venerdì 14 febbraio 2014
COSE E PERSONE IN DUE VECCHIE IMMAGINI DELLA "VIA LARGA" di Marco Bartesaghi
Difficilmente un’immagine d’epoca ha niente da dirci.
Anche se misera di dettagli, piccola, malfatta e di difficile datazione, ci può raccontare qualche particolare sul luogo che rappresenta: qualcosa che c’era e non c’è più o, al contrario, qualcosa che vediamo quotidianamente e che, invece, non c’era ancora.
Se nella fotografia ci sono persone, possiamo notare come si vestivano o si coprivano il capo; come si pettinavano o truccavano e così via .
Se ci va molto bene, se, ad esempio, qualcuno ha avuto, a suo tempo, l’idea di scrivere i nomi, o abbiamo la fortuna di conoscere chi ricorda i volti, delle persone rappresentate riusciamo anche a conoscere le identità. Ma questo è ben difficile … anche se qualche volta ….
Le due immagini che vi voglio presentare non sono del tipo sopra descritto. Sono due belle immagini della via Larga, oggi via Roma, di Verderio Inferiore: ricche di dettagli, molto profonde e popolate di persone.
Sono state scattate più o meno dalla stessa posizione, ma in tempi diversi: la foto n.1, più vecchia, risale a prima della II guerra mondiale. La n.2. è più recente, ma non di molto: una cartolina con questa immagine, pubblicata sul libro di Rino Tinelli “Un saluto da Trezzo e dintorni”, è stata spedita nel novembre del 1950.
Osserviamole e confrontiamole, fra loro e con altre fotografie, in particolare con una a colori (n.3) scattata dallo stesso punto.
LE COSE
Nell'immagine n.1, in primo piano, sulla destra, all’imbocco del viale d’ingresso alla “palasina” - come era comunemente conosciuta la villa oggi dei signori Mattavelli, all’inizio del novecento dei Sottocornola – si nota un muro a merlatura ghibellina, cioè a coda di rondine. Già nella fotografia n.2 questo particolare si era perso.
Il lato sinistro della strada, per qualche decina di metri è uguale nelle tre fotografie. Anche il lato destro, sostanzialmente, se si tralasciano alcuni elementi “nuovi”: finestre, semafori.
Tornando al lato sinistro, in entrambe le vecchie foto si nota un muro di cinta che delimitava un area verde, coltivata a vigna e ad alberi da frutta, che si vede in primo piano nell’immagine n.4.
Quest’area in seguito è stata ampiamente edificata. Se nel farlo si fosse usata un po’ più di saggezza, la chiesa parrocchiale potrebbe avere un sagrato meno angusto di quello che ha.
Un grande albero, presente nelle due vecchie immagini, occupava l’area dove oggi è insediato il monumento ai caduti.
Assente nella più vecchia, nell’immagine più recente (foto n.2) si intravvede una torre: era l’acquedotto, poi sostituito da un manufatto in cemento armato, abbattuto recentemente.
LE PERSONE
In entrambe le fotografie, la scena è occupata da molte persone , alcune delle quali sanno di essere fotografate e forse sono convenute apposta per farsi riprendere.
La foto n.1 è più vivace e movimentata. Un gruppo di persone in posa in primo piano, sta per essere raggiunto da una ragazza, o una giovane donna, che avanza velocemente sulla sinistra per non mancare all’appuntamento.
L'immagine n. 2 è meno vivace. Due sole persone in primo piano sulla sinistra e una sulla destra intenta alla pulizia della strada.
Arretrato di una quindicina di metri, un gruppo di persone che sa di essere ripreso e rivolge lo sguardo all'obiettivo. Il resto della strada è vuoto.
LE IDENTITÀ DI ALCUNI PERSONAGGI
Per ragioni che non sto a raccontare, ho fatto avere le due fotografie all'architetto Giancarlo Consonni che, dopo averle viste mi ha scritto questa mail:
“Grazie per le fotografie, sono bellissime. Un paio mi sono poi particolarmente care.
In quella più antica (foto n.1)- di prima della guerra -compare mio nonno, Carlo Consonni (che aveva appena aperto, nel 1926, l'Osteria San Giuseppe e che morirà giovane, nel 1941) e Genoveffa Consonni in Barelli (la mamma di Suor Carla, a cui hai dedicato un servizio sul tuo blog).
Nell'altra (foto n.2), nel punto in cui nella foto precedente compariva mio nonno, c'è mia nonna Emilia, detta Milina, e mio zio Pasquale Barelli (detto Melònia, padre di Suor Carla).
In mezzo alla via Roma le due donne che conversano sono mia mamma (Bianca Burchietti, col vestito bianco) e mia zia Maria (sposata a Marino Consonni, macellaio)”.
