venerdì 17 giugno 2016

VIRTÙ D'AMORE - cronaca della rappresentazione dell'opera, avvenuta a Verderio superiore il 7 ottobre 1896

















Quella che segue è la trascrizione della cronaca della prima  rappresentazione di Virtù d'Amore, opera di Vittorio Gnecchi Ruscone, compositore delle musiche, e di Maria Rossi Bozzotti, autrice del libretto. La cornaca fu redatta da un parente di Vittorio Gnecchi, probabilmente il fratello di Vittorio, Cesare. Il testo è conservato presso l'ArchivioParrocchiale di Verderio (ex Superiore) M.B.


  


VIRTÙ D'AMORE

L’autunno 1896 a Verderio rimarrà caratterizzato dalla rappresentazione della Virtù d’Amore. La solennità che la rappresentazione assunse e il numero grande di persone che vi convennero, diedero alla festa privata l’aspetto quasi di avvenimento pubblico, perciò per tutto quanto riguarda la cronaca della serata possiamo ricorrere anche per il giornale di famiglia alle migliori pubblicazioni date da alcuni giornali essendo anche più corretto che il giudizio venga dato fuori dalla famiglia; e così riporteremo quanto scrissero in proposito Giulio Ricordi nella “Gazzetta Musicale”, Giannino Antona Traversi nella “Vita Italiana”, Sofia Bisi Albini nella “Rivista della Signorina” e G.B. Nappi nella “Perseveranza”.

Rimane la parte cronaca intorno all’operetta. La sua azione, la sua storia, che noi qui ricorderemo accennando alla parte intima e anedottica che altrimenti andrebbe perduta, Sarà questo un semplice ricordo di famiglia, conservato e se mai le prime promesse dovessero essere seguite da un brillante avvenire, queste note potranno fornire i dati per il primo capitolo della vita artistica di Vittorio Gnecchi.

Nell’autunno del 1895 era stato allestito il teatrino nel salone superiore della villa di Verderio e i ragazzi vi avevano recitato qualche commediola. Ora la zia Maria Rossi Bozzotti, che aveva passato una parte dell’autunno a Verderio, animata da quella sua ardente febbre di organizzare cose belle e nuove e artistiche e secondata dalla sua fantasia inesauribile, s’era fissata in mente di combinare per il prossimo anno, qualche originale spettacolo, nel quale ciascuno dei ragazzi potesse spiegare le sue non comuni doti artistiche. Un giorno del seguente inverno discorrendo intorno ai progetti per l’autunno, essa propose al nipote Vittorio di allestire un libretto di operetta , se egli si fosse impegnato a musicarlo, con la magra scorta dei suoi iniziati studi di contrappunto. Poiché egli aveva allora 19 anni e frequentando la terza classe liceale, non aveva ancora dedicato alla musica che esigua parte del suo tempo, e occupava le ore che poteva rubare agli studi classici più alla tecnica del pianoforte che allo studio della composizione.


 
Vittorio Gnecchi Ruscone



L’idea di sua zia gli sorrise : l’accettò con entusiasmo: due giorni dopo zia Maria gli accenna la tela che lo seduce; in una notte è composta la prima scena e così, di fatto, è composto il libretto. Ma ancor prima che esso fosse terminato, le prime arie sono composte: alla primavera il lavoro è compiuto; solo l’ultima scena è terminata durante la stagione balneare a Santa Caterina; cosicché tutto fu pronto e copiato per l’esecuzione quando la nostra famiglia si riunì a Verderio per la vacanza autunnale, invitandovi pure la famiglia Rossi, la quale però per agevolare il ménage prese in affitto la villa Cassina a Paderno d’Adda e vi portò domestici, cavalli, ecc.

L’esecuzione di un’operetta di campagna è cosa tutt’altro che semplice; specialmente volendo ottenere un’esecuzione di prim’ordine, bisognava incominciare presto a pensare alle molteplici esigenze di un teatro. Il locale prima di tutto, poi gli scenari, l’illuminazione, i figurini, il vestiario, l’istruzione delle diverse parti e dei cori, l’orchestra, la stampa del libretto, dei programmi, degli inviti e gli infiniti accessori e dettagli di ogni genere.
 

A tutto il personale occorrente e al personale accessorio, ai parenti che accompagnavano i figli, a parte degli invitati, ai suonatori bisognava preparare l’alloggio. Per la sera della rappresentazione poi occorreva provvedere a riparare buon numero di carrozze e cavalli anche pel caso di pioggia.

Le preoccupazioni dunque erano molte e il tempo stringeva.
S’era alla fine di agosto e la rappresentazione si contava darla in fine di settembre. In un mese bisognava far tutto. – Zia Maria assunse la direzione artistica generale; Vittorio la parte istrumentale, mentre la parte vocale venne affidata alla signora Giulia Oddone Gavirati, la quale tosto si pose al paziente e difficile lavoro di istruire gli artisti-bambini (alcuni erano ignari di qualunque principio musicale) e vi si pose con quell’energia, quella competenza e quell’attività che tutti le riconoscono.



