mercoledì 12 settembre 2018

1889 - 1891. LE "PRIME POESIE" DI VITTORIO GNECCHI RUSCONE di Marco Bartesaghi



C'è una chicca in biblioteca comunale di Verderio, tra le carte della famiglia Gnecchi (1).
Un quaderno a copertina nera, con le prime poesie (così è dichiarato nel titolo) di Vittorio Gnecchi Ruscone, scritte fra il 1889 e il 1891, quando il futuro musicista, nato nel 1876, aveva fra i 13 e i 15 anni (2).
La raccolta di versi  è divisa in due periodi: il primo comprende quelli scritti fra il 1889 e '90, l'altro quelli del 1891. I testi sono ordinati con un’unica numerazione romana.




PRIMO PERIODO, 1889 –‘90

Nella primo periodo sono raccolti sette testi.

I primi cinque sono indirizzati “Alla signorina Teresa Brini in occasione dell'influenza”.

Vittorio scrive da solo il primo, il secondo, il terzo e il quinto componimento; il quarto lo scrive  con Antonia e Maria Brini.

Teresa era una cugina di Vittorio,  maggiore di lui di tre anni, figlia della zia Amalia, sorella del padre, e di Giuseppe Brini. Antonia era sorella di Teresa. Maria era una loro sorella o, forse, una cugina (3).

Teresa e Vittorio nella primavera del 1889 avevano contratto l'influenza e per consolarsi e informarsi reciprocamente sullo stato di salute si scambiavano lettere in versi. A questo “gioco”, se così si può dire, in un'occasione parteciparono anche Antonia e Maria.

La maggior parte delle poesie non sono a versi liberi, ma organizzate secondo le regole della metrica e della rima.


***

Le prime due sono composte da due ottave, di versi endecasillabi. Nei primi sei versi la rima è alternata, baciata negli ultimi due.

Questa la prima strofa della prima poesia:

Le nuove tue, carissima Teresa
Ancor non mi fur date sta mattina
E le aspetto con l'anima sospesa.
Hai preso una purgante medicina?
O un zic facesti, od altra parte hai offesa?
O sol guaristi coll'antipirina?
O forse ancor guarita tu non sei?
Ma sì ch'io sto tu stia io non vorrei.
...






 ***

Nella terza e nella quarta poesia, quella scritta a più mani, i versi sono di otto sillabe (ottonari) Le rime sono alternate nel terzo componimento, baciate nel quarto.


Della terza poesia vi presento l’ultima strofa. Piuttosto  comica, parla degli effetti dello “zic”, già citato nella precedente, che presumo  sia il clistere, a cui Vittorio si era dovuto sottoporre per un’indigestione da gnocchi di cui era rimasto vittima:








Ah! Che zic tremendo io feci!
Ah!che male ho mai provato!
E ne ho fatta poi per dieci;
O Dio quanto sono andato!






***
 
La quarta è una  lettera in versi che Antonia, Maria e Vittorio dedicano a Teresa. È  uno scherzoso canto d'amore, composto da otto quartine, ciascuna della quali in rima baciata. I tre “poeti” non firmano la lettera, ma la attribuiscono ad un’altra persona. Fra parentesi, alla fine del testo, scrivono infatti: “Gli autori fingono che questa lettera sia scritta dal  signor Mon ...”
 

Eccone l'ultima strofa, la più audace:






...
Nulla d'altro al mondo io bramo,
Che lei sola, e le richiamo
Se non troppo le son gramo.
Ah! Mi lasci dir che l'amo!

 














***


La quinta poesia è quasi un poemetto: sessantasei versi ottonari, in rima baciata a due a due, a partire dal secondo. Il primo verso - “O Teresa, mio tesor” - è in rima con l'ultimo - “Questo nodo in noi d'amor”.
Vittorio e Teresa si sono ripresi dalla malattia e lui, scrivendole, le ricorda il piacere e la consolazione che aveva provato nel ricevere le sue lettere.
Dal testo si scopre che i due cugini, in coppia,  erano impegnati a preparare un pezzo al pianoforte, a otto mani. L'altra coppia era composta dalla zia Maria, presumibilmente Bozzotti (4), sorella della mamma di Vittorio, e dalla cugina Pia, figlia dello zio Ercole Gnecchi.