Le informazioni di Giancarlo Consonni sono preziose perché arricchiscono di molto il valore documentario delle due immagini. I personaggi riconosciuti non sono tutti quelli che appaiono, ma sono i principali.
Anche degli altri, magari, si riuscirà a risalire all'identità: se qualcuno dovesse riconoscerli, per favore, me lo faccia sapere.
Marco Bartesaghi
Anche se misera di dettagli, piccola, malfatta e di difficile datazione, ci può raccontare qualche particolare sul luogo che rappresenta: qualcosa che c’era e non c’è più o, al contrario, qualcosa che vediamo quotidianamente e che, invece, non c’era ancora.
Se nella fotografia ci sono persone, possiamo notare come si vestivano o si coprivano il capo; come si pettinavano o truccavano e così via .
Se ci va molto bene, se, ad esempio, qualcuno ha avuto, a suo tempo, l’idea di scrivere i nomi, o abbiamo la fortuna di conoscere chi ricorda i volti, delle persone rappresentate riusciamo anche a conoscere le identità. Ma questo è ben difficile … anche se qualche volta ….
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Le due immagini che vi voglio presentare non sono del tipo sopra descritto. Sono due belle immagini della via Larga, oggi via Roma, di Verderio Inferiore: ricche di dettagli, molto profonde e popolate di persone.
Sono state scattate più o meno dalla stessa posizione, ma in tempi diversi: la foto n.1, più vecchia, risale a prima della II guerra mondiale. La n.2. è più recente, ma non di molto: una cartolina con questa immagine, pubblicata sul libro di Rino Tinelli “Un saluto da Trezzo e dintorni”, è stata spedita nel novembre del 1950.
Fotografia n.1 |
Fotografia n.2 |
Osserviamole e confrontiamole, fra loro e con altre fotografie, in particolare con una a colori (n.3) scattata dallo stesso punto.
Fotografia n.3 |
LE COSE
Nell'immagine n.1, in primo piano, sulla destra, all’imbocco del viale d’ingresso alla “palasina” - come era comunemente conosciuta la villa oggi dei signori Mattavelli, all’inizio del novecento dei Sottocornola – si nota un muro a merlatura ghibellina, cioè a coda di rondine. Già nella fotografia n.2 questo particolare si era perso.
Il lato sinistro della strada, per qualche decina di metri è uguale nelle tre fotografie. Anche il lato destro, sostanzialmente, se si tralasciano alcuni elementi “nuovi”: finestre, semafori.
Particolare foto n.1 |
Tornando al lato sinistro, in entrambe le vecchie foto si nota un muro di cinta che delimitava un area verde, coltivata a vigna e ad alberi da frutta, che si vede in primo piano nell’immagine n.4.
Fotografia n.4 |
Un grande albero, presente nelle due vecchie immagini, occupava l’area dove oggi è insediato il monumento ai caduti.
Particolare foto n.2 |
Assente nella più vecchia, nell’immagine più recente (foto n.2) si intravvede una torre: era l’acquedotto, poi sostituito da un manufatto in cemento armato, abbattuto recentemente.
LE PERSONE
In entrambe le fotografie, la scena è occupata da molte persone , alcune delle quali sanno di essere fotografate e forse sono convenute apposta per farsi riprendere.
Particolare foto n.1 |
Particolare foto n.1 |
La foto n.1 è più vivace e movimentata. Un gruppo di persone in posa in primo piano, sta per essere raggiunto da una ragazza, o una giovane donna, che avanza velocemente sulla sinistra per non mancare all’appuntamento.
Il resto della strada, fino all’imbocco di via Tre Re, è popolato di gente indifferente all’evento fotografia, che anzi si muove in senso opposto, come alcune donne sulla destra che procedono tenendosi a “braccetto”. Forse è un azzardo dirlo, ma sembrerebbe trattarsi di un giorno festivo, una domenica.
Le donne a "braccetto" in un particolare della foto n.1 |
L'immagine n. 2 è meno vivace. Due sole persone in primo piano sulla sinistra e una sulla destra intenta alla pulizia della strada.
Arretrato di una quindicina di metri, un gruppo di persone che sa di essere ripreso e rivolge lo sguardo all'obiettivo. Il resto della strada è vuoto.
LE IDENTITÀ DI ALCUNI PERSONAGGI
Per ragioni che non sto a raccontare, ho fatto avere le due fotografie all'architetto Giancarlo Consonni che, dopo averle viste mi ha scritto questa mail:
“Grazie per le fotografie, sono bellissime. Un paio mi sono poi particolarmente care.
In quella più antica (foto n.1)- di prima della guerra -compare mio nonno, Carlo Consonni (che aveva appena aperto, nel 1926, l'Osteria San Giuseppe e che morirà giovane, nel 1941) e Genoveffa Consonni in Barelli (la mamma di Suor Carla, a cui hai dedicato un servizio sul tuo blog).
