mie sculture quando dicono “È tardi ora sei preda del bulimico cannibale”, vogliono dire che ti sei fatto divorare da un tempo che non hai vissuto, che non sei stato capace di praticare, di avere la virtù di sondare.
Ognuno di noi ha un’opportunità, che è anche un’opportunità di pensiero: l’arte è, per me, questa opportunità. Non vorrei essere retorica, ma penso che questa per me sia una forma di preghiera. 

“Proteggi Davide” è una scultura che ho fatto per caso. È un abbraccio tratto da un’altra scultura “Lui ama lui”: ho cercato di analizzare nel marmo come fosse possibile creare un panneggio bagnato e ho pensato a queste mani che tenevano insieme una placenta attraverso un manto, fino ad arrivare al nocciolo, al feto.
 

"Proteggi Davide", Elena Mutinelli, 2010

Ne è uscita un'opera, secondo me,  molto concettuale: “Proteggi Davide” significa  proteggiamo la genealogia di Davide, ossia proteggiamo la vita, quello che nasce in noi, anche nell’atto creativo. Cerchiamo  di non  castrarci ogni volta. Nel mio caso, ad esempio, pensando “devo fare questa cosa perché è ciò che il mondo dell’arte contemporanea vuole”.  Perché c’è la censura sull’arte figurativa, che è  denigrata perché sarebbe banale.

 
"Proteggi Davide", Elena Mutinelli, 2010

“Proteggi Davide” è anche una storia della mia famiglia. Mio nonno, il padre di mio padre, insegnava all’università di Bologna  e aveva protetto degli ebrei in casa sua.  Poi questi ebrei sono diventati suoi parenti, ossia  le mogli dei fratelli di mio padre. Il nonno mi ha raccontato un sacco di cose. Aveva una cultura umanistica fortissima e quando mi raccontava della genealogia di Davide, anche se non era  credente, mi parlava della gestazione di culture. In questo senso ho scelto di chiamare la mia scultura “Proteggi Davide”. È una cosa molto intima.

Tu sei credente?
Credo, ma non sono religiosa, per quanto a volte mi venga voglia di pregare, e a mio modo prego.
Ho studiato tanto i testi di monsignor Ravasi, ne sto leggendo uno anche adesso, e alcuni testi su Dio di Testori. Ho letto un bellissimo libro di una suora teologa sulla storia delle religioni monoteiste.
Ho avuto una certa formazione religiosa ma non troppa, forse più culturale… a volte troppa cultura non va bene. Comunque la religione a cui faccio riferimento è quella cristiana: se mi rivedo, mi rivedo in Cristo, se devo avere un dubbio, ce l’ho in Cristo.

Hai fatto opere di carattere religioso?
Sì, una Pietà e adesso vorrei farne un' altra.


Come scegli i tuoi soggetti?
Di pancia o attraverso un grandissimo studio:  sono come  figure che si presentano.
A volte mi vengono in mente delle immagini, o perché una lettura mi ha illuminato  o ascoltando storie di altri.


Capita che sia un committente a chiederti un soggetto particolare?
Adesso succede sempre.
Il tipo di committenza che conosco  è particolare: sono come  pionieri che amano collezionare arte e non sempre si fanno guidare dai consulenti artistici. Hanno lo spirito di persone che  vogliono conoscere e non  solo quello di accumulare soldi. Chi vuole speculare economicamente sull'arte, non viene certo da me.
Con questo tipo di committenti lo scambio di opinioni è fortissimo. L’imposizione da parte loro senza dubbio c'è. A volte, tendono a voler essere loro stessi gli artisti. Vengono e mi dicono: “ vorrei un pezzo così, vorrei vederci dentro questa cosa…” . Cerco di capire quello che vogliono, se hanno le idee precise, e cerco di capire cosa possono evocare in me. A volte preparo dei bozzetti che poi rimangono lì, perché per  loro sono troppo aggressivi. Allora faccio qualcosa d’altro.
Resta il fatto che comunque, anche se si parte da un'idea che hanno avuto loro, alla fine vogliono un pezzo che sia mio, se no non  sarebbero venuti da me.
 

Quel teschio là  non lo volevo fare, poi alla fine mi è piaciuto tantissimo farlo in marmo,  tutto a mano, a punti. Ci ho messo due anni.


 





Una cosa che bisognerebbe riuscire a far capire al pubblico è che non c’è solo l’idea di consumo dell’arte e  quindi di produzione continua. Ogni artista  ha dietro una storia: Käthe Kollwitz per farsi un autoritratto ci ha messo due anni; Adolfo Wildt è rimasto dieci anni senza lavorare perché era in piena depressione e gli pareva di fare  cazzate; lo stesso Rodin non so per quanti anni non ha fatto niente...
Invece siamo in balia di mecenati e galleristi  che  continuano  a spingere perché tu produca… mamma mia, è una cosa pazzesca!  E poi non c’è chi compra. Devi produrre per  grandi mercati in India, in Cina,  dove poi rifanno i pezzi uguali…


Quali sono gli artisti che più ti hanno influenzato?
Ci sono artisti che mi piacciono molto come Ducrot, che è stato un grandissimo, Bourdelle, che è stato l’artigiano di Rodin, Velasquez, Rembrandt, Géricault, Daumier, poco conosciuto per la scultura.
Di  Dalí alcune opere mi piacciono tantissimo; mi piace Giacometti. .
Mio nonno era bravo sicuramente, pur non essendo così conosciuto.
Mi piacciono anche scultori completamente diversi, anche i concettuali: Brâncu?i, Käthe Kollwitz. Ma dire che mi piacciono è dire poco. Tutti questi artisti sono come dei padri spirituali, mi hanno ispirato profondamente.
Per quanto io faccia le mani, Rodin mi ha ispirato molto meno di quanto gli altri pensino. 
Per me è stato molto più importante Käthe Kollwitz, che tra l’altro ho conosciuto perché una persona  mi ha detto “guarda, quella è un  Käthe Kollwitz” e allora me la sono studiata tantissimo.
Mi sono scordata di citare  Medardo Rosso, molto bello, e la scapigliatura, che è la nostra cultura milanese: Grandi, Graziosi, Pelizza da Volpedo, grandissimo secondo me…


C’è un suo ritratto in questi giorni sul manifesto che pubblicizza una mostra a Ferrara, lho visto sul Corriere della Sera…
“Il dolore”, ma che bello che è! Dovresti vederlo dal vero! Lì c’è di tutto, il dolore, il mistero della vita, l’abbandono  di ogni cosa. 

