A qualcuno, che aveva intrapreso il viaggio per scopi più prosaici, poteva capitare lo stesso di trovare il “maestro” in grado di dare una svolta alla sua vita. È successo a Peppino, Giuseppe Ponzoni, che per motivi “romantici”, nel novembre del 1977, è partito da Verderio con Germano Lisignoli, e, una volta arrivato in India …
"Peppino" con Fabrizio Oggioni (Fritz) |
Ma è meglio sentirlo narrare da lui.
Questo racconto sarebbe dovuto essere un’intervista “a tre”, con Peppino e Germano a rispondere e io a fare domande. Non è stato possibile trovarci, perché il primo non abita più a Verderio e quindi ho sentito lui con Skype e, in seguito, Germano di persona.
Il racconto di Peppino scorre così bene, che le domande che mi ero preparato mi sono rimaste in tasca e solo saltuariamente l’ho interrotto per qualche chiarimento.
Sentiamolo:
Peppino (P) - Io non avevo mai pensato di andare in India. Ne avevo sentito parlare, sapevo di ragazzi, di giovani che ci andavano, ma non era nelle mie mete.
In quel periodo vivevo, già da due o tre anni, in Sicilia dove, con degli amici, avevo acquistato una casa e un po’ di terra e messo in piedi una “comune".
Improvvisamente però la situazione era cambiata: la ragazza con la quale stavo, che mi aveva semi-lasciato, per non dire lasciato, era partita per l'India, dove c’era già suo fratello.
Siccome non avevo ancora abbandonato le speranze di tornare con lei, decisi di partire anch'io e di cercare di ricucire il rapporto.
A Verderio, anche dopo la partenza per la Sicilia, avevo mantenuto i contatti con una “compagnia”, con la quale si andava a ballare, si scendeva all’Adda, si facevano altre cose. Un gruppo abbastanza unito, che comprendeva anche Germano.
Quando io tornai dalla Sicilia dicendo: “Vado in India” Germano disse: “Vengo anch'io”.
Marco (M) - È stato l'unico ad offrirsi?
P - Sì, è stato l'unico che ha osato, diciamo così …
La "compagnia di Verderio" all'Adda. Peppino è quello in prima fila con occhiali e fascia (foto Maurizio Besana) |
M - Quanti anni avevate?
P - Lui non lo so, penso sia della mia età o più giovane di qualche anno … Era il '77, io sono del '52, quindi avevo 25 anni [anche Germano è del 1952 N. d. R.] .
M – Parliamo un attimo della “comune”. Cosa facevate?
P - Coltivavamo la terra, ma in realtà non ne avevamo a sufficienza per vivere. Oltre a quello, perciò, facevo il forestale (i famigerati forestali del sud, ma io mi impegnavo): ero assunto a chiamata, su un anno lavoravo tre o quattro mesi. Nella zona in cui vivevo c'erano tanti boschi, contrariamente a quello che si pensa della Sicilia, per cui eravamo in giro a fare manutenzione, a fare tagliafuochi, pulire, eccetera. Vicino alla nostra casa c'era un amico, che aveva acquistato un'altra proprietà, che lavorava la pelle : ci aveva insegnato a lavorarla, per cui, nei periodi morti, facevamo dell'artigianato che poi andavamo a vendere a Palermo .
M - In che paese abitavate?
P - A Piazza Armerina, dove c'è la “Villa del Casale”, sei stato?
M - Sì.
P - All'epoca era proprio un paese tipico siciliano molto particolare, isolato. Ci sono stato un paio di anni fa, è completamente trasformato, mi ha un po' deluso: va bé …
M - Nostalgia …
P - Sì, difatti. Io allora facevo quello: facevo l'hippy.
M -E Germano?
P - Forse lavorava già all'ospedale, sinceramente non mi ricordo, non te lo so dire …
Insomma abbiamo raccolto armi e bagagli e siamo partiti.
In India, allora, si andava via terra, era il periodo del “magic bus”. Siamo partiti da Verderio e siamo arrivati a Brindisi in autostop, dove abbiamo preso il traghetto fino a a Igoumenitsa, in Grecia. Da qui, in autobus, siamo arrivati ad Atene, la prima vera tappa. Il viaggio via terra era un viaggio a tappe, un po' come le carovane, solo che al posto di fermarti nelle oasi ti fermavi nelle città di interscambio.