Maria Rossi Bozzotti


Per aiutarla i Rossi avevano condotto da Schio la signora Tolfo, ottima maestra di canto, la quale assunse e disimpegnò benissimo una parte, diciamo così, di “sostituta”. Il prof. Marazzani, che si diceva vecchio topo di palcoscenico, prese la parte del suggeritore. Vittorio Turati venne incaricato della stampa e dell’illustrazione del libretto, la cui edizione di estrema eleganza riuscì un vero gioiello. Il pittore Hohenstein, in quel tempo in gran voga perché incaricato di riformare il gusto artistico della messa in scena alla Scala, fece i bozzetti per le scene e i figurini per i costumi. Questi ultimi furono dapprima eseguiti con un’intonazione preraffaellita di gusto squisito.
 

Ma la semplice arcadica come avrebbe potuto essere intesa da un pittore primitivo esigeva delle figure sottili, slanciate, botticelliane. Sebbene tutte belle le nostre attrici, non rispondevano a quell’ideale, che era tanto facile disegnare su dei figurini. Era dunque meglio rinunciare a un’idea artisticamente deliziosa, se non fosse stato possibile seguirla alla perfezione. Perciò dopo lunghe discussioni, Hohenstein fu incaricato di rifare i 25 figurini, questa volta in stile settecentesco: così si sarebbero adattati meglio alle grazie delle nostre gentili artiste, non solo, ma anche alla musica, che l’autore aveva composto ispirandosi al carattere delle rappresentazioni pastorali che alla fine del ‘600 e nel secolo successivo si davano nelle corti italiane e francesi.

La sartoria Zampironi fu incaricata dell’esecuzione dei figurini con le migliori stoffe, le cui tinte furono scelte sapientemente da Hohenstein e dalle Signore, così da formare dei quadri di intonazione artisticamente indovinatissima. Il costume di Lyda fu fatto dalla sarta Mosca.

Lanfranconi provvide tutti i pastori di lunghe anella bionde e brune. Rancati fornì gli accessori e coprì di diamanti la Virtù d’Amore. Rovescalli fu incaricato dell’esecuzione delle scene…; ma quando si venne a concretare per queste, la faccenda era tanto cresciuta sotto mano che il teatrino del salone superiore veniva dichiarato insufficiente e si decise di fare un nuovo teatro a piano terreno nel locale detto del torchio, assai più ampio e capace, che fino allora aveva servito per giocarvi a tennis nei giorni piovosi. Bisognava costruire il palcoscenico, le scene, decorare il locale, pensare all’illuminazione, ai sedili, a tutto; ma con un po’ di buona volontà si arrivò ad ottenere che fosse curato ogni particolare, persino si provvide ad un’illuminazione elettrica provvisoria a mezzo di una locomobile facente funzionare una vecchia dinamo appartenente alla Società Edison, la quale gentilmente la prestò prima di collocarla nel museo e mandò anzi appositamente l’ingegner Clerici e l’ingegner Ettore Conti a fare l’installazione e a sorvegliare il funzionamento. Il fattore Cav. Carlo Lissoni venne incaricato di preparare gli stallazzi e nei diversi cortili e nell’arsenale vennero apprestate provvisoriamente scuderie per oltre un centinaio di cavalli e rimesse per una sessantina di carrozze. Difatti ne arrivarono effettivamente più di sessanta con 120 cavalli.

L’affare più serio erano gli alloggi per le persone, avendo dovuto ospitare per la sera della rappresentazione oltre gli artisti e i loro parenti, molti parenti nostri e amici che non avevano ville nelle vicinanze, né erano stati invitati da villeggianti della nostra Brianza. Alcuni, come il conte Venosta e la signora Dina Volpi aprirono, per l’occasione, delle ville che da anni non erano abitate.

La nostra casa era ricolma: la mamma-grande aveva gentilmente offerto tutte le sue stanze disponibili, come pure zio Ercole nella sua villa di Paderno. Allo stesso scopo servì la casa Cassina di Paderno dove furono alloggiati un certo numero di giovinotti. Anche a questa bisogna era dunque provveduto. Per i professori d’orchestra (che si fermarono una settimana perché le prime prove si fecero a Milano) coristi, scenografi, ecc. furono preparati aloggi in case di contadini, dove mediante imbiancatura e acquisti di mobili più necessari alla pulizia, si prepararono delle stanzette convenienti. La loro [table-d’hotes] era all’osteria Motta.

Il lavoro di preparazione andava fervendo sempre più di giorno in giorno: le lettere, i telegrammi non si contavano più: messi speciali erano inviati di ora in ora a Milano; incaricati diversi arrivavano ogni giorno: sarti, calzolai, parrucchieri, tappezzieri, artisti, illuminatori, elettricisti, pittori, stampatori ecc. ecc. un pandemonio e frattanto proseguivano attivamente le prove, al piano prima, poi colla piccola orchestra di 14 professori. Fra questi tutti eccellenti sebbene giovanissimi, è notevole ricordare che, sotto la direzione dell’autore, suonavano il M. Tullio Serafin (allora diciottenne) al pianoforte, il M. Russolo all’harmonium, il M. Tannini (ora direttore d’orchestra) 1° violino; Vescovi 2° violino; il Prof. ….. viola (che fu poi prima viola della Scala); il Prof. Galeazzi (che fu poi primo cello alla Scala) cello; Francesco Sessa uno dei contrabbassi, ecc.

