Il 28 aprile del 1799, mentre a Verderio ancora si combatteva, le truppe russe si accingevano ad entrare in Milano. L’arcivescovo Filippo Visconti si fece loro incontro, per accoglierle come liberatrici e consegnar loro le chiavi della città.
Quell’episodio è raccontato nel brano che vi propongo, tratto dal romanzo di Tito Livraghi, La Riviera di Milano. È ambientato a Crescenzago, dove l’incontro fra l’arcivescovo e i soldati russi effettivamente si svolse, e la chiesa citata è quella di Santa Maria Rossa.
Ringrazio l’autore, per avermi permesso la pubblicazione.
Tito Livraghi, abita a Vimercate, dove, presso il locale ospedale, è stato direttore dell’ Unità Complessa di Radiologia. Come medico radiologo, è conosciuto a livello internazionale per aver proposto una procedura terapeutica per la cura dei tumori al fegato, denominata “alcolizzazione percutanea”.
La Riviera di Milano è il suo primo romanzo, non il suo primo libro. Due , precedenti, li ha dedicati ai luoghi e alla storia di Milano, città dove è nato nel 1942: “A spasso con la storia di Milano“ e “Milano: i luoghi e la storia”.
Frutto della sua passione per la montagna, i viaggi e la fotografia, sono:“Montagna, una parola magica”, “L’importante è andare” e, dedicati ai cimiteri nel mondo, “Sheol: il luogo del silenzio” e “Koimeterion”.
Numerose, ovviamente, le sue pubblicazioni di carattere scientifico.
“La Riviera di Milano”, Tito Livraghi, edizioni Meravigli, 2015;
da pag 11 a pag. 13
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Un altro momento importante per la chiesa e indimenticabile per don Carlo si era verificato non molti anni prima, il 28 aprile del 1799 per essere esatti. Don Carlo aveva sentito arrivare di gran corsa delle carrozze che poi si erano fermate nella piazzetta antistante la chiesa. Era mattina inoltrata e vide scendere, stentava a crederci, l’arcivescovo, sì proprio l’arcivescovo di Milano Filippo Visconti! Gli corse incontro, si inginocchiò, gli baciò la mano.
“Reverendissima eccellenza, come mai siete qui? Avete bisogno di qualche cosa? Sono a vostra completa disposizione!”
“Presto! Presto! Stanno arrivando i soldati russi! Prepariamoci a riceverli nel miglior modo possibile! Fate portare qui fuori un tavolo, delle sedie, dei piatti, dei bicchieri, delle vivande, da bere! Anche vino, di quello buono! Mi raccomando, una bella tovaglia, dobbiamo fare bella figura! Presto! Presto!”
L’arcivescovo era molto agitato e così tutto il suo seguito.
Don Carlo si precipitò in parrocchia chiamando a gran voce la domestica e dei chierichetti che la aiutassero.
Che cosa era successo?
Certo, don Carlo sapeva che con Napoleone lontano in Egitto gli Austriaci e i loro alleati Russi si erano fatti coraggio, e battaglia dopo battaglia si stavano avvicinando a Milano. E quindi comprese che stavano per passare di lì, proprio a Crescenzago venendo giù dalla Postale Veneta. Ma perché l’arcivescovo? Approntato il tavolo finalmente capì quando vide un cuscino di raso rosso con sopra sei grandi chiavi dorate. Le chiavi della città!
Rimasero seduti ad aspettare per circa un’ora, poi si sentì un gran zoccolio di cavalli che si stava avvicinando. Eccoli! Un drappello di soldati vestiti in maniera strana, con larghe brache, una sopraveste legata in cintura, armati di sciabola, picca e pistola. Certe facce da far paura, occhi cattivi, grandi mustacchi. Dovevano essere i crudeli Cosacchi di cui se ne erano sentite di tutti i colori, e l’aspetto non faceva che confermare le più terrificanti dicerie. A comandarli un ometto magro, tutto nervi, con una bocca enorme e grossi denti, una faccia piena di rughe.
“La città di Milano per mezzo nostro, Eccellenza, si fa sollecita di presentare al signor maresciallo Suvaroff i sentimenti della propria confidenza nella sua generosità, domandandogli che voglia degnarsi di far rispettare il culto pubblico, il buon ordine e la tranquillità di una città pacifica. Ho l’onore di consegnarvi le chiavi della città! Vogliate accettarle con il massimo della nostra riconoscenza per essere venuto a liberarci dall’oppressore francese! I cittadini tutti sperano nella vostra benevolenza!”.
Il maresciallo scese da cavallo, prese per un attimo le chiavi che poi lasciò sul tavolo, si versò un bicchiere di vino, un altro, poi mangiò un grappolo d’uva. La truppa incominciò a girare per la strada principale, picchiando alle porte e chiedendo a gesti da mangiare, due rincorsero sghignazzando una ragazza, alcuni entrarono in chiesa. Don Carlo non sapeva che fare, seguì i soldati temendo il peggio. Nella fretta non aveva pensato di nascondere i pochi oggetti preziosi che l’abbellivano. In un momento si erano già presi i due candelabri e l’ostensorio d’argento. Tra grasse risate due si stavano lucidando gli stivali con l’olio santo! E gli tornò in mente quando erano arrivati i Francesi preceduti dalla nomea di senzadio! Delle mammolette a confronto! Questi sì che erano dei senzadio, e l’arcivescovo li stava ossequiando! E poi finalmente via, tutti verso la città in un gran polverone, con dietro la carrozza dell’arcivescovo che non l’aveva neanche salutato.