Carlo Consonni e Genoveffa Consonni in Barelli |
Nell'altra (foto n.2), nel punto in cui nella foto precedente compariva mio nonno, c'è mia nonna Emilia, detta Milina, e mio zio Pasquale Barelli (detto Melònia, padre di Suor Carla).
Emilia, detta Milina, e Pasquale Barelli |
In mezzo alla via Roma le due donne che conversano sono mia mamma (Bianca Burchietti, col vestito bianco) e mia zia Maria (sposata a Marino Consonni, macellaio)”.
Bianca Burchietti, a sinistra, e "zia" Maria |
Le informazioni di Giancarlo Consonni sono preziose perché arricchiscono di molto il valore documentario delle due immagini. I personaggi riconosciuti non sono tutti quelli che appaiono, ma sono i principali.
Anche degli altri, magari, si riuscirà a risalire all'identità: se qualcuno dovesse riconoscerli, per favore, me lo faccia sapere.
Marco Bartesaghi
CI VUOLE O NO L'ACCENTO? GRAVE O ACUTO? MA QUAL È QUELLO GRAVE? di Marco Bartesaghi e ...
Se aveste un amico appassionato di grammatica italiana, potrebbe capitare anche a voi, come è capitato a me, di passare qualche mezz’ora del primo dell’anno a discutere delle regole per segnare gli accenti sulle parole (la sua passione nella passione) e trovare, alla fine, che l’esperienza, oltreché anomala, sia stata divertente, e forse utile.
Perché proprio gli accenti? Perché nella scuola, secondo lui, l’argomento è tradizionalmente trascurato e viene perlopiù risolto insegnando ad apporre una piccola, ibrida mezzaluna o “scodellina” sulla vocale da accentare.
Basterebbe invece, sempre secondo lui, trasmettere alcune, poche e chiare regole in grado di risolvere tutti i casi che si possono incontrare durante la scrittura.
Ora, da alunno che ha ascoltato la lezione, cercherò di ripeterla con precisione, chiedendo solo un po’ di pazienza, ma non troppa….
Il problema si pone quando è obbligatorio indicare l’accento grafico (per es. nelle parole tronche con due o più sillabe: città, giovedì, lassù, parlò, perché…). L’accento può essere GRAVE o ACUTO e bisogna sapere quale usare.
ACCENTO GRAVE: indica un timbro/suono aperto della vocale su cui cade ed è inclinato da sinistra verso il basso:
̕1) La vocale a ha sempre suono aperto e quindi vuole sempre l’accento grave: città, papà…
2) La vocale i e la vocale u hanno sempre suono chiuso e quindi vorrebbero sempre, a rigore, l’accento acuto, ma solo poche case editrici lo utilizzano, mentre è entrato nell’uso anche per queste vocali l’accento grave (non essendovi possibilità di equivoco fra suono aperto e chiuso): giovedì, partì… lassù, virtù…
3) La vocale o può avere suono aperto e quindi volere l’accento grave oppure suono chiuso e quindi volere l’accento acuto. Tuttavia, per nostra… fortuna, in finale di parola, nei casi in cui l’accento grafico è obbligatorio, il suono è sempre aperto e dunque l’accento è sempre grave: parlò, rococò…
4) La vocale e può avere suono aperto e quindi volere l’accento grave oppure suono chiuso e quindi volere l’accento acuto. Tuttavia, per nostra fortuna o… quasi, in finale di parola, nei casi in cui l’accento grafico è obbligatorio, il suono è… quasi sempre chiuso e dunque l’accento è… quasi sempre acuto: né, perché… Vi sono solo poche eccezioni, parole con la e finale aperta e dunque accento grave: è (voce del verbo essere), cioè, tè, caffè, piè (di pagina)…
Il discorso è stato lungo, ma si sarà capito che la conclusione pratica è breve, e semplice, come dice il mio amico, e io con lui, e potrebbe essere insegnata sin dalle scuole elementari, eliminando la “scodellina” di cui sopra, comoda nella scrittura a mano, ma… inesistente in grammatica, e nei nostri computer. In un’ora di lezione, con esempi più numerosi e più divertenti dei miei, anche i bambini potrebbero imparare e ricordare per sempre una regola molto logica e molto facile.
RIASSUMENDO
A fine parola, quando è obbligatorio, sulle vocali a, i, u, o si deve mettere l’accento grave: città, giovedì, lassù, parlò…
A fine parola, quando è obbligatorio, sulla vocale e si deve mettere l’accento acuto: né, perché…, tranne in poche eccezioni, che vogliono l’accento grave: è, cioè, tè, caffè, piè…
Più breve di così…
P.S. Terminato l'articolo, l'ho fatto leggere all'anonimo amico, affinché lo correggesse e sistemasse. Il risultato che avete letto è più farina del suo sacco che del mio. M.B.