Il tenore Cannonieri fu scritturato per cantare nei cori, unico professionista sul palcoscenico.


Ed ecco il programma indicante la distribuzione delle parti:Personaggi
Virtù d’Amore (figura simbolica), S.na Elisabetta Oddone
Lida, pastorella, S.na Sandra Rossi
Dafne, pastorella, S.na Pia Gnecchi
Flora, pastorella, S.na Giuseppina Regalia
Clori, pastorella, S.na Maria Ballerini
Amarilli, pastorella, S.na Valentina Bozzotti
Iª pastorella, Donna Costanza Bagatti Valsecchi
IIªpastorella, Miss Jessie Mason
IIIª pastorella, S.na Anna Maria Bozzotti
Agasto, vecchio pastore cieco, padre di Lida, Sig. Alessandro Rossi
Aminta, pastore, Conte Giuseppe Visconti di Modrone
Elpino, pastore, Cesare Gnecchi
Mirillo, pastore, Carlo Baulini
Tirsi, pastore, S.na Carla Gnecchi
Ciro, pastore, Cesare Rossi
Melibeo, pastore, Francesco Rossi
I° pastore, Giuseppino Baslino
II° pastore, Don Alessandro Casati
III° pastore, Don Pier Fausto Bagatti
Valsecchi
Cori di pastori e pastorelle.

 


Dallo spartito  per pianoforte e canto, edita a Berlino, probabilmente nel 1943, dalla casa editrice Capitol Verlag, è reperibile presso la biblioteca della Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, collocazione LEVI C.1144.
Fra gli ospiti della nostra casa, oltre alle famiglie Rossi e Bozzotti, la duchessa Ida Visconti con Giuseppe e Guido, Remigia Ponti Spilateri, Maria Ballerini, S.na Gilda Tolfo, la sig.ra Oddone, Prof. Marazzani, Paolo Maesani, Fausto Bagatti Valsecchi, Emilio Silvestri, Gino Durini, Manfredi Olivia.

Una questione lungamente discussa fu quella dell’accesso al teatro, del passaggio cioè dalle sale dove il pubblico sarebbe stato prima radunato, al locale della rappresentazione lontanissimo e parecchi metri più basso. Il passaggio esterno era da escludere per il timore di un tempo cattivo o semplicemente per la temperatura che poteva essere fredda; il passaggio interno si poteva pure fare in più modi, ma erano tutti passaggi per così dire semirustici che occorreva convenientemente decorare per l’occasione. Vittorio ebbe l’idea di aprire una porta nel muro fra il torchio e l’ingresso esterno alla cappella, porta che avrebbe permesso di scendere dalla lunga scalinata che da appunto accesso alla chiesa per chi vi giunge dalla strada. Si adottò definitivamente questo progetto, decidendo di fabbricare un corridoio tutto tappezzato di rosso, sotto al palcoscenico, per giungere alla platea, perché la porta d’accesso si trovava ad essere appunto dietro il palcoscenico.

La scala lunga più di 50 gradini tutta coperta da un tappeto rosso e decorata a guisa di un pergolato da piante di bambù da ambo i lati, fra i cui rami brillavano lampadine elettriche, riuscì di un effetto fantastico. Per giungere dalle sale si dovevano percorrere tre corridoi e scendere da un’altra scaletta: tutti questi passaggi furono coperti di tappeti e le pareti adornate di tende antiche.


Illuminazione a braccioli con candele. L’ambiente del torchio dovette essere trasformato perché eccetto il soffitto esso è rustico. Tutto il pavimento per quasi 30 metri di lunghezza, fu coperto dal tappeto del ridotto della Scala (con grande allarme e molti reclami da parte dei giovani cantanti e della loro direttrice Signora Oddone perché avrebbe assai attutito l’acustica. Ma si ebbe il cattivo gusto di dare più peso ai piedi degli spettatori, - e il tappeto rimase) le pareti furono pure decorate con bambù e altre piante. Dai quattro balconi pendevano quattro magnifiche tende antiche prestate da Fausto Bagatti. Il fondo della sala fu coperto da una grande tenda rossa. Da ciascun lato dei muri due file di poltrone da giardino, nel centro tutte sedie rosse con cuscini rossi.

Tutta la decorazione del palcoscenico (dall’apertura di 7 metri) sollevato un metro e mezzo da terra, fu fatta in damasco rosso. Il velario fu il primo dei velari in velluto rosso a frange d’oro, che vennero poi adottati da tutti i teatri in sostituzione dei vecchi sipari.

Ma l’innovazione più importante fu quella introdotta nella struttura del palcoscenico, da Rovescalli: a Verderio furono per la prima volta eseguite le scene a completo panorama senza quinte, ottenendo tale effetto che l’inverno successivo il medesimo metodo fi adottato dallo stesso Rovescalli per la prima scena del Tristano alla Scala e dopo d’allora non fu più abbandonato nei grandi teatri.