Il mese seguente venne a sapere del Te Deum in Duomo con l’arcivescovo a fare gli onori di casa, di molti nobili che si erano già rimessi le parrucche incipriate, di cittadini con il nodo scorsoio al collo trascinati dai cavalli per le strade, e delle centinaia di poveretti mandati a morire nelle segrete del Montenegro. E si parlava delle stranezze di Suvaroff, che mangiava solo carne cruda, che dormiva per terra, che si alzava emettendo un acutissimo chicchirichì per svegliare i soldati.
Che momenti! Povera chiesa e povera piazza! Che già pochi anni prima, dopo l’ingresso dei Francesi, avevano visto dei girotondi sfrenati intorno a un alberello che chiamavano l’albero della libertà. Nella piazzetta erano arrivati a frotte anche dalle frazioni vicine e alé a danze in catena, con donne seminude che si trascinavano ballando e urlando “Viva l’uguaglianza”.
“Reverendissima eccellenza, come mai siete qui? Avete bisogno di qualche cosa? Sono a vostra completa disposizione!”
“Presto! Presto! Stanno arrivando i soldati russi! Prepariamoci a riceverli nel miglior modo possibile! Fate portare qui fuori un tavolo, delle sedie, dei piatti, dei bicchieri, delle vivande, da bere! Anche vino, di quello buono! Mi raccomando, una bella tovaglia, dobbiamo fare bella figura! Presto! Presto!”
L’arcivescovo era molto agitato e così tutto il suo seguito.
Don Carlo si precipitò in parrocchia chiamando a gran voce la domestica e dei chierichetti che la aiutassero.
Che cosa era successo?
Certo, don Carlo sapeva che con Napoleone lontano in Egitto gli Austriaci e i loro alleati Russi si erano fatti coraggio, e battaglia dopo battaglia si stavano avvicinando a Milano. E quindi comprese che stavano per passare di lì, proprio a Crescenzago venendo giù dalla Postale Veneta. Ma perché l’arcivescovo? Approntato il tavolo finalmente capì quando vide un cuscino di raso rosso con sopra sei grandi chiavi dorate. Le chiavi della città!
Rimasero seduti ad aspettare per circa un’ora, poi si sentì un gran zoccolio di cavalli che si stava avvicinando. Eccoli! Un drappello di soldati vestiti in maniera strana, con larghe brache, una sopraveste legata in cintura, armati di sciabola, picca e pistola. Certe facce da far paura, occhi cattivi, grandi mustacchi. Dovevano essere i crudeli Cosacchi di cui se ne erano sentite di tutti i colori, e l’aspetto non faceva che confermare le più terrificanti dicerie. A comandarli un ometto magro, tutto nervi, con una bocca enorme e grossi denti, una faccia piena di rughe.
“La città di Milano per mezzo nostro, Eccellenza, si fa sollecita di presentare al signor maresciallo Suvaroff i sentimenti della propria confidenza nella sua generosità, domandandogli che voglia degnarsi di far rispettare il culto pubblico, il buon ordine e la tranquillità di una città pacifica. Ho l’onore di consegnarvi le chiavi della città! Vogliate accettarle con il massimo della nostra riconoscenza per essere venuto a liberarci dall’oppressore francese! I cittadini tutti sperano nella vostra benevolenza!”.
Il maresciallo scese da cavallo, prese per un attimo le chiavi che poi lasciò sul tavolo, si versò un bicchiere di vino, un altro, poi mangiò un grappolo d’uva. La truppa incominciò a girare per la strada principale, picchiando alle porte e chiedendo a gesti da mangiare, due rincorsero sghignazzando una ragazza, alcuni entrarono in chiesa. Don Carlo non sapeva che fare, seguì i soldati temendo il peggio. Nella fretta non aveva pensato di nascondere i pochi oggetti preziosi che l’abbellivano. In un momento si erano già presi i due candelabri e l’ostensorio d’argento. Tra grasse risate due si stavano lucidando gli stivali con l’olio santo! E gli tornò in mente quando erano arrivati i Francesi preceduti dalla nomea di senzadio! Delle mammolette a confronto! Questi sì che erano dei senzadio, e l’arcivescovo li stava ossequiando! E poi finalmente via, tutti verso la città in un gran polverone, con dietro la carrozza dell’arcivescovo che non l’aveva neanche salutato.
Il mese seguente venne a sapere del Te Deum in Duomo con l’arcivescovo a fare gli onori di casa, di molti nobili che si erano già rimessi le parrucche incipriate, di cittadini con il nodo scorsoio al collo trascinati dai cavalli per le strade, e delle centinaia di poveretti mandati a morire nelle segrete del Montenegro. E si parlava delle stranezze di Suvaroff, che mangiava solo carne cruda, che dormiva per terra, che si alzava emettendo un acutissimo chicchirichì per svegliare i soldati.
Che momenti! Povera chiesa e povera piazza! Che già pochi anni prima, dopo l’ingresso dei Francesi, avevano visto dei girotondi sfrenati intorno a un alberello che chiamavano l’albero della libertà. Nella piazzetta erano arrivati a frotte anche dalle frazioni vicine e alé a danze in catena, con donne seminude che si trascinavano ballando e urlando “Viva l’uguaglianza”.
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