Perché proprio gli accenti? Perché nella scuola, secondo lui, l’argomento è tradizionalmente trascurato e viene perlopiù risolto insegnando ad apporre una piccola, ibrida mezzaluna o “scodellina” sulla vocale da accentare.
Basterebbe invece, sempre secondo lui, trasmettere alcune, poche e chiare regole in grado di risolvere tutti i casi che si possono incontrare durante la scrittura.
Ora, da alunno che ha ascoltato la lezione, cercherò di ripeterla con precisione, chiedendo solo un po’ di pazienza, ma non troppa….
Il problema si pone quando è obbligatorio indicare l’accento grafico (per es. nelle parole tronche con due o più sillabe: città, giovedì, lassù, parlò, perché…). L’accento può essere GRAVE o ACUTO e bisogna sapere quale usare.
ACCENTO GRAVE: indica un timbro/suono aperto della vocale su cui cade ed è inclinato da sinistra verso il basso:
à
ACCENTO ACUTO: indica un timbro/suono chiuso della vocale su cui cade ed è inclinato da destra verso il basso:
é
̕1) La vocale a ha sempre suono aperto e quindi vuole sempre l’accento grave: città, papà…
2) La vocale i e la vocale u hanno sempre suono chiuso e quindi vorrebbero sempre, a rigore, l’accento acuto, ma solo poche case editrici lo utilizzano, mentre è entrato nell’uso anche per queste vocali l’accento grave (non essendovi possibilità di equivoco fra suono aperto e chiuso): giovedì, partì… lassù, virtù…
3) La vocale o può avere suono aperto e quindi volere l’accento grave oppure suono chiuso e quindi volere l’accento acuto. Tuttavia, per nostra… fortuna, in finale di parola, nei casi in cui l’accento grafico è obbligatorio, il suono è sempre aperto e dunque l’accento è sempre grave: parlò, rococò…
4) La vocale e può avere suono aperto e quindi volere l’accento grave oppure suono chiuso e quindi volere l’accento acuto. Tuttavia, per nostra fortuna o… quasi, in finale di parola, nei casi in cui l’accento grafico è obbligatorio, il suono è… quasi sempre chiuso e dunque l’accento è… quasi sempre acuto: né, perché… Vi sono solo poche eccezioni, parole con la e finale aperta e dunque accento grave: è (voce del verbo essere), cioè, tè, caffè, piè (di pagina)…
Il discorso è stato lungo, ma si sarà capito che la conclusione pratica è breve, e semplice, come dice il mio amico, e io con lui, e potrebbe essere insegnata sin dalle scuole elementari, eliminando la “scodellina” di cui sopra, comoda nella scrittura a mano, ma… inesistente in grammatica, e nei nostri computer. In un’ora di lezione, con esempi più numerosi e più divertenti dei miei, anche i bambini potrebbero imparare e ricordare per sempre una regola molto logica e molto facile.
RIASSUMENDO
A fine parola, quando è obbligatorio, sulle vocali a, i, u, o si deve mettere l’accento grave: città, giovedì, lassù, parlò…
A fine parola, quando è obbligatorio, sulla vocale e si deve mettere l’accento acuto: né, perché…, tranne in poche eccezioni, che vogliono l’accento grave: è, cioè, tè, caffè, piè…
Più breve di così…
P.S. Terminato l'articolo, l'ho fatto leggere all'anonimo amico, affinché lo correggesse e sistemasse. Il risultato che avete letto è più farina del suo sacco che del mio. M.B.
giovedì 13 febbraio 2014
ROBBIATE: NOTIZIE STORICHE (prima parte) di Maria Fresoli
Il testo che segue è tratto dal libro "ROBBIATE. Viaggio tra fede e umane vicende a cura di Maria Fresoli", in parte già pubblicato su questo blog e rintracciabile sotto le etichette Robbiate e Maria Fresoli.
Il brano iniziale, fra virgolette, è stato scritto da don Alessandro Villa (1816-1889), parroco di Robbiate dal 1848, e fa parte di un opuscolo, da lui scritto, intitolato "Di Robbiate e specialmente della Beata Vergine del Pianto". M.B.