Ciò che invece fu pure eseguito a Verderio con suggestivo effetto di verità, ma che non poté essere ripetuto in teatri di grandi dimensioni per ragioni tecniche, fu il cielo a volta. Tale innovazione consisteva in una enorme cappa celeste (armatura in legno coperta di tela) che si estendeva al di là del panorama dal quale distava circa 50 cm. La illuminavano intensamente lampadine disposte tutt’intorno, dietro al panorama stesso.

Così le piante, i cespugli, le montagne si distaccavano sull’azzurro omogeneo del cielo.


L’effetto poi del tramonto, alla fine del primo atto e al principio del secondo, ottenuto con lampadine di vari colori graduate col grande commutatore a tastiera del Teatro alla Scala, espressamente fatto impiantare, fu straordinario di verità e di poesia.

Non mancarono gli effetti di luce all’apparizione di Virtù d’Amore, all’uscita di Aminta dalla grotta, ecc. Fu l’ingegner Clerici in persona, in cima a una scala, che eseguiva le irradiazioni luminose. Dietro al palcoscenico, allo stesso livello di questo, fu preparato un salotto come foyer per gli artisti.

Sotto a questo e nella sala attigua si improvvisarono con paraventi un gabinetto di toilette e dei camerini, sebbene gli artisti (che erano 22) si sarebbero vestiti nelle loro stanze. Il loro accesso al palcoscenico doveva avvenire dal passaggio interno che conduce alla cantina e prosegue per le scuderie.

Dal 20 al 25 di settembre si diramarono gli inviti in stampa per la rappresentazione fissata per il 7 ottobre.

All’antiprova generale coi costumi assistette il Comm. Giulio Ricordi che rimase incantato dalla buona riuscita dello spettacolo: la prova del suo entusiasmo ci viene dal suo articolo nel giornale la “Gazzetta Musicale”. Alla prova generale furono invitati, oltre alla famiglia , i contadini, il personale di servizio, la Contessa Cecilia Lurani e Franco da Venezia. A quasi tutte le prove assistette il M. Saladino che era venuto a villeggiare a Cernusco.

E finalmente spuntò anche la vigilia di questo giorno, una splendida che faceva bene presagire anche pel domani: e venne anche il domani. La casa era tutta preparata pel ricevimento che doveva precedere e pel ballo che avrebbe seguito la rappresentazione con relativa cena: e siccome ai numerosi inquilini di Verderio (solo la casa principale ospitava 52 persone) non rimaneva più disponibile la sala da pranzo, già disposta per la cena , si supplì riducendo a sala da pranzo lo studio di papà ove il pranzo di 40 coperti (i più intimi erano stati invitati a pranzo dai parenti), riuscì anzi ammiratissimo disposto come fu a tavolini di 4 persone. Per illuminazione, un candelabro su ogni tavolino.

Ecco il menù:


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Distribuzione di alcuni tavolini:


 

Nel salone non vi era ancora parquet. Perciò era stato disteso un tappeto completo di tela bianca con ottimo effetto. Già al mattino le sale erano colme di fiori, quando arrivò un carro da [Tassera] (villa Bozzotti) con casse di splendide rose. Ne furono riempiti tutti gli angoli – e i due grandi cesti di verde appesi al soffitto del salone divennero due immensi mazzi di rose.
Emilio Silvestri ricordando le sue mansioni a S. Siro, si era incaricato di organizzare il corso delle carrozze. Furono disposti fanali e torcie a vento in giardino e sul cancello: una dozzina di uomini con torcie a vento illuminavano la strada e l’entrata del paese e il passaggio all’arsenale.
Il servizio funzionò egregiamente. Alle 9,30 di sera il pubblico già adunato nella sala superiore, scese a teatro. Sola ritardataria fu Ernesta Scheiber che veniva da Castellazzo (Milano), in carrozza! (aveva fatto predisporre un relais a Monza). Del resto questo sistema di viaggio, che oggi sembra tanto primitivo, era forse il più consono al carattere settecentesco e della casa e dello spettacolo avendo esso certa analogia colle chaises de poste. Ma poiché era tempo di rivoluzione…. Pacifica non mancò, in mezzo ai veicoli “ancien régime” una precoce automobile, quella della sig.ra Maria Silvestri Volpi giunta quasi miracolosamente senza “pannes”.


Vogliamo accingerci a ricordare i nomi degli spettatori, pure con la certezza di non ricordarli tutti a tanta distanza di anni?