M – Avevate qualche compagno di viaggio?
P - Abbiamo trovato qualcuno ad Atene. Fin dall'inizio abbiamo scoperto - e strada facendo, è diventato una costante - che c'era un flusso molto grande di persone che viaggiava. Negli alberghi o nei ristoranti trovavi ragazzi occidentali - alcuni italiani, tanti stranieri - con i quali t’intendevi parlando l'inglese ma con cui riuscivi a farti capire anche aldilà delle parole. Si faceva amicizia, ci si scambiava notizie sugli itinerari di viaggio, le cose pratiche: che autobus prendere, quale treno, eccetera
M - Erano tutti diretti in India?
P - Sì, sì ...in quel periodo sì. Poi, nel corso del viaggio alcuni decidevano di fermarsi prima, oppure qualcuno si fermava in Turchia, o in Afghanistan, per un mese.
In Iran in quel tempo c'era lo Scià e quindi non era proprio il caso di fermarsi perché ti blindavano. Era un periodo molto trasgressivo e la polizia dello Scià era molto rigida verso le persone dirette in India
M - Non è che dopo siano migliorati tanto ...
P - Sì, però erano pesanti, molto pesanti ...
M - Ad Atene quanto vi siete fermati?
P - Due o tre giorni. Da lì bisognava andare ad Istanbul in treno, e non è che ci fossero i trasporti giornalieri o ad orari molto precisi, era tutto molto orientale. Alla frontiera Greco turca succedeva come nei film di guerra: staccavano i vagoni e ti lasciavano lì, in una terra di nessuno, di notte al freddo al buio, per delle ore, senza sapere cosa succedesse. Alla mattina, quando gli girava arrivavano i gendarmi e le guardie di frontiera, e cominciavano le perquisizioni in cerca di droga, di armi di tutto. Poi si ripartiva. Era il primo battesimo di frontiera.
Istanbul, era una città bellissima – lo è ancora oggi, ma nel ‘77 lo era di più - e cominciavamo a sentire l’oriente, a respirarne l’aria .Ci siamo fermati qualche giorno in più del solito.
Alloggiavamo in alberghetti, ostelli. Eravamo abbastanza economici nel viaggio, non scialavamo. Non dormivamo in strada con il sacco a pelo, però non andavamo nei cinque stelle, per capirci.
A Istanbul dovevamo fare il visto per l’Iran. Ogni paese lo richiedeva. Quando arrivavi in un paese, dovevi cercare l’ambasciata o il consolato di quello successivo e richiedere visto, e poi aspettare il che ti arrivasse. Nel frattempo organizzavi la tappa successiva.
A Istanbul avevamo scoperto che per andare a Teheran, in Iran, c’era un treno alla settimana. Mi sarebbe piaciuto tantissimo prenderlo, perché a un certo punto lo staccavano e lo mettevano su un traghetto, tipo Villa San Giovanni- Messina, e per quasi un giorno si navigava su un lago immenso. Purtroppo l'avevamo perso: partiva il mercoledì, me lo ricordo ancora, e le nostre pratiche erano state pronte solo il giovedì.
Abbiamo dovuto prendere un autobus , e che autobus!
Dopo un giorno, un giorno e mezzo o due, non mi ricordo, siamo arrivati a Erzurum, ai piedi del monte Ararat, il luogo dove sarebbe approdata l’Arca di Noè. Un freddo barbino – cazzo - faceva un freddo …. Tra l’altro lì nelle bettole, negli alberghi e nei ristoranti del posto c’era tutta un’aria strana, un buio, tutti i narghilè; era inverno, saremo stati a novembre. La cosa buffa di questi alberghi è che, se volevi scaldarti, dovevi comprarti la legna, come extra, e accendere la stufa che avevi in camera, insomma ti dovevi dare da fare.
Cominciavamo a scoprire anche i cibi. Ad esempio il “ciapà”, delle specie di piadine, un pane arabo, che trovi dappertutto, dalla Turchia in poi. Cambia nome ma è sempre quello: acqua e farina e poi lo mettono in forno, ognuno il suo tipo di forno.