Pelizza da Volpedo. Foto da "Corriere della Sera"
Sei influenzata da altre forme di arte?
Sì, soprattutto dal teatro e dalla danza.

Ci sono poesie o poeti che ti hanno ispirato? Una volta mi hai parlato di una tua opera legata a una poesia di Rilke…
Della poesia non sono una conoscitrice, solo alcune mi ispirano.
Rilke, si era innamorato di un’allieva di Rodin ed era diventato suo segretario, avendo così modo di ammirare da vicino la sua scultura. Ho conosciuto Rodin attraverso Rilke. 
In Rilke  vedo le luci e le ombre che interessano alla mia arte; sento la voce che ci collega all’eterno, che non è religiosità, ma  senso di appartenenza a una totalità.
Nella  poesia di Rilke, come nella letteratura greca, ritrovo la parte trascendente, non mistica, del mio lavoro. Con il canto, e più in generale con l’arte puoi raggiungere quel senso di eterno che ti permette di congiungerti con la morte.




A tuo nonno, lo scultore Silvio Monfrini, abbiamo solo accennato. È ora di parlarne più a lungo. L'hai conosciuto?
No, non l’ho conosciuto. Ho tanti suoi scritti, bellissimi, le sue foto e ho presente i racconti di mia madre. Mi ricordo di lui quando nel letto mi ha fatto il ritratto ...

 
Silvio Monfrini



Ma allora l’hai conosciuto?
Ma ero piccolissima, avevo due – tre anni, è morto nel ’69. Mi teneva nel letto a dormire e manipolava la creta. Vedevo la sua vestaglia che andava avanti  e indietro, altissima. Questa è l’immagine che ho di lui.

Partiamo dall'inizio. Silvio Monfrini è nato a Milano il 19 febbraio 1894 e morto a Usmate il 3 novembre 1969…
Sì, la sua famiglia era di Milano, città dove aveva vissuto e lavorato. Poi però l'aveva dovuta lasciare  perché affetto da una fortissima forma di asma dovuta al lavoro - per quanto non lavorasse il marmo e prediligesse  il bronzo.
In un primo tempo si era trasferito a Monza. Poi, consigliato dalla  famiglia, in particolare dal fratello Giuseppe, podestà del paese e titolare di un'impresa di costruzioni che aveva costruito molto in Brianza, si era spostato a Usmate.
 

Il giovane Silvio Monfrini

Fu una sorta di riconciliazione con la famiglia, che in precedenza lo aveva  abbandonato  a sé stesso, perché, in quanto artista, era considerato incapace di gestire il  patrimonio economico. Ed era vero, perché lui lo aveva dilapidato.
Abbandonato dalla famiglia, non aveva potuto godere dei suoi beni e aveva dovuto fare tutto da solo, grazie a sua moglie, mia nonna che lo sosteneva con il suo stipendio di maestra.
Però poi, proprio con la sua arte, ha fatto una fortuna incredibile. Ai suoi tempi il lavoro di scultore, nell’ambito della statuaria, era molto riconosciuto, non solo dalle gallerie, anche dal privato, e non solo per  la commemorazione funebre: le grandi famiglie si facevano fare i ritratti o volevano sculture con una tematica. Insomma ce l’ha fatta.
Con lui hanno lavorato tanti grandi artisti: Manzù, che il nonno ha tenuto tanto nel suo studio;  Minguzzi, che veniva sempre a casa nostra; Messina, che era  suo grandissimo amico; tutti  i grandi dell’accademia. Era molto amico dei fratelli Bazzaro - Ernesto  era stato suo maestro - che avevano messo insieme un gruzzolo proprio per aiutarlo, perché era rimasto senza studio, senza niente. Poi è diventato famoso ed è riuscito a vivere della sua arte.
Tante sue sculture sono dedicate ai lavoratori, perché  era uno molto di sinistra. Durante il fascismo è stato messo in galera non so quante volte, rischiando anche di essere ammazzato. Per le sue idee politiche aveva fatto molta fatica a lavorare.



"Omaggio a S. Monfrini scultore", Elena Mutinelli, 2005
Un personaggio…
Sììì… Portava sempre a casa un sacco di gente, a mangiare, a dormire.  Portava a casa i barboni  di Milano  per farli posare. Era capace di tenerli in casa una settimana e mia mamma e le sue amiche dovevano lavarli, vestirli e tenerli lì finché uscivano nuovi. Poi magari, di tanto in tanto, ritornavano.
Il volto del  Cristo di Usmate è quello di un barbone che bazzicava per via Cesare Correnti, dove il nonno aveva lo studio.
 

 
Volto di Cristo di Silvio Monfrini. Chiesa parrocchiale di Usmate.