Certo sarà meglio, per la cronaca, fare anche solo una parte dei nomi, anziché non citarne nessuno e perciò scriviamo l’elenco finché ne soccorra la memoria:

Erminio, Anita Bozzotti, famiglie Gnecchi, Brini Dubini, Rossi (Monza e Schio), Donna Maria Prinettie Carlino, Duca e Duchessa Guido e Ida Visconti con [Guidone] C.te e C.ssa Scheiber-Pullè; C.te e C.ssa Suardi; Carlino e Maria Greppi; Donna Remigia Ponti Spitalleri; Donna Erminia Cittadini; C.te e C.ssa Francesco Lurani; C.ssa Eugenia Borgia; Sig.na Dina Volpi Bassani; sig.ra Silvestri Volpi; sig.ra Carla Volpi Gorè; Ester esengrini e figli; La Contessa Jannet dal Verme; Barone e Baronessa Paolo Airoldi; Sofia Bisi Albini; Pippo e Clementina Lattuada; Gerolamo e Mina Sala; Giacomo e Ninetta Sala; Laura Gropallo; Ieanne Simonetta; Romeo e Paolina Casati; Sig. Robecchi; Contessa Luisa e Antonietta Casati e figli e mariti; C.sse Chiara e Maria Annoni; sig.ra Gabriella Mangili; Barone e Baronessa Giuseppe Bagatti Valsecchi; Don Fausto Bagatti V.; Sig. De Capitani Vimercate e figli; sig.ra Elvira Fochessati; nob. sig.ra De Colzi; nob. Stucchi Prinetti; Antonio e Elena baulini; [M.sa Danese Brivio]; M° Saladino e figlie; M° da Venezia; Giulio Ricordi; G.B. Nappi C.ti Durini di Monza; sig.ra Gargantini; Giulia Oddone Gavirati; Donna Nora di Belgioioso; Donna Carla Arnaboldi; sig.ra De Cozzi; Donna Costanza Borromeo; nob. Signorine Airoldi di Robbiate; sig.ra Gargantini; Principessa Ernestina Ratibor di Corvey; Duchessa di Sartirana; Donna Giovannella castani dei Duchi di [Sermoneta];C.ssa Guendalina (….) C.te Lepoldo Pullè C.te e C.ssa Pietro e Luisa Soriani; C.te Angelo Papadopoli; Comm. Giuseppe Robecchi; Donna [Popette]e S.E. Il Ministro Prinetti; Manfredi Olivi; [M.se Ramiro Rosaley e sig.ra Regalia] Aldo Noseda; C.te e C.ssa Gerolamo Rossi [Martini]; Francesca Bonfanti; Don Lodovico Bossi; Don Gaetano Tranchetti di Ponte; Dott. Favari; Dott. Viscardi; C.te Carlo Guicciardini; S.ra e S.na Badoni; Carlo Fumagalli; nob. Fumagalli; Ulrich; sig.ra Besana; M.sa Bice d’Adda; Si.na Tolfo; Prof. Marazzani; Donna Camilla [Grogallo]; Emilio Silvestri; Paolo Maesani; Famiglia Baulini; ing. Valtolina e padre; C.te e C.ssa Annoni; Famiglia Gallavresi; C.ssa Giulia [Viansoni]; ing. Lonca; ing. Ettore Conti; ing. Clerici; Don Carlo Tensa; Eugenio Restelli; C.te Febo Borromeo; M.se Ferdinando [Stanja]; C.te e C.ssa Tommaso Castelbarco; Famiglia Pizzagalli; Famiglia Albini; M.se Solari; Don Giulio Greppi; Edoardo e Fanny (….); C.te [Oldofredi]; Giannino Antona Traversi; Barone Galbiati; Guido e Costanza Gagnola; Barone Costanzo Cantoni; Famiglia Gavazzi; Hohenstein


Gli interpreti di Virtù d'Amore in posa nel giardino di Villa Gnecchi a Verderio
Il colpo d’occhio del teatro gremito era davvero incantevole: forse nessuno ricordava d’aver veduto in campagna radunate tante signore in toilettes da ballo: si sentiva nel pubblico curioso l’atmosfera della premierei attese.

Lasciamo la critica della serata ai giornali; diciamo solo che il successo fu dei più schietti e più completi che si ricordino, poiché il pubblico non fu indotto ad indulgere, come era sua abitudine per le recite di società, calcolando che gli artisti erano giovani, che i mezzi di una casa privata non sono quelli di un teatro, ecc. Ne il pubblico fu conquiso dall’eleganza della cornice, dalla novità del quadro, dalla inattesa freschezza della musica, tutta pervasa da un sottile profumo di arcaica ingenuità: fu conquiso dal senso aristocraticamente artistico che emanava da ogni dettaglio, dalla perfezione dell’orchestra e sopra tutto dalla spontanea vena lirica e drammatica che animava ognuno degli artisti nelle cui plastiche ma misurate movenze, nelle cui espressioni di parola e di fisionomia era una sincerità di arte innata così sorprendente da dare, in certi momenti, l’impressione di una rivelazione.

La scena, per esempio in cui Agosto ricupera la vista – scena che Sandro Rossi quasi ad ogni prova aveva interpretato in modo diverso, secondo la ispirazione del momento – faceva passare un brivido nell’uditorio. Il pubblico si trovò insomma scosso da sensazioni che è difficile ottenere associate, quella data da un godimento sottilmente artistico e quella che reca agli occhi una raffinata eleganza signorile di buon gusto, Forse ha risieduto in questo la sorpresa che ha creato il trionfo. Ma se pure non è qui il posto di occuparsi del valore dell’opera d’arte, non sappiamo rinunciare a seguir l’esecuzione nei suoi dettagli ricordando le caratteristiche più significative dell’esecuzione e le varie impressioni suscitate negli uditori.