Peppino, il terzo da destra, quando lavorava come tecnico per il complesso Equipe 84 |
M – Riuscivate a entrare in relazione con la gente dei luoghi dove arrivavate?
P – Dipende. Sul percorso trovavi personaggi che avevano a che fare con gli occidentali e con loro si riusciva a parlare, a dialogare. Però non era il popolo locale, erano … i ruffiani, passami il termine, quelli che vivevano sul turismo e quindi … non c’era questo grande incontro. Percepivi i costumi, la cultura, i modi di fare, ma era tutto mediato dal denaro, capisci?
Quando andavi in giro vedevi le persone del popolo ma non parlavi, non dialogavi. Andavi dal fruttivendolo compravi la frutta, a gesti capivi, cercavi di entrare in sintonia per quel poco che potevi.
Da Erzurum, con un altro autobus siamo arrivati alla frontiera con l'Iran, e poi, di notte, a Teheran, una città caotica molto occidentalizzata, perché lo Scià era partner degli Stati Uniti e quindi spingeva molto sull'occidentalizzazione della nazione. Si percepiva un'aria meno morbida, più spigolosa, un po' più mirata al dollaro, non so come dire, c'era un'altra atmosfera rispetto alle città precedenti. E poi la polizia dello Scià vedeva di malocchio questo flusso di persone come noi.
M - Avete avuto qualche brutta esperienza?
P - No, non abbiamo avuto alcuna brutta esperienza, però percepivi di non essere il benvenuto. Quando avevi a che fare con la polizia (ad esempio per il visto) eri trattato malissimo. Non ti sentivi accolto. Per questa atmosfera, che non ci piaceva, e per l'albergo molto brutto, ci siamo fermati solo un paio di giorni.
Siamo partiti in treno. Erano organizzatissimi:ti davano il biglietto, il posto. Un po', come la Freccia Rossa adesso, per capirci. Erano all'avanguardia.
Siamo arrivati a nord dell'Iran, a Mashad, che è una città santa per l'Islamismo, non come La Mecca, però è anch'essa molto importante. C'erano degli Ayatollah, delle scuole coraniche. Anche lì ci siamo fermati poco, abbiamo fatto il visto per l'Afghanistan e siamo partiti.
Alla frontiera, prima di uscire dall'Iran, ti facevano passare per un percorso obbligato, dei corridoi come nei supermarket, dove, in alcune vetrine, erano esposti tutti i nascondigli possibili e immaginabili usati per nascondere hascisc.
M - A sì? Te li facevano vedere per farti capire che non c'era scampo?
P - Sì, esatto. Della serie: “Sappiamo tutto!”. C’era il tubetto del dentifricio vuoto, il sapone tagliato, scavato e riempito, i libri con la copertina in pelle, i tacchi delle scarpe, i doppifondi delle valigie. Di tutto, veramente.
Peppino a sinistra in una foto scattata da Maurizio Besana |
M - E se ne inventavi uno nuovo ti davano un premio?
P – Eh eh, forse … Finito il percorso uscivi e c'era la terra di nessuno, quasi un chilometro di deserto che dovevi percorrere a piedi, con i tuoi bagagli, fino ad arrivare in Afghanistan.
Percorrendo l’ultimo metro di questo chilometro, mi era sembrato di passare una barriera invisibile, che però c'era ed era molto percepibile, e la mia sensazione, quasi a pelle, era stata: “Questo è il confine fra occidente e oriente”.
M - Quindi l'Iran era ancora occidente?
P - Per la mia percezione sì. L'Iran, come anche la Turchia, la Grecia, erano già paesi orientali, però il vero confine, per me, è stato lì: il passaggio in Afghanistan.
M - Il mondo diverso cominciava lì ..
P - Sì, un altro mondo iniziava da lì. Che poi è stata la mia esperienza perché lì, per me, era iniziato veramente un altro mondo.