Per un busto per il monumento ai caduti di Trento, ha preso uno della Canottieri d’Italia di Milano. Vicino alla morte quest’uomo aveva chiamato la mamma  per sapere che fine avesse fatto la sua testa. Lo abbiamo  accolto per fargli vedere com’era la sua testa, il suo bozzetto, tutte le sue cose. Sono aneddoti belli, secondo me…

Come fai a conoscere queste storie?
Ce le raccontava la mamma, di sera, intorno al tavolo, avevamo una cucina grandissima.
Nella nostra famiglia  eravamo in tanti: i genitori, la nonna, cinque fratelli più altri in affido temporaneo - una storia che sarebbe lunga da raccontare - in tutto otto  o nove “figli”. Io, che sono l’ultima, e il secondo dei miei fratelli siamo nati in Italia; gli altri  in Argentina dove i miei si erano trasferiti per il lavoro di papà.
Alla mamma piaceva fare il gioco delle rime e lo faceva fare anche a noi. Da lì si partiva a parlare di qualche episodio di guerra, magari ridicolo, e a parlare del nonno, cosa faceva, cosa non faceva, come si vestiva.
Ogni volta che qualcuno gli chiedeva qualcosa lui era disponibile.
Era arrivato al punto di regalare dei terreni di Oggiono a dei contadini che avevano aiutato, gratuitamente, suo fratello a costruire la chiesa di Usmate.
La nonna, affinché non  sperperasse tutto, gli nascondeva i soldi.   
La mamma ci raccontava anche delle sue litigate con il fratello, per ragioni politiche. Lui di sinistra, l’altro fascista, arrivavano a prendersi a pugni. Però poi andavano d’accordo.


Ci sono opere sue esposte al pubblico, oltre al Cristo della chiesa di Usmate...
Il monumento a Francesco Baracca, nell’omonima piazza di Milano; a Trento c'è un  monumento per i caduti in Albania; a Monterosso, in Liguria, la statua di San Francesco del convento dei Capuccini; alla stazione di Monza,  il monumento ai caduti sul lavoro. A Monza ci sono diverse altre sue opere. Una, l'ho saputo di recente, anche in Duomo. A Usmate ci sono alcune  sculture al cimitero e poi, come hai detto, c’è il Cristo della chiesa parrocchiale.
 

Per quest'ultimo era stato chiamato dal cardinal Schuster. L’aneddoto racconta che il cardinale voleva farsi baciare l’anello, lui invece gli ha stretto la mano e gli ha detto “piacere, mi sunt el  sciur Monfrini”. In un primo tempo sembrava che l'incarico dovesse saltare. Poi però il cardinale lo ha richiamato e gli ha detto “vorrei un Cristo fatto da lei”. Lui fa questo Cristo, lo fa bello per attrarre le folle, ma il cardinale fa storie: “io non lo metterò mai in chiesa questo Cristo, è troppo bello, troppo nudo,  troppo atletico” . Lui in meneghino gli ha risposto: “che ‘l me scüsa , ma lü  l’ha cugnusü el Cristu?”.Così il cardinale l’ha preso a ben volere e gli ha fatto fare questa e tante altre sculture.
 

 
Cristo crocifisso di Silvio Monfrini. Chiesa parrocchiale di Usmate


Era un periodo così, non solo lui, tanti artisti riuscivano fare quello che desideravano.
Lui ha avuto due opportunità, quella di cominciare con fatica – dico che è stata un’opportunità perché l'ha reso forte -  e quella di lavorare senza l’imposizione della tematica della committenza.
Era fatto a suo modo: se uno entrava in studio e gli diceva: “la scultura che mi hai fatto non mi piace” la distruggeva e non gliela faceva più…" Io non lo farei mai!! Ah, ah , anche se sono un’artista, non è un periodo che puoi dire di no. Capisci?


È come un falegname di Verderio, bravissimo, fa mobili su misura perfetti. Ma se alla fine del lavoro tu gli dici “però, forse...”, solo questo, basta, non te lo consegna, se lo tiene. Ha la casa piena di mobili che non ha consegnato.
Ho provato anch’io a non consegnare una scultura, a disfarla completamente. Poi  il cliente è tornato… A volte bisogna proprio imporsi. Di solito però cerco di essere più diplomatica del nonno e trovo un accordo.


C’è qualcosa nel modo di esprimersi di tuo nonno che si ritrova anche nel tuo?
Sì, certamente. L’immediatezza, che è quella della scultura scapigliata; la velocità di espressione, quel non finito che però è finito, un esecutivo fresco.


ATTENZIONE. IL POST SUCCESSIVO A QUESTO È  DEDICATO ALLE OPERE DI SILVIO MONFRINI.

Quanto ha contato tuo nonno nella scelta di dedicarti alla scultura?
Molto, penso. Sentendo quel che mi raccontavano, che era stato così libero e aveva vissuto della sua arte, mi  ero convinta che fosse facile, che bastasse lavorare…
In cantina c’erano i suoi strumenti. Io giocavo con le sue cose e già da piccola, per scherzo, modellavo.
Chiedevo sempre alla mamma “mamma posso andare a modellare, posso?” Mio papà diceva di no. Allora anche lei mi diceva NO, ma sono sicura che pensava SÍ.

Lui NO, lei SÍ. Alla fine ha vinto lei… Come hai iniziato?
A tredici anni mi ero iscritta al liceo artistico dalle suore, ma mi sono ritirata perché dicevano che non ero portata per l’arte. Così la mamma, a cui non piacevano tanto le scuole private, perché aveva un po’ le idee del nonno, mi ha messo  in una scuola pubblica, all' Hayek. All’inizio vivevo in un collegio ostello, poi ho trovato una famiglia e sono stata lì.
Nello stesso tempo la mamma, per occuparmi i pomeriggi, perché aveva paura della droga  - il papà diceva sempre “son tutti drogati!” -, mi aveva messo a bottega da uno scultore di Milano, Casentino, allievo di  Arturo Martini. Sono andata da lui tutti i pomeriggi, fino a 18 anni, a modellare e scolpire. Lui mi diceva sempre: “impara un mestiere, che magari poi vai alla Fabbrica del Duomo, impara un mestiere… vai a Pietrasanta”. Per “imparare un mestiere” intendeva  imparare a fare le copie. Infatti i pezzi che si tolgono dal Duomo non vengono restaurati, vengono rifatti da capo.