IL preludio eseguito dalla sceltissima orchestrina con delicata sobrietà di sentimento alla quale non mancava una sfumatura di voluta ingenuità, trasportò subito il pensiero e l’attesa del pubblico nell’ambiente pastorale, adeguatamente arcaico, al quale tutta l’azione doveva essere improntata. E piacque schiettamente: Nell’applauso ancora incerto c’era molta sorpresa. S’apre il velario: un mormorio che è una fervida ammirazione all’arte di Rovescalli accoglie lo sbocciare di quella incantevole primavera sul pianoro verdeggiante, dai mandorli in fiore che invece di essere dipinti sul fondo e sulle quinte, come era allora consuetudine scenografica, stendevano i loro rami liberamente nell’aria tersa, dorati dal sole. La gaiezza dell’aprile mista alla dolce poesia della solitudine d’una valle aperta ai piedi dei monti, sgorgava dalle tenue tinte di quella scena semplice ma incredibilmente vera. Al quadro dà vita un gruppo di pastori: mentre Agosto (Sandro Rossi) seduto presso la casa suona la zampogna, Lida (Sandra Rossi) e il fanciullo Tirsi (Carla Gnecchi – 11 anni) inginocchiati giocano cingendo un agnello di ghirlande di rose. Alla prima prova l’agnello era vivo: ciò dava molta verità alla scena, anzi, troppa verità, - poicé la bestiola intimidita si ostinava ogni volta a mancare di rispetto ad attori e pubblico, - tanto che dovette essere sostituita con un agnellino imbalsamato, meno vivace, ma che dava garanzia di buona educazione.

I Sandri recitano deliziosamente: Lida canta l’aria di stile settecentesco con voce morbida e fresca; gaia alle parole: “No, non pensare a guai”. Calda di sentimento nella frase “Amo l’aura soave di Maggio”. Strappa all’uditorio uno scrosciante applauso convinto: il successo si delinea. È applaudito pure con calore il dettino Lida Agosto, cantato con arte fine e delicata. Il pezzo concertato all’arrivo di Aminta (Giuseppe Visconti di Modrone) non è eseguito con la musica (come era scritto) ma recitato, perché la distinta maestra, direttrice dei cori, lo ha stimato di troppo difficile esecuzione per gli inesperti coristi e l’autore, assai a malincuore ha dovuto rinunciare a udirlo come egli l’aveva composto, pur sapendo che è uno dei brani musicalmente migliori del piccolo spartito. Ma nessuna arte forse riserva tante rinunce ai suoi cultori come la composizione, ed è stato questo il primo frutto dell’ispirazione gettato alle ortiche dal giovane compositore, primo di una serie che era destinata a divenire ben lunga e ben dolorosa.

E appare portato in trionfo il bellissimo Aminta in velluto giallo con gran feltro grigio e mantello in velluto marrone. Il quadro è accolto da un mormorio di meraviglia. Le tinte dei velluti e dei rasi armonizzati su toni di pastello si fondono con la tenuità dei boschi verdi lontani in un’armonia che l’occhio non è avvezzo a trovare sui palcoscenici; il movimento dell’azione interessa tenendo viva l’attenzione.

 
L'ala ovest di Villa Gnecchi, che fu adibita a teatro per la rappresentazione di Virtù d'Amore


Sono apprezzati i bei versi che descrivono il Monte Nero, detti efficacemente da Elpino (Cesare Gnecchi in velluto grigio); il magnifico brano – forse il migliore – in cui Cirillo ( Carlo Baulini) narra l’uccisione del lupo è penetrato di tanta verità e di tanta forza drammatica, che impressiona vivamente. Ed eccoci all’ “aria del tenorino”: “Perché sei buona e bella”. Cantata con voce dolcissima e con puro sentimento. Il pubblico è soggiogato: non si stanca di applaudire. Ma ciò che lo commuove è il “finale “ dell’atto. Vien sera: l’ardimentoso Aminta, non appena ha rivelato il suo amore. Si avvia all’impresa irta di pericoli, accompagnato da tutti i pastori e si accomiata da Lida chiedendole il fiore che ha nei capelli e dicendole, con voce velata dall’emozione: “Se non torno ricordami con un po’ di dolore”. La frase è cantata come potrebbe cantarla un piccolo Caruso. Lida è vinta: il cuore fermo e sicuro che sfidava il piccolo cieco amore che

….”non vede”….. e ferisce! Impera….

E tutto ignora

a piegato alla prima parola del Misterioso Fanciullo, ed ama.

L’orchestra ricorda la canzone: “Amo l’aura soave di maggio” – mentre Lida segue sino all’orlo della valle il valoroso pastore; - poi lo accompagna ancora con lo sguardo, - e quando più non lo può scorgere, si riavvicina al Padre, scossa da singhiozzi che inconsapevolmente le sgorgano dal cuore e si inginocchia ai piedi del vecchio cieco, gemendo:


“Padre il pianto io non so più frenare!”