Il riferimento alla musica può essere interessante, data la carriera di compositore poi intrapresa da Vittorio. Per questo  motivo, trascrivo il brano:



Vittorio Gnecchi Ruscone in costume da antico romano
Or la sorte o il caso volle
che a sonar (senza un bemolle
né anco un diesis) scelti siamo
Ché davvero ben suoniamo
Colla nostra zia Maria
Ed insieme colla Pia
Per la marcia ad otto mani
Facciam parte dei due piani.
Così tanto ben di spesso
Alla sera ci è concesso
Di trovarci noi due insieme
Per provar se viene bene
Quel gran pezzo, che mi pare
Finirem per non sonare.
Ma non credere per questo
Che si scioglierà sì presto
Questo nostro abbonamento
Fu la marcia il fondamento,
Fu essa il germe, essa fu il seme
Del suonare noi due insieme.
Speriam dunque ardentemente
che la sorte ponga mente
Od in caso sempre voglia
che in eterno non si scioglia
Questo nodo in noi d'amor.

 ***
 
La sesta poesia, meno precisa nella metrica e nella rima, è dedicata a Elena dai sedicenti poeti, Teresa, Maria, Rino e Vittorio.
Incontriamo così due nuovi personaggi: Elena, che dovrebbe essere la figlia di Ercole, coetanea del cugino Vittorio, e  Rino, ovvero Cesare Gnecchi, fratello minore di Vittorio.

Elena era partita per un periodo di vacanza sul Verbano e i cugini le dedicarono questa sentimentale ma ironica poesia, che alterna all'italiano espressioni in francese, in inglese e in dialetto milanese.

Questa la terza ed ultima strofa:

...
Comme podem connsoulass
Mentre où sei andata a spass?
A pensar que a noi non pensi
Comment donc ai nostri sensi
Podemm cred, o dear Eléna
Où sì bella, sì serena
Deh! Reviens qui presto a cà
Pour tuoi [?] consoulà.

 


***
L’ultima poesia della prima parte, la settima, non essendoci indicazioni di altri coautori, dovrebbe essere stata scritta dal solo Vittorio Gnecchi.
 

È composta da 11 versi, ottonari. Le rime seguono lo schema: ABAAB ABABAB.
Scritta in prima persona al femminile, parla degli stati d’animo della protagonista che attende l’arrivo dell’innamorato: l’ansia, quando lui ritarda – “io mi sento già morire” –, la gioia, quando finalmente arriva – “O che gioia; son consolata,/sento il sangue ribollire,/e mi sento innamorata”.
 

 PER COMPLETARE LA LETTURA  CLICCA SU "CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO" 

SECONDO PERIODO, 1891

La seconda parte della raccolta, che comprende nove testi, inizia con due poesie dedicate ad Antonia Brini, che con la mamma Amalia è partita per Salsomaggiore,  per una vacanza o, più probabilmente, per un ciclo di cure termali..

La prima, di 58 versi, senza rima e con metrica incerta, è stata scritta da Vittorio, ormai quindicenne, che sembra sinceramente innamorato della cugina.

Il “canto” si apre con un’esclamazione - “Antonia mia! D’ogni color tu sei!” – preludio della  descrizione di questi colori:

D’oro i tuoi crini fur, sono e saranno
Che ondeggiano sulle spalle tue
Come i flussi di un pelago d’inchiostro.
Il viso tuo è del color di rosa
Come suppongo pur tutto sarà
Quello che agli occhi miei cela il pudore.


Segue un lungo lamento, che suona, per la verità, un po’ esagerato, per la separazione a cui i due cugini sono costretti:


Come potrò più a lungo star negletto
In queste patrie mura abbandonato
Dagli occhi tuoi, dal mio più gran tesoro?
Come potrò sfuggire la crudele morte
Che tetra su di me piombar minaccia
Senza quel soffio arcano, mia delizia,
Che vien da te, vita mi dà e vigore?