A questo posto di frontiera abbiamo pasteggiato fumacchiato, bevuto, insomma, ci siamo riposati. Poi abbiamo preso un pulmino, tipo i Ducato grandi, quelli che trasportano i passeggeri, da una quindicina di posti. Solo che quello era pieno all'inverosimile, c'erano tutti gli afgani sul tetto. Saremo stati cinquanta persone.
M - Su un furgone da quindici?
P - Da venti, esagera
M - Più i bagagli?
P - Più i bagagli. Dovevamo arrivare a Herat, dove c'era, o c'è, il contingente italiano, 170 chilometri di strada dritta nel deserto.
Su questa strada dritta ho avuto un incidente molto grave.
Un camion che ci stava superando, rientrando dal sorpasso - dato che il nostro autista, non so perché, non ha rallentato per facilitarlo - ci ha buttato fuori strada. C'era un sorta di scarpatina, perché la strada era rialzata, e l'autobus si è rotolato su se stesso e io mi sono trovato praticamente tutti i pesi addosso … non so cosa mi sia successo. So che mi sono venuti tutti addosso. Per di più ero vicino al finestrino: nel rotolare ho picchiato la testa contro il vetro, ho perso conoscenza e mi sono svegliato un tot di tempo dopo in un bagno di sangue. Fortunatamente non mi sono rotto la testa però ero quasi “scalpato”.
M - Quando ti sei svegliato eravate ancora sul posto dell'incidente?
P - Sì, mi sono svegliato lì e la fortuna è stata che Germano fosse con me…
M - Lui non si era fatto niente?
P - Mi ero fatto male solo io e un afgano, che era sul tetto e si era rotto il bacino. Comunque mi sono svegliato, con un male della miseria. È stata un'esperienza molto forte perché, in quel frangente, ho vissuto la morte. Sai quando leggi di gente che muore che vede, che sente, che bla, bla, bla. A modo mio ho vissuto un'esperienza del genere poi però sono tornato indietro.
M - Quanto tempo sei rimasto incosciente?
P - Penso per tanto tempo, però non lo so.
Dopo è arrivato un altro autobus; l'hanno obbligato a fermarsi, mi hanno caricato e dopo più di un'ora siamo arrivati all'ospedale di Herat. Mi hanno dato la morfina, mi hanno cucito e mi hanno tenuto lì per un po' di giorni. Germano veniva a trovarmi, mi aiutava, comprava le medicine, perché lì non è che ti ricoverano, come in Italia, e poi sei coperto. Eri in balia di te stesso.
Sono stato ricoverato per una settimana o due, non ricordo di preciso. Però il desiderio di tornare a casa non mi è mai venuto, ero deciso a proseguire. Era stato un incidente grave però mi dicevo: “No, no, non torno. Vado avanti ancora un po' e poi decido”. Non perché pensassi ancora alla mia fidanzata, o ex fidanzata: ci pensavo ancora, ma la decisione di continuare il viaggio era legata a quello che avevo vissuto durante l'incidente: questo mi aveva dato delle dimensioni, delle comprensioni che mi avevano colpito e che mi inducevano ad andare avanti. Quindi ho continuato, Germano mi ha aiutato e siamo arrivati a Kabul.
M - Quindi l'obiettivo della fidanzata da riconquistare rimaneva, ma era subentrato qualcos'altro?
P - Sì, dopo l'incidente,senza un motivo logico, avvertivo l'esigenza, l'impulso di continuare. Non era logico, perché la logica suggeriva: “Tornatene a casa e ringrazia che sei ancora vivo”.
M – La tua famiglia sapeva dell'incidente?
P – No. Anche perché all'epoca c'erano pochi telefoni (ovviamente non c'erano i cellulari). Ogni tanto, in albergo, ne trovavi uno che funzionava e allora telefonavi. Ma era complicato perché non si prendeva la linea facilmente, bisognava passare dall'operatore e costava una fucilata.
Allora mandavi notizie a casa scrivendo di tanto in tanto. E potevi anche riceverne utilizzando le caselle postali, il fermo posta. Quando arrivavi nelle città, andavi con il passaporto alla posta centrale e chiedevi: “C'è posta per me?” Loro controllavano e ti davano quello che ti era arrivato. Era il modo per comunicare, all'antica …
M - Siamo arrivati in Afghanistan, tre settimane di sosta forzata …e poi? Quando sei ripartito eri guarito?