Per decidere di trasformare la passione per l’arte in lavoro ci vuole un bel po’ di coraggio. Tu l’hai avuto: quando?
L’ho sempre desiderato, questo è sicuro. Mi costa un po’ raccontare come ho iniziato, perché è una cosa un po’ intima.
A un certo punto della mia vita, quando avevo 18 anni, nella mia famiglia ci sono stati grossi problemi economici (di cui io, peraltro, ho avuto coscienza qualche anno dopo)  e i miei genitori non mi hanno più potuto aiutare.
Così, mentre frequentavo l’Accademia ho cominciato a lavorare  per Casa Kit, un’azienda di arredamenti di interni per bambini.
Finita l'Accademia mi sono trasferita a Pietrasanta, dove ho trovato lavoro come operaia da un artigiano che eseguiva lavori a punti, in copia.   All’inizio prendevo  metà stipendio, poi lo stipendio pieno.
In seguito, sempre a Pietrasanta, ho lavorato  in altri studi, dove potevo eseguire  anche le mie sculture. Ne ricordo uno in particolare, molto singolare: da Duà, un uomo che allora aveva più di ottant’anni, un artigiano sopraffino che mi ha insegnato tutto.
A Pietrasanta,  ho imparato i trucchi del mestiere, quelli che mi hanno permesso, quando sono tornata a Milano, di  lavorare per la Fabbrica del Duomo. Per entrarci  bisognava saper lavorare “a punti” e io lo sapevo fare. 
Al Duomo mi hanno presa, come esterna, perché sono una donna, solo gli uomini potevano essere assunti, per una legge non so se del 1919 o del 1933.
Però non possedevo gli strumenti per poter lavorare, non avevo niente. Dal patatrac della mia famiglia erano stati salvati i mobili più antichi, conservati in un magazzino vicino a casa. La mamma me li ha dati e mi ha detto: “se hai bisogno vendili”. Sono andata a Milano, in via Pisacane, da un amico, ho venduto tutto e mi sono comprata il compressore, le punte, tutto quello che mi serviva insomma.

Il lavoro per il Duomo in cosa consisteva?
Nel rifare i pezzi che dovevano essere sostituiti. Lì non si restaura, si sostituisce, come ti ho già detto.

Tutto, anche le statue?
Sì, sì, anche quelle. Se facevi le statue ti pagavano di più, quasi il doppio che se facevi gli ornati.


Tu cosa facevi?
Solo gli ornati, che contengono però tanti elementi decorativi molto complessi: draghi, teste, volti.
Non si faceva un preventivo: per ogni lavoro loro fissavano il numero di ore necessario. Eravamo cottimisti. 


 



Adesso molti pezzi li fanno fare al laser. Io li ho visti, perché li hanno esposti alla fiera di Verona: sono terribili!
Allora li dovevi fare a scalpello secco, con la punta molata. Non potevi usare le “molettine”, perché vanno a più di 23 000 giri al minuto e, anche se non si vede, dentro fanno scoppiare il marmo, perché cuoce. Così, siccome il cristallo del candoglia è molto largo, lo smog penetra e, con il freddo e l’umidità, dura pochissimo. Si forma una crosta che dopo poco sembra veramente cemento.
Andavo a prendere i pezzi da ricopiare, che magari pesavano 400 chili, con il mio Fiorino.
Dopo tre pezzi in ritenuta d’acconto mi hanno considerata in grado di lavorare per loro e ho aperto la partita IVA
.

Dove lavoravi?
All'inizio nella casa dei miei genitori, che poi fu messa all’asta. Mio papà aveva costruito una tettoia fuori e lì ho lavorato per due annetti.
Poi hanno messo i sigilli, per cui tutti fuori dalle balle in poco tempo. Sono rimasta senza laboratorio.
Ho trovato un capannone a Milano in viale Certosa.
La padrona, una donna molto sensibile, mi ha permesso di viverci dentro: mi ha detto “vivici pure, nessuno lo sa, non ti preoccupare”.
Era grande la metà di questo laboratorio. L’avevamo arredato tutto con i bancali,. Abbiamo carotato il muro, fatto lo scarico. C’era una specie di cucina. Pian pianino era diventato bellissimo.
Lì c’è passato il mondo, sono venuti grandi giornalisti: Armando Torno, responsabile della cultura per il Corriere della Sera e poi dell’inserto domenicale del Sole 24 Ore; Vittorio Sgarbi; Arensi, quello che ha curato la mostra di Rodin a Milano; i giornalisti di Oggi, che dedicava una pagina agli artisti abbastanza affermati; i curatori di Flash Art e di  Arte.
Tutto questo in fondo a viale Certosa, un posto adatto  solamente  a girare un thriller.  Se ci penso: quando non avevo ancora la cucinetta facevo le cene e avevo il lavandino in bagno, mi vergognavo. Allora un'amica siciliana mi copriva, diceva “qui non si può entrare”.
Venivano anche i ragazzi dell'Accademia, perché veder rifare i pezzi del duomo non era male.
Anche per intraprendere questa attività conta molto la passione. Quando mi sono  separata dal mio primo marito, sono rimasta tantissimo tempo da sola. L’unica cosa che facevo era la scultura: scolpivo e vedevo gente che, come voi, veniva in laboratorio. Non avevo altre necessità, tranne quella di sopravvivere, ah, ah ah...


Insomma, ce l’hai fatta a trasformare l’arte in un mestiere.
Sì, piano piano, piano piano. È stata dura, ma d’altronde sapevo fare solo quello. Avevo fatto un sacco di domande – ai grandi magazzini, alla Esselunga - , ma non avevo mai il profilo idoneo. 



Con il lavoro del Duomo vivevo molto a stento, ma è quello che mi ha garantito la sopravvivenza e mi ha anche permesso di continuare a realizzare le mie sculture, e di venderle. Ho conosciuto tanti collezionisti - collezionisti colti, non quelli che prendono le cose di tendenza - che mi compravano le robe, senza tirarmi il collo, avevano la dignità di non tirarmelo. Capivano che avevo bisogno e non mi mettevano in condizione di strisciare, come invece facevano alcuni  galleristi.
Poi ho anche insegnato.