 



Poi è il momento di invocare il ritorno:


Oh! Fa ritorno al tuo paterno tetto
Torna a Milano a rivedere il cielo
Che ricoprì le tenere tue membra
Col suo azzurrino manto generoso
Quando tu apristi per la prima volta
Le belle luci e contemplasti il sole!


Struggente il finale , in cui il nostro poeta ricorda il momento della partenza:


Non appena si mosse il tren veloce
Che seco (infame!) t’ha portata via
Che già per lutti il sol si nascondia
Dietro alle nubi fosche e nere e tetre,
Già il ciel di pianto mondava la terra
Ed io negletto e solo e sconsolato
Nel mio strazio crudel m’abbandonai
E accompagnai con un’ultima lagrima
Il palpitante ultimo mio sospiro.

 

 ***


Anche nel secondo componimento, in rima baciata, dedicato alla partenza di Antonia non mancano lacrime e sospiri, ma qui il tono è apertamente ironico.
Presentato, nell’intestazione,  come poema di Teresa e Maria Brini e Vittorio Gnecchi, è intitolato:
“Al Regno de’ Cieli” e suddiviso in tre capitoli: “Dolore!”, “Conforto!” e “Consolazione!”.

Il primo – Dolore! – tratta del momento della partenza: “Trema la terra e il cielo, piangono tutti i cuori, perché l’Antonia partesi dai suoi più grandi amori!”.

Simpatica la scenetta di Antonia che, scesa dal letto, si veste:
...
Scuote le pigre coltri la povera Antonietta
E scende dal giaciglio, e infila la calzetta;
Cambia la sua camicia e mette il sottanino
Ed a lavar sen corre il roseo suo visino.
Poi stringe la fascetta con tutta la sua forza
E per lo vento ch'escene il muccettin si smorza.
...


Drammatica la descrizione della partenza:

...
Con singhiozzi infiniti con lagrime e sospiri
Ciascuno porse all'Antonia i migliori desiri;
E abbracciatala tutti per l'ultima volta
La videro partire, da loro, ahimè!, disciolta.
… 


Per trovare  “Conforto!”, i tre ragazzi abbandonati si rivolgono ad Afrodite, dea dell'Amore, e la pregano di  proteggere la loro sorella e cugina e di asciugare le  lacrime che ella certamente stava spargendo per la loro lontananza:

 ...
Deh! Pietosa proteggi la nostra amica ingrata
Che sebben sia fuggita, da noi pur sempre è amata!
Tu seguila per gli erti e sassosi sentieri
E guida il lesto passo dei focosi destrieri.
Né lasciar che si diano indomati alla fuga;
Tu se l'Antonia piange le lacrime le asciuga”.


La dea, che non  rimane insensibile alle loro “melodiose voci contrite dal dolore”,  gli appare sopra una nuvoletta, li fa salire sul suo carro cosparso di rose che, trainato da candidi cavalli, sale nel cielo. Da qui  li invita a guardare ...

… quell'astro rozzo, brutto e rotondo
Che men degli altri splende: ebbene quello è il mondo.
Guardate come spiccano or sporgenti or ritrosi
D'uno stivale i lidi sui mari burrascosi.
In alto una gran valle , da un fiume attraversata
E da cime nevose il capo coronata;
Per là scorre veloce un fumante vapore:
Quello porta l'Antonia fino a Salsomaggiore
E se guardate bene da un picciol finestrino
Vedrete ch'essa sporge il caro suo testino



Grande “Consolazione!” – e siamo alla terza parte del poema -  per Teresa, Maria e Vittorio – Oh! Dolce voluttade! Oh! Gioia senza pari! - è rivedere l'amica, seguirla fino all'arrivo alla stazione e notare, addirittura, le lacrime sul suo volto, sparse, ovviamente, per la loro lontananza.