ROBBIATE: notizie storiche
Stemmi di Robbiate - Codice Cremosano 1600 |
“La Brianza che in altre parti brilla per avventura di più attillata eleganza, e coi limpidi laghetti, coi cristallini ruscelli, coi dolci clivi, coi simmetrici viali tappezzati di verdura, inghirlandati di fiori, sfoggia una, direi quasi, signorile e molle leggiadrìa; in questo estremo lembo che costeggia l’Adda avvallata in profonda dirupata gola, è senza meno più maestosa, più varia, più ricca di fantastiche scene. Il suolo qui ondeggia con tante ripiegature, e con sì multiforme accidenze, che ne risulta un contrapposto di gajo e di cupo, di domestico e di selvaggio, di soave e di terribile, e con ciò, quell’effetto magico che col chiaroscuro delle tinte sa dare al quadro la maestrìa del pennello. Né per godere di siffatti magnifici spettacoli t’è d’uopo arrampicarti con lena affannata sopra l’ardua vetta di qualche monte , ma dovunque tu muovi il piede, una nuova e vaga prospettiva ti dà innanzi, e talvolta si di repente, che par quasi l’improvviso calarsi di una magica cortina a’ tuoi sguardi. Che se poi appena appena ti elevi sopra una prominenza, una lieve balza, un ciglio di sporgente ripa, è un incanto che ti rapisce e t’inebria questa quasi gioconda danza di poggi ridenti, di pampinose colline che ti si affaccia, e dietro di esse i cocuzzoli pur verdeggianti di più erti monti, e dietro di loro ancora di grado in grado , a guisa di maestosa immensa cornice, la curva frastagliata cresta di più eccelse montagne, di aeree rupi; e di qua un’indefinita veduta marina, ove lo sguardo si spazia e si perde; e di là una vasta multiforme pianura e, quasi dissi, costellata di allegre ville, di paesetti ameni, di campanili scintillanti, su cui sfuggendo lo sguardo, si slancia a raggiungere nel più remoto perplesso orizzonte, lontanissime città, che ravvisi al più fitto spesseggiare come di candide strisce, di lucenti punti. Ma, quando l’occhio, invaghito di queste sì amene prospettive, si avvalla giù giù per gli opachi burroni, e per la selvaggia scoscesa sponda che ci sta ai piedi, siamo colti come da un dolce brivido in vedere in quella quasi voragine l’Adda rubesta che si agita, mugghia, spumeggia, rompendo tra gli anfratti di catolli enormi e di cornuti massi le impetuose onde, e quasi riottosa urtando il calone che la costringe a dare una parte delle sue acque mansuefatte al grandioso naviglio per cui procede con bifido corso, e l’occhio la segue via via ne’ suoi bizzarri serpeggiamenti per molti chilometri.
Spettacoli sempre vaghi: ma se poi contemplati o in qualche mattino primaverile, quando alla parte orientale vedi dapprima spuntar quasi una candida benda, e quella dilatandosi, in breve tratto farsi vermiglia, e la vermiglia traslocar tosto in dorata; poi da quel grambo di cangiante luce balzare incoronato di vivi lampi il sole che allora
".... la mondana cera
Più a suo modo tempera e suggella"
Dante Parad
ovvero negli autunnali tramonti, quando la sfera fiammante del sole, che tremolando parve indugiare sull’estremo orizzonte, calata dietro ai monti, più non lascia vedere che quasi un vasto riverbero d’un lontano immenso incendio, e intorno intorno d’infuocate frangie scintillano listate le più vicine nubi, e dietro queste, altre di purpurea luce risplendenti, ed altre ancora che a strisce, a svolazzi, a pennellate screziando il cielo con continue metamorfosi in mille guise si cangiano d’iridi meravigliose: oh allora l’estatico spettatore non può a meno d’inalzare un inno a Lui che
"Quanto per mente o per occhio si gira
Con tanto ordine fè, ch'esser non puote
senza gustar di Lui chi ciò rimira"
Dante Parad
In mezzo a sì magnifico pompeggiar di natura e si può dire al centro ed allo sbocco di questi naturali teatri, sotto la più benigna guardatura di cielo, in ubertoso suolo sta il nostro Robbiate. Ma perché troppo appiccicato alle faldi del suo Monterobbio, e quasi appiattato all’ombra de’suoi balsamici vigneti, perciò è forse de’ meno vistosi e spiccanti tra i villaggi del dintorno.