Ed il buon vecchio carezzandole i capelli, con un amaro accento di mesta ironia, sussurra:

“ Bimba, povera bimba che non voleva amare!” – mentre l’orchestra in sordina, in minore e sempre più piano, riprende il tema del dettino nel quale il Padre ammoniva la bimba a non schernire il “Fanciullo”

Alle ultime note sfumate come le ombre della notte che sale dal piano si riavvicina lentamente il velario su quel puro quadretto che racchiude insieme alle gemme non ancora tutte sbocciate della primavera, due gemme spuntate da pochi istanti, una vaga, profonda mestizia e una più profonda speranza.

Scoppia unanime, irrefrenabile, un immenso applauso, che non è più la sorpresa gradevole, l’ammirazione sincera, l’approvazione incondizionata, è il successo vero, pieno, prorompente; è l’emozione di tutto un pubblico che si esprime e si frange in una ovazione festante.

Il pesante velluto si riapre varie volte sulla simbolica Primavera.

Nell’intermezzo fu servito un rinfresco nella sala. Fu questo purtroppo l’unico neo del ricevimento poiché, mentre i nostri domestici (con quelli di casa Bozzotti, di casa Rossi e di zio Ercole) dovevano preparare un buffet anche nello studio di papà dove si aveva pranzato (la sala da pranzo non poteva bastare per tante persone) il servizio in teatro fu fatto dal Cova, con domestici inviati dal Cova stesso.

Per fortuna la pastorale che apre il secondo atto sulle cime rocciose del Monte Nero ci portò subito in più spirabil aere. Fu quello forse il momento pervaso da più intensa poesia.

Le zampogne dei pastori discendenti verso i loro abituri erano imitate da istrumenti sparsi in vari punti dietro la scena, in modo che davano l’effetto di rispondersi l’uno all’altro da lontano. Tali istrumenti erano un armonium, un clarino, un flauto e….una ocarina, suonata da un cocchiere di casa, la cui abilità nel soffiare in quel primitivo istrumento fu sfruttata con molto effetto, e si era già rivelata all’aprirsi del primo atto, ripetendo la prima frase del Preludio (dietro la scena) mentre Agosto fingeva di trarre note dalla sua zampogna.

Ma durante la pastorale viene un altro suonatore molto modesto e molto [rintanato]: Giovanni Baulini, che da un’alta impalcatura lontanissima faceva dondolare di tempo in tempo delle campanelle di mucche, che erano state comperate in Engadina.

I cori dei pastori si perdevano nella valle, mentre il tramonto fiammeggiava all’orizzonte lanciando raggi infuocati sulle creste rocciose. E quando la pastorale si andava allontanando e si cominciò ad udire, sempre dall’interno, la vocina di cristallo di Tirsi (Carlo Gnecchi) (di soli 10 anni) accompagnata dagli archi in sordina fu un intensificarsi di curiosità, un mormorare di approvazione. La vocina si avvicinava, finché il pastorello, in calzoncini di raso grigio e [….] di velluto amaranto, coronato di riccioli biondi, apparve in fondo alla scena, sulla più alta roccia, con un agnellino sulle spalle, cantando con soave sentimento nostalgico la tenue canzone:


Febo scende

Giù nel cielo,

notte stende

nero velo…

E sempre cantando attraversò la scena scendendo verso il piano, poi sparve, si allontanò a poco a poco per finire il suo canto in un la acuto limpido, perfetto, lunghissimo… Scoppiò un tale applauso che non si poté udire la ripresa della pastorale e la chiusa del pezzo. Fu solo dopo aver ottenuto il bis, che il pubblico, la seconda volta, seppe reprimere l’applauso e la Pastorale fu udita fino all’ultimo accordo, caratterizzato da un mi sopracuto di Tirsi sopra una triade di mi maggiore tenuta lungamente dal coro lontano dai pastori. Intanto erano salite le ombre della notte durante la quale dovevano svolgersi le scene più drammatiche.

Piena di ammirazione la scena dell’arrivo di Aminta accompagnato dai pastori, scena che diede per un istante una lieve impressione di Torre di Babele perché visi confusero gli accenti non completamente velati del gaio veneziano (Maria Ballarin) del nostro buon milanese (Pina Regalia), della bionda Albione (Miss Mason), con vari altri caratteristici tratti personali di pronuncia.

Leggera imbles del resto che poteva cogliere soltanto un orecchio sottilmente critico. Il diapason del patos cominciò subito a sollevarsi con l’ “Invocazione” che Aminta vibrante di sentimento cantò ora con profonda espressione, ora con voce dolcissima, rapito nella sua visione, come trascinato dallo slancio del suo sacrificio.

Onde di approvazione sottolineano ogni frase, alle parole: “Virtù d’Amor, t’invocò” uno scroscio di applausi.