Da qui “a lento e mesto passo” madre e figlia si avviano all'albergo dove finalmente  possono “saziare il loro tremendo appetito”.

A questo punto, il miracolo:
...
Così d'Antonia e Amalia il gran dolor svanì
Quando a lor di risotto un piatto si servì
Ma come lupe indomite che dopo il pasto han fame
Ancor più di prima, così ancor del salame
Le due compagne chiesero, e un poco di giambone
Per finire in tal modo meglio la colazione.


Rifocillata dal cibo, Antonia si reca in bagno per una  “toiletta gradita”, e i tre ragazzi la sbirciano dal finestrino aperto:






 …
L'Antonietta gentile il collo ha già scoperto,
Senza pensar che sopra un finestrino è aperto
Da cui vederla possono e cugini e sorelle
Che la guardano attenti dal regno delle stelle.
Essa leva le calze e le getta per terra;
Con uno sforzo immenso il busto si disserra
Che già tanta fatica per allacciar costolle;
Ambizione che a taluno pare talvolta folle.
Levato infine il resto, nell'acqua si tuffò
E pria di ogni altra cosa il casto sen lavò.
Vittorio a quella vista, offeso nel pudore,
Levò le mani al viso, coperto di rossore;
Ma fra un ditino e l'altro lasciando un forellino
Poté veder l'Antonia immersa nel bagnino.
Ma tosto, ahi dura sorte! l'Antonia si vestì
Poi con veloce passo dal camerino uscì.

...

***

I tre testi (X. XI e XII) successivi sono esercitazioni scolastiche che il giovane Gnecchi compone quando frequenta la quarta ginnasio.
Le prime due sono poesie di argomento classico intitolate, in ordine, “Atene dopo la battaglia di Egospotamo” e “Morte di Epaminonda”; la terza è la traduzione di una parte del dialogo fra Menalco e Mopso, ossia della V elegia delle Bucoliche di Virgilio.


***
 O Musa ispirami
Dolce, soavissimo
Canto d'amor!
Imprimi tu i caratteri sulla dorata carta
E il tuo sublime genio infila noi nel cuor
Siccome infila l'ago la laboriosa sarta
E la Musa, così appassionatamente invocata, ispira al nostro poeta il canto intitolato "Sogno”: il  sogno che  la cugina Elena, un'altra volta ancora, lontana da Milano, avrebbe fatto durante “ … un bel sonno placido / che ancor non era stato/ da inopportuno strepito/ né rotto né turbato/...” .

A Elena appare un cavaliere, su un focoso destriero, con una splendida corazza d'acciaio, una rosa sulla spalla e una lancia in mano. Che sarà venuto a fare, a darle “un bel bacino”? … Macché, le porta un bigliettino dei soliti cugini, Antonia, Teresa, Maria e Vittorio, disperati per la sua lontananza.

Sul biglietto, questo sonetto:

Come durante l'inverno frigore
in una tana sta la talpa ascosa
ed esce solo da tal sosta ombrosa
Quando v’apporta il sol luce e calore,

Così stettero immersi nel dolore
In questa di Milan città noiosa
Quattro cugini tuoi, che senza posa
Piangevano il lontan lor grande amore.

Questi affranti mortali siamo noi,
Che aspettiamo con ansia il bel ritorno
Di quell’astro d’amor che i raggi suoi

Spanda pietoso ovunque a sé d’intorno:
e quest’astro d’amor siete voi
Nena bella, e gentil luce del giorno!


 ***
Una lunga  lettera di Arlecchino, ammalato,  a Pierrot è il quattordicesimo capitolo di questo nostro quaderno.
Nella prima parte Arlecchino, pur non risparmiandogli  frecciate sulla  sua passione per il vino, esprime a Pierrot tutta la sua gratitudine per l'amicizia che gli dimostra. Un'amicizia così generosa che neanche era scalfita dal fatto che fra Arlecchino e la moglie dell'amico c’era stata una tresca amorosa - “sebbene di tua moglie stato già fossi amante”.