Dove?
Prima in un liceo privato di Milano, il San Calimero, poi all’ACME, un’accademia di Belle Arti privata allora  in piazza Leonardo da Vinci a Milano.
Ho partecipato a un concorso all’Accademia: ero quarta, poi sono diventata nona e ho pensato: “Qua entro in ruolo a sessant’anni. Lasciamo perdere”.  Ho fatto domanda alle Preziosine di Monza, le suore che mi avevano bocciato al primo anno di liceo dicendo che non ero portata. Dopo vent’anni se ne sono dimenticate e mi hanno presa.
Ma è stata la Fabbrica del Duomo, l'ho già detto, che mi ha garantito la sopravvivenza.  Più che di arte, per tantissimo tempo, ho vissuto di artigianato. Quello  ha sovvenzionato l’arte, poi l’arte ha iniziato a ripagare.

Parliamo ancora della Fabbrica del Duomo, che mi incuriosisce. Chi sono le persone che ne fanno parte?
Sono dei privati che la sostengono, che si occupano di mantenere questo grandissimo monumento, insieme a degli sponsor, anche quelli privati.
Io in verità avevo a che fare  solo con l’ingegner Mörling e con il signor Biem, il capo cantiere.
Penso che l’ingegner  Mörling  avesse capito le mie difficoltà. Ogni tanto mi chiamavano per delle mostre importanti e non sapevo come fare a partecipare, perché non potevo mollare il duomo neanche un mese: se perdevo un “fiocco” perdevo tutta “la partita di giro”. Una volta mi è capitata una mostra a Madrid molto importante; l'avevo vinta a un concorso. Gli ho detto “ingegnere, io devo proprio  fare questa mostra, ma lei poi me lo dà ancora il lavoro?”. Lui mi fa:”non si preoccupi”.



I pezzi che vengono estratti dal Duomo per essere sostituiti che fine fanno?
Li mettono nel cosiddetto “cimitero”, uno dei due cantieri del Duomo (l'altro è il Duomo stesso, per  la messa in posa dei pezzi), in via Brunetti 35, in fondo a viale Espinasse. Una grande fabbrica, che ha dentro  dei piccoli laboratori per gli scultori interni, maschi.

È bello?
Bellissimo. Potreste chiedere di visitarlo, al massimo vi mandano a quel paese.
A un certo punto lavorare per il Duomo era diventato difficile, perché l'ultimo responsabile  mi odiava, o meglio mi amava e mi odiava. Era un “carrarino”. Io li conosco, sono duri, sono come la roccia. Guardava i pezzi con la lente. Non vedeva l’ora di darmi qualche punizione: se sbagliavi ti toglievano  un tot di ore sul pezzo, e questo si ripercuoteva sui pezzi successivi. A un certo punto mi sono stancata e gli ho detto “io non lavoro più per il Duomo, lei mi ha fatto perdere l'amore per questo lavoro”. Allora lui: “No, aspetti. Abbiamo da mettere uno in carcere” e mi sono fatta mettere in carcere.

In carcere?
In carcere la Fabbrica del Duomo aveva un cantiere e avevano bisogno di qualcuno che lo dirigesse. Mai più pensavano a una donna. Siccome chiudendo la partita Iva non avrei più mangiato, ho accettato e lì dentro ho fatto due annetti. Ho avviato il corso di   formazione e il lavoro nel cantiere interno al carcere per quelli “fine pena mai” .
Abbiamo fatto  cose stupende, dei camini bellissimi. Per avere degli sconti di pena,  abbiamo fatto dei vasi barocchi splendidi, che  non so a chi siano andati. Un giorno mi sono trovata a lavorare con loro, i carcerati, il giorno della vigilia di Natale e abbiamo fatto una scena di caccia bellissima, erano molto bravi.
Era bello lavorare lì perché avevi tutti gli attrezzi necessari, non dovevi pagare niente. Avevi bisogno di una cosa, schioccavi le dita e arrivava.

Con i carcerati ti trovavi bene?
Mi trovavo bene. Insegnando, ripassavo continuamente, perché spesso c’erano dei problemi da  risolvere. Ci portavano dei pezzi a cui magari mancava la mezzeria e dovevi capire come correggerli, perché il pezzo doveva essere simmetrico. Ragionavamo insieme. Lavoravano lì per  otto ore al giorno e  in quelle ore loro vivevano in un clima di libertà. Non era come stare in cella e avere due ore d’aria. Poi mandavano i soldi a casa. È stato bellissimo.

I tuoi clienti? All’inizio, mi hai detto,  erano quelli della fabbrica del Duomo…
Sì, erano clienti molto colti, non snob, non ricchissimi, persone normali, che magari compravano a rate.
Poi c'era qualche  privato, veniva da me perché  aveva bisogno di scaricare la spesa dalle tasse: comprava il pezzo e scaricava. Almeno fino al 1999 lo potevi fare. Ricordo che sotto Natale mi arrivavano un sacco di commissioni.
Altri miei clienti erano  calciatori,  cabarettisti, di cui non faccio il nome. Sono arrivate insomma delle persone particolari che hanno in sé l’amore per l’arte, anche quella di artisti non  famosi. Hanno comprato da me perché gli piaceva quello che facevo: se avessero voluto investire avrebbero comprato un altro artista.
 

Nel 2004 ho vinto un MiArt, con il comune di Milano. Lì ho capito che il collezionismo era cambiato. Iniziavano a girare per le fiere personaggi che spiegavano ai collezionisti che cosa era un investimento. In quel periodo, per loro, io ero un investimento: boh! Chissà come mai, forse perché avevo fatto un MiArt. Degli imprenditori arricchiti, che non è che capissero tanto, giravano per le fiere, con questi agenti, e compravano. Poi questi collezionisti si sono sganciati da quelle figure e hanno iniziato a comprare in studio, perché avevano capito che così costava meno. Ogni tanto comprano ancora.
 