Circonfusa di luce appare in mezzo alle tenebre della notte Virtù d’Amore (Elisabetta Oddone). Il valzer, che musicalmente, come ben osserva Sofia Bisi Albini nella sua critica, è una stonatura nello spartito perché si stacca dal carattere degli altri pezzi per seguire una via più [vieta] e meno aristocratica, è stato scritto appositamente per dare campo alla esecutrice incomparabile di far apprezzare la sua naturale straordinaria agilità. Infatti la sua voce pura, fresca, cristallina è paragonabile a una limpida fontana o a una pioggia di perle. Essa non ha studiato ma la sua gola è quella di un usignolo: affronta le difficoltà con una naturalezza e una facilità che sembrano più proprie di un istrumento che di una voce umana. Così il pubblico rimase tanto sorpreso, estasiato da quella rivelazione, che scordò di giudicare il brano musicale, e fece a Elisabetta Oddone una ovazione interminabile, ottenendo naturalmente il bis del valzer.

Il successo è ormai avviato per la strada maestra. L’intermezzo piace, sebbene sia un brano concepito per grande orchestra e si trovi sacrificato nella riduzione per orchestrina. Lida porta la nota passionale della sua angoscia in mezzo al silenzio delle montagne: ha accenti caldi, frementi, che scuotono e conquistano. La squisita eleganza delle sue pose e del suo costumino Watteau (in velluto frappè celeste) in mezzo all’asprezza dei monti forma un contrasto delizioso. Il duetto con Dafne (Pia Gnecchi) seducente di grazia e di brio, commuove, cantata con passionalità intensa. Commuove la “Preghiera” eseguita dal coro con profonda religiosità e con raro slancio, interrotto a metà dall’a-solo di Lida che strappa approvazioni. L’ansia per il ritorno di Aminta è resa insuperabilmente sia dalla fidanzata, che dal coro.

La gran scena di Agosto desta veramente gemiti nella sala; il pubblico asolta con passione il dettino Aminta Lida, le cui voci si accordano in fusione perfetta: e siamo al “Finale”, il pezzo che solleva un veero entusiasmo.

I quattro fanciulli che recano doni cantando [offrono una canzoncina], meritano di essere mangiati di baci! Le danze sono eseguite con un’eleganza e con una sobrietà di movenze alle quali i balli dell’epoca non li avevano certo avvezzi.

Ogni attore è carico di ghirlande di fiori: le trascina, ne cinge gli sposi, le solleva formando […] di rise. Il valzer finale è cantato con un’anima, con uno slancio che conquista tutto il pubblico, che in piedi acclama; il velario deve essere risollevato e l’intera chiusura del lavoro è replicata.

Nuove chiamate, nuove ovazioni ad artisti e autori. Alla fine il palcoscenico era colmo di fiori che facevano gaio contrasto con le aride rocce. L’autrice, vestita di pizzo nero con un enorme nodo color ciliegia in fondo alla sottana e uno sul petto, non finiva di ringraziare, salutando il pubblico con insuperabile eleganza. All’autore gli artisti presentarono una bellissima bacchetta da direttore in ebano e argento cesellato. Ognuno degli esecutori, direttori ecc, ebbe in dono da Maria Rossi Bozzotti una medaglietta d’oro con data e iscrizione in smalto rosso:

- Verderio, Virtù d’Amore -

L’autrice stessa ebbe dal marito uno splendido anello di turchese e brillanti.

 
La lapide posta all'esterno del locale dove si svolse l'opera


Mentre sotto il palcoscenico autori, artisti e parenti esultavano per l’esito che aveva superato ogni aspettativa, il pubblico cominciò a salire verso le sale; al colmo della scalinata Lida (Sandra Rossi) offriva a ciascuna signora ventagli sui quali era annodato, con nastro rosa, un mazzo di fiori. Sul nastro la data in oro e la stessa scritta come sulle medagliette. A ciascuno fu pure offerto un libretto.

In breve le sale furono rigurgitanti di ospiti e subito furono aperti i due buffets. Intanto l’orchestrina era stata trasportata nel piano superiore e, dall’alto di uno dei balconi che guardano sul balcone dal ballo, cominciò a suonare. Animatissime le danze. Alla una furono servite le cene che durarono ininterrottamente fino alle tre, tanti erano gli ospiti che dovettero scambiarsi i posti.

Dopo di essi si sedettero a tavola i Professori d’orchestra, che avevano suonato con foga incomparabile, inframmezzando le solite danze col valzer della Virtù d’amore. Emilio Silvestri disimpegnò pure con grande zelo e abilità la mansione di direttore delle partenze.

Si può forse asserire senza timore di ingannarsi che ciascuno degli ascoltatori si allontanò soddisfatto della sua serata e che a ciascuno degli organizzatori rimase in cuore una profonda soddisfazione per la riuscita dello spettacolo che non avrebbe potuto essere più completa. Aggiungeremo per completare la cronaca che alcuni degli invitati, all’insaputa naturalmente dei padroni di casa, rimasero a dormire sui divani delle sale, altri dormirono nella stazione di Paderno! 


Lo spartito per piano e canto di Virtù d’Amore fu stampato l’inverno successivo da Ricordi


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