Tranquillizzato l'amico sulla natura non grave della malattia, che lo costringeva a letto da ben sette giorni- “non creder già che fosse l'asma o la difterite/non già la tifoidea; neppur la polmonite/ per certo no la peste; forse nemmen la tosse/ e le guance mi pare non fosser tanto rosse/ da poter dir che avessi o felse o scarlattina” -,  gli confessa quale ne era stata  la vera causa: la sua passione per la polenta.


Fu, t’el dirò in segreto,  … un po’ d’indigestione.
Tu sai quale diletto nel mio cuorino pone
L’empirmi un po’ lo stomaco, e specialmente poi
Quando lo sento vuoto: ciascuno ha i gusti suoi,
Bisogna compatirli. Ebbene, un certo giorno,
Tornando da un passeggio, volsi lo sguardo intorno
Onde cercar qualcosa da ristorar le forze
Che pel digiuno e i passi s’erano affatto smorze.
Allor con mio gran giubilo, fra la puzza del vino
Delle sporche osterie, un piccolo botteghino
S’offerse agli occhi miei di cose da mangiare
In cui una  grande pentola vedevasi fumare.
Cosa sarà là dentro? Tosto mi domandai,
E la curiosità, che sol poco domai,
Mi spinse quel coperchio un pochino ad aprire
Guardai là dentro e vidi … (ahi! sentomi venire
Solo a pensarci adesso in bocca l’aquolina!)
E vidi una polenta … t’assicuro: “divina”!
Tu ti puoi immaginare con qual gusto e appetito
Mangiai quella scodella e la raspai col dito
Le conseguenze poi … puoi pure immaginare;


Una bella indigestione causata dalla polenta, verso la quale però Arlecchino non serba rancore tanto che le dedica le strofe finali della poesia:




Ma credi mio Pierrot che in quei tremendi istanti
Vidi quant’ero sciocco, fra i desideri santi,
D’aver anche sperato finir la vita mia
Con un’indigestione di polenta natia
[ … ]
Parmi star meglio, e parmi già ch’io senta                       
Gran voglia di mangiare ancora della polenta


Polenta che, del resto, secondo Arlecchino, non era la vera colpevole della sua indigestione:


Ma, in fondo, credi a me,che la colpa maggiore
Del morbo mio fu proprio di quel cretin dottore.


***

Nei primi versi della penultima poesia, Vittorio, parlando di sé in terza persona, descrive l’estasi provata quando, seduto in cima a una collina, stava a contemplare “ la valle, i boschi, i prati, il ciel tinto di rosa”.   
 




Uno stato d’animo che però improvvisamente si tramuta in tristezza, quando il suo sguardo si posa sopra un fiore, un fiore particolare:
 …
Quel fiore era una viola che fra l’erbe germoglia,
Che del pensier si noma, ed a pensar n’invoglia

 

Una viola del pensiero dunque, che lo porta con il ricordo ad “…un’ora/ che fu la più beata dei suoi passati dì/ …”, quando, in un prato tempestato di fiori, fra cui le viole del pensiero, aveva ricevuto un castissimo bacio da ognuna delle tre cugine, Antonia, Teresa e Maria:


Sporgendo le guancie (sic) alle gentil bocchine,
Ricevette tre baci dalle sue tre cugine.
Quale ineffabil gaudio, quale soave ebbrezza!
Quanta in quei cari baci egli provò dolcezza!
Ecco come la viola che nei prati germoglia,
Che del pensier si noma, ed a pensar n’invoglia
Sempre rammenta a lui quell’ora che è passata,
che della vita sua fu l’ora più beata!


***

Piove. Tetra la nebbia stende il suo folto velo
Su la misera terra; grigio ed oscuro il cielo
Di spandere non cessa neppure un solo istante
L’acqua  noiosa sua, dirotta ed abbondante


Con un tempo così non resta al nostro poeta che dedicarsi alla scrittura e così compone, in versi, una commedia in un atto dedicata a una certa Sandrina, forse un’altra cugina, l’ultimo pezzo della nostra raccolta.
 