Se però possiamo a buon diritto esaltare la privilegiata ubicazione del nostro paesetto, e con essa parimenti la vivace e insieme dolce indole dei suoi svegli ed attivi abitanti; non così possiamo farci belli di avite glorie, né accattar vanti tra i fasti della storia. Non giova farsi illusione; povera e piena d’incertezze e di lacune è la nostra cronaca paesana. Non mancarono certo nel nostro paesetto illustri famiglie: e fra le altre primeggia ne’più antichi nostri documenti e nelle nostre più rilevanti fondazioni il nome di una che a’ nostri tempi vediam ritallire più che mai vigorosa, e l’antico stemma fregiare di nuovi militari onori. Contuttociò i nostri annali non danno che frammenti scuciti e cenni isolati, ben lungi dal fornir materia ad un’attendibile monografia. Non sappiamo pure se Robbiate abbia dato il nome al felice colle su cui si addossa, o se lo abbia da esso ricevuto, come sembra più verosimile. Sopra il suo vertice troviamo tracce di vetusto fabbricato; ma nessuno sa leggere in quei ruderi se ivi sorgesse qualche asilo consacrato a pie meditazioni, ovvero, come sembra indicare il nome del sottoposto ispido bosco (1), qualche castellaccio o propugnacolo nelle ringhiose fazioni del medio-evo. – Aneddoti popolari e fantastici, racconti di orge feudali nelle ampie sale a giganteschi focolari, cozzi di guerrieri tremendi in armature di ferro, scorazzanti sui bruni palafreni, e nelle notturne danze i trabocchetti che allo scatto di recondite suste ingojavano e cincischiavano con roteanti e affilate lame giù per le orrende cisterne le miserande vittime di feroci odii e di sfrenate libidini; e dagli antri sotterranei le udite lugubri strida (erano le leggende che fanciulli con attonite orecchie udimmo nelle veglie invernali) ci fanno intravedere che qui pure si fecero sentire i suprusi, le tristizie e le prepotenze dell’età di ferro. Ma nulla di determinato e di preciso, e sempre fra le scompigliate fila di vaghe tradizioni, il tessuto di romantiche fole. A vero dire, le nostre tradizioni sono tronche ed incerte, e per poco che ci facciamo addietro, per noi ci troviamo a tempi antistorici, chè sono dall’epoca del glorioso San Carlo le nostre memorie ci offrono alcun che di certo e di preciso.
Da quell’epoca infatti data la fondazione della nostra Parochia, quando Robbiate con Terzuolo, altra terricciuola che, di breve tratto staccata, gli sta a mezzogiorno, segregandosi dal vicino Paderno, si costituì in una sola indipendente Parochia, trasformando in Chiesa Parochiale un antico Oratorio dedicato a s. Alessandro M. che perciò fu assunto come titolare". (2)
DAL X AL XV SECOLO
Si trova per la prima volta il nome di Robbiate in una pergamena con più di mille anni e precisamente dell’anno 966, custodita all’Archivio di Stato di Milano. Questo prezioso manoscritto tratta di un contratto di permuta tra Adalgiso, custode e presbitero della Chiesa plebana di Brivio e Arioaldo, abitante nel “vico et fundo Robiate” (3).
Particolare della pergamena dell'anno 966 custodita all'Archivio di Stato di Milano. In evidenza il nome di Robbiatee denominazione di terreni |
Adalgiso da in permuta ad Arioaldo una casa e una vigna detta “Vigna Chiusa”, ricevendone in cambio un’altra casa e due campi chiamati “La Nava” e “Il Longo”.
Analizzando la pergamena, è con vivo interesse che si nota come la denominazione del paese e dei terreni sia rimasta inalterata sino ai giorni nostri. Ed avendo ormai sfiorato l’argomento dei toponomi, è bene approfondire un po’ il discorso, nel limite del possibile, il significato del nome “Robbiate”.
E’ opinione comune che esso derivi da “Orobi”, antica popolazione preromana, stanziatasi su quella fascia di territorio che andava dal Ticino all’Oglio; ma per ulteriori particolari ci affidiamo alle versioni di esperti in toponomastica: Gerhard Rohlfs, nel suo “Studien zur Romanischen Namenkude”, lo fa derivare dal gentilizio romano “Rubius”; Dante Olivieri invece, nel “Dizionario di Toponomastica Lombarda”, vuole che il paese abbia preso il nome dal Monterobbio che lo sovrasta e che, sempre secondo l’Olivieri, avrebbe il significato di “Monte Rubeo” cioè “rosso”. Quest’ultima definizione sembra essere la più attendibile, se si considera il colore del terreno argilloso della collina; non solo, ma in alcuni manoscritti antichi è citata proprio come “mons rubeus”.
Nel 966 Robbiate faceva parte con Brivio e tutta quanta la sua Pieve alla corte regia d’Almenno che, a sua volta, era sotto il dominio di Attone conte di Lecco. Da due secoli era finita la Dominazione Longobarda e da uno quella Franca e, in tutta la Brianza, erano sorti in quel periodo numerosi castelli, posti a difesa contro le scorrerie dei popoli barbari, in special modo gli Ungari. Anche Robbiate, a scopo difensivo e in posizione strategica, ebbe sulla cima del Monterobbio una fortezza. Giovanni Dozio nel suo “Cartolario Briantino” asserisce che, in quell’epoca, il castello era di proprietà di certo Radaldo: questo nome infatti compare nella pergamena quale proprietario di beni confinanti.