P - Stavo meglio, però a Herat mi avevano solo cucito.
A Kabul, sono andato all'ospedale militare americano, l'unico esistente, dove mi hanno tolto una sacca di sangue che si era formata tra il cranio e lo scalpo: mi sembrava di avere una boule dell'acqua calda in testa, che faceva blub, blub … blub, blub. Mi hanno dato anche gli antibiotici che non c'erano a Herat.
Però non avevano la macchina dei raggi X, per cui sono dovuto arrivare in Pakistan, a Peshawar, per fare la prima radiografia e avere la conferma che non c'erano fratture. Avevo anche perso gli occhiali, che ho dovuto rifare. A Delhi mi hanno tolto i punti, dopo circa un mese dall'incidente.
Dopo Kabul, siamo passanti in Pakistan, prima a Peshawar e poi a Lahore, all’altra estremità del paese. Lì abbiamo fatto il visto e finalmente siamo arrivati in India, in Punjab, ad Amritsar, dove c’è il tempio d’oro dei Sikh. Ci siamo fermati un paio di giorni e poi siamo andati a Delhi.
Abbiamo lasciato il bagaglio all’ambasciata. Erano gentili, all’epoca. Praticamente facevano un po’ da deposito dei bagagli per gli italiani che erano in giro. Viaggiavi con un sacco di roba, perché lungo il tragitto faceva molto freddo. Quando arrivavi, per non buttarla via, la lasciavi all’ambasciata e la riprendevi quando ritornavi in Italia.
A Delhi io e Germano ci siamo divisi: mi pare che lui sia andato a Varanasi (Banares), nord est dell’India. Io invece avevo trovato una lettera di Allison, la mia morosa, che era in Sri Lanka, che allora si chiamava Ceylon.
Ci siamo separati, perché ci andava bene così, non per rancore o chissà che cosa.
M - Ognuno aveva una sua strada da fare …
P - Sì, Germano aveva in mente delle cose, io delle altre, ci andava bene così. Ci siamo rivisti a Verderio.
Da Delhi sono andato prima a Bombay e poi a Goa, dove sono arrivato per le feste di Natale e del primo dell'anno, circa due mesi dopo la partenza da Verderio.
A Goa era il periodo Hippy e c’erano party su party, per le feste di Natale, per il primo dell’anno, ... bastava trovare una festa come scusa per fare un party.
Da lì, con altre tappe, passando per un posto che si chiama Appi, a sud est di Goa, ho raggiunto il fratello della mia fidanzata a Pondicherry, che era stata una colonia francese – come Goa era stata una colonia portoghese – e che si trova a sud di Madras
Peppino con il papà, dopo il ritorno dall'India |
M - Tutti posti che fanno parte dell’India?
P - Sì, che fanno parte dell’India, ma dove si respira “un’aria” particolare. Come in Italia, se vai in Alto Adige non respiri l’aria italiana, a Goa si respira ancora l’aria portoghese, anche se ci sono gli indiani ed è India. Lo stesso a Pondicherry, che è India ma si respira l’aria della Francia: i poliziotti con le divise alla francese, le case fatte in un certo modo, i cibi, eccetera … E lì abitava il fratello di Allison, George, che frequentava l’asrham di Aurobindo
M - Cos' è di preciso un’asrham?
P - È un luogo dove si presume che ci sia una persona che abbia degli insegnamenti da darti, un maestro, un guru. La cosa che più gli si avvicina, qui in occidente, è il convento, o il monastero. Ma in un monastero l’abate, per quanto ne so io, fa sì un po’ da padre spirituale, ma, più che altro, mantiene la disciplina, fa rispettare la regola.
In un asrham invece lo scopo non è tanto di vivere lì e concedersi il tempo per riflettere e contemplare, ma è quello seguire gli insegnamenti di un maestro vero e proprio che ti istruisce e ti dà le indicazioni per la tua vita.
M – Chiunque poteva accedere a questi asrham?
P - Ad alcuni sì, ad altri no. In questo sì. Anche perché Aurobindo, il maestro, aveva avuto come prima discepola una francese ed aveva quindi un’apertura maggiore verso gli occidentali.