Il titolo è  “ ’Ss’hai fatto, Tullo? …”. I personaggi, reali, sono: la signorina, il suonatore, Vittorio, la signora, Luigino.
La scena si svolge in una sala della villa di Verderio,  come si apprende dall’ introduzione:

La scena rappresenta di Verderio una sala,
su un tavolo stan pronti il vermouth e il marsala.
Un piano da una parte, vicino un tabouret,
Nel mezzo, contro al muro, riposa un canapè.
È facile pensare quale sia la sala,
Sebbene là di solito non sia pronto il marsala.
La lampada s’è spenta (siccome già il Luigino,
È il vizio suo, non sa tagliare lo stoppino).
Fra le tenebre fitte al piano un sonatore
Suona l’ “ahimè non giunge” in ton di fa minore


La “signorina”, allegra ed eccitata, fa irruzione nella  sala buia,  dove crede che  Vittorio, al pianoforte,  stia suonando l’aria "ahimè non giunge”, tratta da “La Sonnambula”di Bellini e annuncia con gioia l’arrivo di Tullo, in divisa da ufficiale.
Sennonché, al pianoforte non c’è Vittorio, bensì il “suonatore”, che  cerca di chiarire la situazione ma rimane inascoltato e riceve insulti e sgarberie della inconsapevole signorina.
L’equivoco dura finché Luigino, il domestico, non riaccende la lampada.
Dell’imbarazzo della signorina  approfitta il suonatore che, per accettare le scuse, esige di essere baciato. Proprio sul più bello, come da tradizione, entrano nella sala Vittorio e la “ signora” che, scandalizzata, dà in escandescenze  e caccia suonatore e signorina. Questa però trascina con sé Vittorio, che la segue cantando allegramente.
 

Poi “Cala la tela” senza che niente si sia saputo di Tullo, che pure ha dato il nome alla commediola.


Vittorio Gnecchi Ruscone (5)
***


Così termina la raccolta delle “prime” poesie di Vittorio Gnecchi Ruscone.
Ne saranno seguite altre? Saranno conservate o, magari, saranno addirittura state pubblicate?
Non lo so, ma queste domande  mi incuriosiscono molto. Se qualcuno, informato, mi aiutasse  a dar loro una risposta, gliene sarei molto grato.















 NOTE
(1) – Fondo Famiglia Gnecchi Ruscone, Carte Vittorio Gnecchi Ruscone, Poesie, 1.3.10.3
 

(2) Altri articoli contenuti in questo blog, riguardanti Vittorio Gnecchi Ruscone, si possono trovare cliccando sull’omonima etichetta  o a questo indirizzo: https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/search/label/Vittorio

(3)  Per queste notizie ho fatto riferimento all’albero genealogico della famiglia Gnecchi Ruscone, che ho ricevuto in dono alcuni anni fa dal signor Carlo Gnecchi Ruscone. Non sono però riuscito a individuare con certezza  la figura di Maria Brini.
 

(4) Di Maria Bozzotti si parla, in questo blog, nell’articolo dedicato alla rappresentazione a Verderio  di “Virtù d’Amore”, la prima opera di Vittorio Gnecchi, di cui lei scrisse il libretto (https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2016/06/festa-verderio-il-7-ottobre-1896-la.html). 
Notizie su di lei anche in un articolo dedicato alle esperienze teatrali nell’ambito della famo[i]glia Gnecchi Ruscone: https://bartesaghiverderiostoria.blogspot.com/2016/06/in-casa-dei-nonni-di-erminio-bozzotti-e.html#more

(5) Volantino di presentazione dell'esecuzione della Missa Salisburgensis di Vittorio Gnecchi Ruscone, avvenuta a Verderio Superiore, nella chiesa parrocchiale dei santi Giuseppe e Floriano, il 27 ottobre 2006.

 Marco Bartesaghi

Nessun commento:

Posta un commento