Robbiate era dunque un “vicus et fundus”, cioè un grosso appezzamento di terreno con l’insediamento di nuclei abitativi, a volte fortificati, facente parte della Pieve di Brivio: a sua volta la Pieve era l’insieme di un determinato distretto rurale dove aveva sede una chiesa battesimale.
In quel periodo, la sola occupazione era l’attività agricola e i fondi erano lavorati dai fittabili che vivevano in casupole, con tetti in paglia, attorno alla “domus”(casa del padrone), e coltivavano la vite, la segale e il miglio. Circa le origini degli abitanti si può affermare che la loro discendenza era legata alla stirpe longobarda e, i nomi dei personaggi che compaiono nell’atto di permuta, come Arioaldo, Redaldo, Adalgiso, Sandolfo ecc. sono di chiara derivanza germanica.
A portarci nell XI secolo è un’altra pergamena datata 30 giugno 1018; si tratta ancora di una permuta, stipulata nel castello di Brivio, tra Olderico, sacerdote della chiesa plebana che cambia alcuni beni per conto della chiesa di S. Maria di Robbiate e Meleso di Paderno. L’atto fu rogato alla presenza di un messo d’Ariberto, potente vescovo di Milano e sottoscritto da “Bergumperti e Teudoaldi de vico Robiate” come testimoni (4). Gli eventi più significativi di quel secolo iniziarono proprio nell’anno 1018, con l’elezione di Ariberto d’Intimiano ad arcivescovo che, spentasi la discendenza dei conti di Lecco, prese nelle mani, oltre al potere ecclesiastico, anche quello politico, infeudando gran parte del territorio diocesano. Per capire “la vocazione” di taluni prelati del tempo, conviene rifarsi alle descrizioni dei costumi del clero, nel secolo undecimo, che il Beato Andrea da Vallombrosa ci ha lasciato:
“In quei giorni il ministero ecclesiastico era da così gravi errori sedotto ch’era una eccezione il prelato che risiedesse nella sede stabilita. Alcuni, infatti, vagavano qua e là con cani e uccelli da richiamo e si occupavano solo di cacce proibite. Altri frequentavano le taverne o erano cattivi fattori o empi usurai; e pressochè tutti passavano ignomigniosamente la vita con pubbliche mogli o concubine; tutti cercavano il proprio tornaconto e non la gloria di Cristo; tutti, cosa che senza lagrime non può essere detta né ascoltata, erano fradici di Simonia. Infatti non si poteva ottenere alcuna carica - dalla più bassa alla più alta - se non a contanti e nello stesso modo in cui si trattino le pecore al mercato. E il male peggiore – tra tutti i mali – era che non si trovava chi alzasse una voce di protesta e si opponesse a tanta iniquità, giacchè coloro ch’erano stimati pastori d’anime, essi stessi erano lupi rapaci”.
Non si sa con certezza se Robbiate fu sotto il diretto dominio di Ariberto, ma la vicinanza del nostro paese con Merate, sicuro feudo del battagliero vescovo, lo fa supporre. Tuttavia Robbiate fu sicuramente dominato dal potere ecclesiastico, infatti più avanti, in una bolla del 1148, il pontefice Eugenio III, conferma il possesso del “Castrum de Robiate cum pertinentis suis” (castello di Robbiate e suo territorio) al Monastero Maggiore di Milano (5).
Bolla pontificia del 1148 che conferma il posseso del castello di Robbiate al Monastero Maggiore di Milano. |
“Sulla cima dell’Orobio, che a levante è lambito dall’Adda, fu già in andati tempi un castello, di cui restano ancora all’ingiro i fondamenti: è da credere edificato un de’ primi del medio evo, essendo in sito giocondato da tenta limpidezza di cielo e con vaghi prospetti offerti qua e là dai piani a mezzodì e dalle colline e dall’adda e dai monti più lontani: nel 1148 il monastero maggiore di S. Maurizio possedevalo con annessi non so quali poderi” (6).
Ma ciò rendeva problematiche le condizioni di vita degli abitanti dei villaggi, era che queste proprietà ecclesiali venivano solitamente subinfeudate a potenti famigli: nel caso di Robbiate agli Ajroldi.
Erano dunque i poveri contadini sottomessi al signorotto del paese che esercitava ogni sorta di soprusi, pretendendo l’assoluta obbedienza in cambio di un pezzetto di terra da coltivare. Oltre al pagamento d’ingenti tasse, egli pretendeva la consegna dei raccolti e tutto ciò che serviva alla sua casa; in più aveva la facoltà di applicare la giustizia, di emanare bandi, e il diritto delle armi; ma la pretesa più ignobile era lo “jus primae noctis”: a quel tempo messo in atto sicuramente anche a Robbiate.