In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di incontrare un collezionismo particolare, che acquista opere per motivi culturali. Sono medici, ad esempio, che hanno passione per la storia e una forte inclinazione umanistica. Scrivono libri sui settori della medicina di cui sono specialisti e poi organizzano mostre con opere d’arte che hanno a che fare con il tema che loro stanno trattando. Ho partecipato a una mostra sulla mano al Caffè Pedrocchi di Padova, organizzata dal professor Renzo Mantero, un chirurgo specialista della mano appunto. In quell’occasione ha tenuto una bellissima conferenza sulla gestualità dell’Ultima Cena di Leonardo. Nella mostra c’erano opere di Salvator Dalì, De Chirico, Rodin, Camille Claudel, Breton e tanti altri.
Un’altra mostra di questo tipo è in preparazione. Sarà pronta fra un anno e mezzo circa.

Le gallerie sono uno strumento per far conoscere un artista e permettergli di vendere le sue opere. Mi parli del tuo rapporto con loro?
Sì, ti parlo dei galleristi che sono stati importanti per me.
Per la mostra di Madrid, a cui prima ho accennato, avevo mandato degli inviti ad Alain Toubas  della storica galleria di Giovanni Testori, che era il suo compagno. Lui ha voluto vedere due mani in marmo e me le ha comprate subito. Era tanto che mi proponevo alla sua galleria ma mi dicevano sempre che artisti giovani non ne prendevano, che avevano Mitoraj…
Probabilmente ad  Alain non era mai arrivato in mano niente delle mie richieste. Si capisce che quella volta invece la posta l’ha ricevuta lui e da lì è iniziato tutto.
Amava il mio lavoro. Grazie a lui non ho dovuto spendere soldi per sovvenzionare la mia arte: era lui che la pubblicizzava, che spendeva, che mi trovava i contatti con i galleristi.
Tramite lui e un altro bravo gallerista di Monza, che poi si è trasferito a Milano, un notaio, nel ’94 ho conosciuto Sgarbi e così la mia arte si è fatta conoscere.
 

Nel ’99 sono entrata in contatto con un gallerista che è stato un grandissimo stampatore, Linati. Mi ha preso a ben volere, mi ha insegnato l’incisione e raccontato storie sui falsi che giravano e sul mondo dell’arte. Incontrare, in quel periodo, gente che aveva tanti anni significava conoscere un pezzo della storia dell’arte. Lui mi ha comprato un sacco di pezzi.
Gabriele Cappelletti, che ha l’esposizione in via Brera, è diventato mio gallerista nel 2003. Era un imprenditore, collezionista e mi ha comprato i pezzi più difficili, quelli del periodo in cui la mamma ha perso tutto e ho fatto il lavoro sulle pazze.
 

Ci sono gallerie che fanno tanto per passione e tengono artisti come noi, relativamente nuovi, che non sempre vendono. Per poterlo fare devono avere proventi da altre parti, dal grande artista di spicco, dal cavallo di battaglia conosciutissimo.
Per anni ho lavorato con una gallerista così. Anche se era riuscita a vendere  un solo pezzo mio, si dava un sacco da fare per trovarmi le sponsorizzazioni: mi aveva fatto fare un’ importante mostra con Lucio Fontana e altri autori a Santa Giulia, a Brescia e un’altra in via Montenapoleone, a Milano. Stavo male per lei, che non riusciva a vendermi, eppure continuava, perseverava, perseverava… Non capita spesso.
Adesso ho una galleria di riferimento che lavora tanto all’estero, una cosa che in passato  non succedeva. La gallerista, una donna con una conoscenza della storia dell’arte più unica che rara, ha piglio sia sul commerciale che sul culturale, e si lascia guidare pochissimo dai curatori.

Chi sono i curatori?
Sono mediatori fra gli artisti e le riviste d’arte e fra gli artisti e il mercato dell’arte.   
Non sono i manager degli artisti, ma qualche volta ne fanno le veci, anche se in modo velato.

Invece questa signora, la tua gallerista…?
Non  usa il curatore perché lo fa lei, o li usa raramente, quando gli serve per qualche rivista. Non si fa strumentalizzare, è giovane.
Lavoro anche con una galleria salda, la ETRA, che ha le sedi a Firenze e Pietrasanta.
Ce ne vorrebbe una a Nuova York – come dice mia mamma, non a New York.

Hai fatto mostre personali e partecipato ad altre collettive. Oltre a farti conoscere, hanno anche un’importanza economica immediata?
No, immediata mai, purtroppo.




 
Brochure della mostra di Elena Mutinelli a Monza, estate 2016


In casa  hai qualche tua scultura?
Poche, pochissime, perché mi affliggono.


E disegni?
Sì, disegni sì.


Ci sono opere tue esposte al pubblico in modo permanente?
Sì. A  Vergnacco, una frazione del comune di Reana del Royale, in Friuli, c’è una mia scultura dedicata ai donatori di sangue. Si chiama “Vuoto di mani congiunte”. È in Fior di roccia del Timao, una bellissima roccia rossa, molto viva, molto dura, simile al porfido.
 

 
"Vuoto di mani congiunte", Elena Mutinelli, 2004



C’è un’altra mia opera a Nanto scolpita nella pietra gialla di Vicenza.
Molti miei disegni sono  a New York, ma non in uno spazio pubblico, al Jolly Hotel. Marta Marzotto, che era socia di questa azienda, voleva dei disegni  “rinascimentali”. Io stavo esponendo in una libreria di corso Vittorio Emanuele a Milano, e un architetto canadese ha deciso che i miei disegni erano quelli che cercavano. All’inizio dovevano essere venti, trenta disegni. Alla fine sono stati 170, tutti originali, non incisioni. Non ti dico cosa ho lavorato in quel periodo. Non avevo più idee, perché il corpo come lo sposti lo sposti, ma alla fine è sempre il corpo. Ho lavorato con dei ballerini veri. Non potevano posare, quindi andavo a filmarli o cercavo di farli a memoria.