A Pondicherry sono stato ospite di George, che aveva una casa, e ho frequentato anch'io l'asrham. Poi è arrivata da Ceylon una lettera di Allison, che diceva di aver preso l’epatite. L'abbiamo raggiunta per curarla e, quando è migliorata, siamo tornati tutti e tre a Pondicherry.
La loro madre voleva che la figlia tornasse in Italia e aveva mandato due biglietti aerei Madras – Bombay. George non voleva tornare a casa e quindi, fino a Bombay, l'ho accompagnata io ed è tornata in Italia.
Eravamo a marzo ed avevo finito i soldi.
M - Quanti ne avevi alla partenza?
P - Ero partito con 360 dollari. Non erano tanti neanche allora. Un dollaro valeva forse 600 e qualcosa lire.
M - Comunque eri rimasto senza.
P – Sì, però non ti ho detto che prima di partire avevo incontrato un amico della compagnia, un amico anche di Germano, che era stato in India ed era stato a Pune.
M - Uno di Verderio?
P - Di Trezzo. Giorgio, che chiamavamo “Underground”, perché parlava sempre di underground, perché quello era il momento dell’underground: Carlo Silvestro, Angelo Quattrocchi, Allen Ginsberg, Jerry Rubin, quella tendenza lì. E lui ci aveva detto sono stato in India, un posto bellissimo, un maestro, un asrham qua, là, su e giù. Io ero un po’ restio: da un lato mi attirava dall’altro avevo fatto degli incontri con dei discepoli occidentali di questo maestro e mi avevano un po’ irritato, per cui ero prevenuto.
Però, avevo finito i soldi e “Underground”, in una lettera, mi diceva di essere a Goa e che se fossi passato me li avrebbe prestato lui. Così vado a Goa, lo incontro, e mi dice: “Sì, i soldi ce li ho, ma a Pune”.
Va bene, andiamo a Pune. Qui incontro tanti amici che avevo in Italia, che non sapevo fossero lì. Gente che avevo conosciuto in Sicilia, e in altre parti. Una sorpresa. per me.
Dopo qualche giorno ho conosciuto il maestro che guidava questo asrham. All’epoca si chiamava Bhagwan Shree Rajneesh. In Italia i suoi seguaci erano noti come la setta degli arancioni. Sono rimasto affascinato e sono diventato un arancione.
M – Quando sei tornato in Italia?
P – Mi sono fermato a Pune per un mese, un mese e mezzo. Verso maggio, sempre via terra, facendo il viaggio all’incontrario, sono ritornato in Italia. Questa volta però, in Grecia non ho preso il traghetto: ho fatto l’autostop, sono passato da Tarvisio. Faceva un freddo becco, mamma mia, io ero vestito leggerissimo da India. A casa i miei mi hanno accolto a braccia aperte ed è finito il primo viaggio in India.
M – Come sono stati i tuoi rapporti successivi con questo paese?
P - Di amore e di odio. Odio perché è un paese che non ha mezze misure, o lo ami o lo odi. A momenti era odioso, a momenti amorevole.
Sono stato molto attratto da questo posto, aldilà dall’essere un discepolo di un maestro, tanto da aver trasferito il mio luogo di vita dall’Italia all’India. Stavo in India sei, sette mesi poi tornavo in Italia, lavoravo due o tre mesi e poi tornavo là.
M - Per quanti anni?
P - È andata avanti così almeno fino al novanta, novantacinque. In varie modalità, non sempre nello stesso modo e per lassi di tempo a volte più lunghi, a volte più corti. Però c’è sempre stato un filo diretto.
M – Parlami degli insegnamenti del tuo maestro.
P – No, adesso finiamola qui. Sono piuttosto stanco. Facciamo un'altra puntata.
M – D'accordo. Ma la fidanzata che fine ha fatto? È rimasta ex?
P - Sì’, dopo che ci siamo visti a Ceylon era chiaro che non … anch’io ero … non rassegnato ma dicevo va bé, senti … anche perché erano quattro mesi che giravo l’India, ne avevo fatte di esperienze, mi erano successe tante di quelle cose ... t’é capì?
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