La povera gente sopportava tutto ciò con umiltà e rassegnazione, consapevole che una ribellione sarebbe solo servita a scatenare crudeli rappresaglie: troppe erano le bocche da sfamare, e quel poco di terra assegnatole, in cambio dei più umili servigi era l’unica fonte di sostentamento. Se anche lo spirito di rivolta affiorava giustamente negli animi di questi poveretti, l’idea di essere privati anche di quel poco, bastava a reprimere ogni tentativo d’opposizione (7).
“ Ma la nostra ribellione in che consisteva? Nel domandare che le mogli e le figlie fossero nostre, né obbligate di oscene primizie al feudatario; che potessimo macinare il grano e cuocere il pane anche altrove che al molino e al forno del padrone, il quale esigeva una tassa esuberant; che potessimo scacciare le lepri e i conigli dal seminato”
Terminato il periodo del potere ecclesiastico, venne Federico Barbarossa a seminare distruzione e a imporre altri gravosi tributi; ma quest’oppressione portò il popolo alla riscossa e, nell’abbazia di Pontida, si giurò la Lega Lombarda che sconfisse Federico a Legnano, assicurando la libertà ai Comuni Lombardi.
Nell’anno 1348 un tal Pietro da Robbiate fece parte del consiglio della Provvisioni, che approvò gli “Statuti di Milano” rimasti in vigore fino al 1700. Gli statuti erano un elenco di norme legislative che pesavano, come sempre, sui poveri e favorivano naturalmente i potenti.
Più tardi ci furono i Torriani contro i Visconti, i Guelfi contro i Ghibellini, ma il diritto era sempre dalla parte del più forte, finchè i Brianzoli, stanchi di quelle continue lotte, demolirono numerosi castelli, tra i quali quelli di Merate, Sabbioncello e forse (il “forse” è d’obbligo poiché nessuna notizia è pervenuta in proposito) anche quello di Robbiate.
Ma nonostante la distruzione di quei rifugi di prepotenza, il diritto d’armi e di giudizio rimase saldamente nelle mani del feudatario. Tuttavia nei villaggi si ebbe un notevole sviluppo edilizio: le case si costruivano in pietre e mattoni con copertura in coppi, l’una accanto all’altra, il più delle volte attorno ad un pozzo, formando così le prime “corti” nelle quali abitavano massari e pigionanti. Queste masserie erano di propietà dei benestanti che v’insediavano più nuclei familiari imparentati tra di loro, fino a raggiungere 30 e più persone, ai quali davano in dotazione dalle 150 alle 200 pertiche da coltivare: naturalmente a vanga e zappa.
Antico edificio perimetrale del cortile "La Badalasca" |
"La Badalasca" - antichi elementi decorativi |
Così tra una guerra e l’altra, si giunge all’anno 1374, ed è proprio in quest’anno che i Visconti concedono finalmente a tutti gli abitanti di Robbiate (professi ghibellini), ogni sorta di immunità e privilegi, per essere stato il popolo schierato dalla loro parte nella guerra contro i Torriani. Questi privilegi furono confermati, nuovamente, nel 1450 da Francesco Sforza e nel 1467 dalla moglie Bianca Maria, subentratagli al potere dopo la sua morte. Queste ulteriori riconferme, erano dovute al coraggio dimostrato dai Brianzoli nelle lotte contro i Veneziani, aspramente combattute in tutti i territori a ridosso dell’Adda, si legge infatti nel bando (8):
“...nobiles, massaris, fictabilibus, reddituaris, molendinaris, mezzadris, colonis et laboratoribus tam praesentibus quam futuribus et dictorum bonorum ut supra immunes et exsemptos ab omnibus et singulis, condicijs, taxsis, dacijs, impositionibus et oneribus… Homines ipsos in guerra dominationis Venetorum, contra comunitatem Mediolani, pro augmento status nostri, fuisse fideles et obedientes”.
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NOTE
(1) Si chiama il bosco del “Castellazzo”
(2) Don Alessandro Villa, "Di Robbiate e specialmente della beata vergine del Pianto", pag 11-17
(3) Archivio di Stato di Milano (A.S.M.) - fondo Ajroldi, cart.4 fasc. 5
(4) G. Dozio, "Il cartolario Brigantino" pag. 57-58
(5) Vedasi la bolla presso A. Muratori
(6) G. Dozio "Brivio e sua Pieve" pag. 184
(7) C. Cantù, "Brianza Storie Minori"
(8) A.S.M. - Fondo Ajroldi
mercoledì 12 febbraio 2014
GRAFFITI NEI SOTTOPASSAGGI DI SENIGALLIA di Marco Bartesaghi
Queste fotografie sono state scattate in alcuni sottopassaggi pedonali di Senigallia, il primo maggio 2013.Doppio clic per ingrandirle.
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