Disegni di Elena Mutinelli alla parete di una camera del Jolly Hotel di New York

In America, in un museo dedicato alle religioni monoteiste, non mi viene  in mente dove esattamente, ci sono dei miei pezzi in marmo molto drammatici . Uno si chiama “Muti silenzi su di noi”. Il proprietario, un cultore di religioni monoteiste, aveva dedicato il museo alla figlia. Ho regalato per anni dei disegni a questo signore, perché il gallerista mi diceva che li regalava alla figlia. Dopo mi sono accorta che la figlia era morta: chissà dove li metteva il gallerista i miei disegni…
 


 
"Muti silenzi su di noi", Elena Mutinelli, 1998

Una mia opera dovrebbe essere ancora sulla scogliera di Caorle.s'intitola "Confronto" e l'avevo realizzata nel 1997 per un simposio internazionale di scultura.


"Confronto", Elena Mutinelli, 1997

Di tante delle mie opere esposte non ho traccia perché i galleristi non vogliono che si sappia dove siano, per non farci mettere in contatto direttamente con i collezionisti. Una cavolata, mica li vado a prendere i suoi clienti, se no perché dovrei avere il gallerista?
 

 
Bronzo di Elena Mutinelli nel cimitero di Usmate

C’è una cosa che ci tengo a dire: io non partecipo a mostre a pagamento. C’è un mucchio di gente che paga l’impossibile per dire che ha fatto mostre di qua e di là. Anch’io ricevo tante proposte. Economicamente, non me lo potrei permettere, ma anche  se avessi i soldi non lo farei. Rischi di crearti un curriculum, pieno di cose che effettivamente hai fatto, ma che  per gli addetti ai lavori, quelli veri, non vale niente. Lo potresti solo fare vedere a un amico, per dire “io ho fatto queste mostre…”, ma non vale proprio niente.
 

Lo stesso discorso  vale per le gallerie. Io non le pago per tenere le mie opere, guadagnano in base a quello che vendono. Per produrre un’opera investo nel materiale e ci metto il lavoro: questo è il mio rischio. Il gallerista lavora in conto vendita per cui non ha un rischio, se non  quello di avere un posto che non vende e quindi deve cercare di avviarlo bene.  Se ad esempio diversifica gli oggetti che offre riuscirà a vendere
 


Scolpisci e disegni dal vivo?
Tendenzialmente sì. Certo, se devo scolpire non posso tenere una persona di fronte a me, perché rischio di farle male. In questo caso preparo prima un modello in creta dal vivo.
Per i particolari, qualche volta faccio  fotografie.


Ritratto in creta eseguito da Elena Mutinelli
I tuoi soggetti si riconoscono nei tuoi ritratti?Sì, si riconoscono, ma non nell’idea di  “bellezza” che hanno di sé.
Ognuno ha, della propria immagine, l’idea immediata che si fa guardandosi allo specchio. Ma quando ritrai una persona in posa, vedi di lei molte cose  che lei non vede nello specchio, riesci ad arrivare al suo intimo.
Mi sono fatta un autoritratto allo specchio, quando ero molto più giovane, avevo 10 o forse 15 anni in meno, non ricordo. Però sembra che abbia l’età di adesso, perché stando lì a guardarti allo specchio, dopo tre ore hai una faccia più scavata, più presente, più viva di quando hai iniziato. Ovviamente il naso è il mio naso, non certo il naso da francesina che penso di avere, ah, ah... Una mia allieva l’altro giorno insisteva a dire di avere il naso all’insù: “no, non è vero, hai il naso che piscia in bocca come il mio”, le ho dovuto dire.


A  parte i volti,  usi il modello vivo anche se devi fare un corpo ?
Sì, sì, se posso sì. Riscaldo al massimo il laboratorio, però voglio  il modello. Prima lo imposto a memoria, lavoro molto dai disegni . Ma poi mollo lì tutto e mi porto il modello.



Quali sono i tuoi strumenti di lavoro?
Mazzette, punte, scapezzatori, quelli corti perché nello sbozzo permettono di far saltare tanto materiale senza creare l’errore. Se non si lavora al verso il marmo va in dentro, se usi uno scapezzature lungo salta e va un po’ in dentro. Uso soprattutto strumenti in ferro, non in vidiam, perché quando arrivo alle finiture si ha la sensazione di un modellato vivo morbido, vibratile più spontaneo.
 



Gli attrezzi che vedete  me li aveva dati il  vecchio Duà di Pietrasanta, quello che mi ha insegnato tutto e di cui vi ho già parlato. Aveva quasi 90 anni e lavorava con una passione… Ogni tanto passava via e pam, una pacca sul culo: “o bbimba”, diceva…


Le nuove tecnologie permettono di realizzare sculture senza sporcarsi le mani, ad esempio utilizzando il laser. Secondo te è ancora scultura e, soprattutto, il loro autore  è ancora uno scultore?
No, secondo me no. È vecchia  la disquisizione se è più importante l'idea o è più importante l'esecuzione. Io non dividerei le due cose, le mani e la testa.
Capisco l'importanza dell’idea,  e posso capire che l’idea abbia la prelazione, ma l’esecuzione è, secondo me,  esperienza imprescindibile per un artista  ed è anche quella che lo porta a partorire nuove idee.
Per carità, la tecnologia è di ausilio e se necessario la posso usare, anche il laser, al limite, se quello che devo fare è molto grande. Ma ci deve essere almeno un lavoro preliminare dell'autore, almeno un modello in creta. Ci sono autori che fanno fare le opere a laser senza neanche fare il modello…


Sulla base di cosa?
Se mi piace uno, vestito da Maria con intorno gli angioletti, gli faccio non so quante foto in 3D, gli metto intorno gli angioletti con photoshop  e io ho la mia opera bell’e fatta come mi è venuta in mente. Pago uno che la realizzi con il laser e poi l'opera diventa un’opera mia, perché la mia idea prevale su tutto.
Se  uno è convinto che l’opera dell'artista possa esaurirsi nell'idea e che la sua realizzazione sia altra cosa, deve avere almeno la correttezza di dire chi quell'opera l'ha realizzata concretamente.
Nei titoli di coda dei film non c'è solo il nome del regista, c'è quello del tecnico delle luci,  del doppiatore, del costumista... Tutti. Se il regista ha scelto queste persone che sono deputate a fare un’opera d’arte, è giusto che queste persone appaiano. Se il formatore (colui che si occupa di fare i calchi in gesso) è stato fondamentale nella realizzazione di un’opera, è giusto che si sappia.


È molto diffuso questo stile?
Diffusissimo. Molto prima che si cominciasse ad usare il laser.
Mitoraj, che però era un grandissimo disegnatore e aveva  idee spaziali, delegava agli artigiani. Però non lo ha mai detto che erano gli artigiani a realizzare le sue opere.
Ho lavorato come artigiana in un laboratorio a cui lui si rivolgeva. Un giorno doveva fare un video in cui appariva  lui che lavorava. Solo che non sapeva come si tenesse in mano il flessibile. Ci ha provato ma poi ha mollato tutto.


Tu hai mai avuto bisogno di qualcuno che ti aiutasse?
Certo, per molte opere ho bisogno del “formatore”.

Ossia?
Il formatore, una  figura che purtroppo nessuno conosce, è importantissimo per la scultura.  È quello che fa i calchi di tutte le materie duttili. Tutte le cose che  vedete qui in plastilina,  hanno bisogno di calchi in gesso ove colare i materiali non  morbidi come il bronzo. Il formatore è fondamentale. A suo tempo feci un bellissimo lavoro per la Gimoka e  ho avuto bisogno del formatore.  Con lui  ci deve essere un'ottima  intesa, se vuoi che il risultato sia buono. Questi personaggi nell’arte figurativa non sono conosciuti perché non vengono mai menzionati, ma noi non esisteremmo se non ci fossero loro.

Sono artigiani ?
Sì, che ti permettono di realizzare l’opera finita. Noi non siamo alla loro altezza.
Se una scultura è piccola cerco di arrangiarmi da sola, ma per le opere più impegnative non sono in grado, e ho bisogno del loro contributo
Il loro è un grandissimo mestiere, che si impara di anno in anno, di generazione in generazione. Bisogna avere la voglia di impararlo e adesso chi è che ce l’ha? Sono ormai in pochi a farlo.
Il loro lavoro dovrebbe avere più riconoscimento. Penso che su ogni scultura andrebbe scritto: opera di Elena Mutinelli, formatura di Mister X, sgrossatura del marmo di Mister Y,  e così via.

Ne hai uno di fiducia?
Ne ho uno molto bravo, Valerio Marraffa, ma purtroppo adesso lavora meno. È quello del teatro alla Scala. Lo conosco da una vita:  giocavo a baseball con lui da piccola.

A baseball?
Si, i miei fratelli giocavano a baseball e mio papà mi ha detto: "se vuoi vai a giocare a baseball con loro". Lui giocava con noi  e ha intrapreso il lavoro di suo padre, anche lui formatore. Quando sono tornata da Pietrasanta l’ho ricontattato e abbiamo lavorato sempre insieme. Fino a due anni fa.

Non abbiamo ancora detto niente delle tue opere in bronzo. Le fai?
Sì, certo. Il bronzo è un materiale che si presta bene ad essere trasportato e non si rompe. Le opere in bronzo sono molto  apprezzate all’estero e la galleria le vende più facilmente. Per questo, qui in laboratorio, ce ne sono poche.


In primo piano opera in bronzo di Elena Mutinelli
Tu sei un'artista figurativa. Hai mai fatto arte astratta?
Sì, tantissima. Ho fatto arte astratta perché  non ero ancora in grado di esprimermi come volevo, perché in accademia, a Brera, non mi avevano insegnato niente del mestiere. I miei insegnanti si facevano fare le opere, come potevano insegnarmi?
 

Elena Mutinelli
Per imparare sono  dovuta andare a bottega da Casentino e poi a Pietrasanta.
Dovevo provare il figurativo, magari per scartarlo in seguito. Invece me ne  sono innamorata, perché secondo me nella figurazione c’è anche una grande astrazione. L'astrazione è un pensiero, l’opera è l'arte del pensiero, quindi è tutto astratto: non ci deve essere una cesura. Certo se non avessi imparato…


Ci sono opere che sono solo tue, che non esponi e che non sei disposta a vendere?
Mi è dispiaciuto tantissimo vendere alcune delle sculture in marmo, è stato come perdere un arto del mio corpo. Ho dovuto vendere delle opere che non avrei mai voluto dar via. Ma non ho potuto fare a meno.

C’è però questa tendenza a tenerle?
Sì, tantissimo. Poi io non ho mai neanche fatto regali o meglio, regali ne ho fatti ma con opere che mentre le realizzavo già sapevo che non sarebbero state mie. Saperlo dall'inizio è diverso.
Ho regalato una scultura a cui tenevo molto a un giornalista, che a mio avviso non l’ha capita per niente. Si chiamava “Servo di chi come noi è mortale”. Aveva vinto un premio a Stoccolma, in occasione della commemorazione del premio Nobel letterario sulla pace. Mi è spiaciuto tantissimo averla data via: quando ci penso mi viene una “roba” allo stomaco.

Guardandoti indietro, cosa pensi della strada che hai percorso?
Penso di essere una che all'inizio ha avuto un po’ di sfortuna, neanche tanta, e, in seguito, tanta fortuna. Comunque anche la sfortuna mi è servita,  per perseverare. Vedo  tante persone che, pur avendo possibilità infinite, non rischiano niente. La trovo un’assurdità, dico “cazzo, sei stato baciato dalla grazia, fai qualcosa!!”.
Una delle mie fortune è stata quella di aver avuto persone che mi hanno ben consigliato. Una per tutte, la nonna che mi diceva sempre: “mi raccomando impara il mestiere, impara il mestiere, perché se sai quello troverai sempre qualcuno che ha bisogno di te”. Un po’ come se devi fare l’idraulico: se hai imparato il mestiere non resti mai a piedi.


Elena Mutinelli
Marco Bartesaghi














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