"La lingua del viaggio" è il primo capitolo del saggio di Angelo Arlati intitolato "La lingua dei Rom", pubblicato sul numero 376 della "Rivista Anarchica" (dicembre 2012/gennaio 2013, n.9. anno 42). Come leggere il resto? Forse scrivendo a: arivista@tin.it o telefonando al numero 02 2896627.
Negli anni settanta, a Lecco, compravo la rivista da Giovanni Sorrenti, attore, anarchico, simpaticissimo, che non girava mai senza qualche copia da diffondere. Marco Bartesaghi
LA LINGUA DEL VIAGGIO , Angelo Arlati
“I řomani čhib si jekh but purani, pattjivali, barvali taj zorali čhib. Odoleske, ma bistren la: kon bistrel la, bistrel pes”
"La lingua rom è una lingua molto antica, nobile, ricca e forte. Perciò, non dimenticatela: chi la dimentica dimentica se stesso"
Janardhan Pathania, indiano
Il romanés o romani čhib, la lingua dei Rom, è la lingua del viaggio, poiché è la lingua di un popolo nomade che, come vedremo, si è formato sulle strade dell'India prima, del Medio Oriente poi e infine dell'Europa e si modifica a ogni nuovo contatto con le varie realtà locali.
Per molto tempo si è ritenuto il romanés un linguaggio artefatto o, peggio, un gergo della malavita. Nel 1515 Aventino, un umanista e storico bavarese diceva che era una lingua venedesa o esclavona, ossia slava. Alla fine del XVII secolo Hans Christoph Wagenseil, professore di lingue orientali ad Altdorf, sosteneva che la loro lingua era un misto di tedesco e di ebraico, scambiando per gitano un lessico yiddish. Il celebre poeta francese Pierre de Ronsard nella sua opera "La Franciade" lo considerava alla stregua di un argot e Pechon de Ruby nel 1596 accomunava i Boesmiens e la loro lingua ai pitocchi e ai mendicanti. Nel 1608 il teologo fiammingo Martin Delrio lo considerava un linguaggio fittizio ad uso furbesco, chiamato ziriguenca o girigonza. In Spagna il linguaggio dei gitani, detto kalò, era considerato alla stregua di un gergo, tanto che diversi vocabolari spacciavano per voci gitane termini della Germania, il gergo furbesco spagnolo.
Fu nella seconda metà del secolo XVIII che si cominciò a capire che i Rom parlavano una vera e propria lingua. All'inizio fu l'intuizione di un ungherese, Stefano Valyi, studente di teologia all'università di Leida in Olanda, che discorrendo con alcuni giovani malabaresi suoi compagni di studi notò che molte parole della loro lingua avevano una straordinaria somiglianza con la lingua dei Rom del suo paese. La notizia - in effetti non si trattava di una scoperta scientifica ma di una curiosità - fu pubblicata sulla Gazzetta di Vienna nel novembre del 1763. Nel 1782 il tedesco Johann Carl Cristoph Rüdiger, professore all'università di Halle, pubblicò su una rivista scientifica un articolo "Von der Sprache und Herkunft der Zigeuner aus Indien" ("Sulla lingua e le origini degli zingari dall'India"), nel quale dimostrò la parentela del romanés con i linguaggi dell'India. Ma il vero "scopritore" delle origini indiane del popolo rom fu il tedesco Heinrich Moritz Gottlieb Grellmann, che può essere considerato il padre della ziganologia o romologia, come si preferisce oggi. In un libro "Die Zigeuner. Ein Historischer Versuch über die Lebensart und Verfassung, Sitten und Schicksale dieses Volkes in Europa, nebst ihrem Ursprunge" ("Gli zingari. Un tentativo storico sul modo e concezione di vita, costume e sorte di questo popolo in Europa, come pure sulle sue origini"), pubblicato a Lipsia nel 1783, egli dimostrò una volta per tutte l'origine indiana dei Rom, unendo alle analisi linguistiche anche l'indagine storica e la descrizione dei loro costumi. Da allora i tedeschi si cimentarono nell'approfondimento grammaticale e lessicale del romanés e fu ancora uno di loro, un funzionario della pubblica istruzione della Turingia Alfred Graffunder a compilare nel 1835 la prima grammatica con la formulazione sistematica delle regole morfologiche e sintattiche in un interessante lavoro intitolato "Ueber die Sprache der Zigeuner: eine grammatiche Schizze" ("La lingua degli Zingari: uno schizzo grammaticale").
I Rom hanno sempre nutrito una grande diffidenza nei confronti dei gağe (i non Rom) per cui in passato hanno cercato di mantenere "segreto" il loro linguaggio. A metà ottocento l'inglese George Borrow, l'evangelizzatore dei gitani spagnoli e grande conoscitore della loro lingua, si sentì apostrofare da una vecchia gitana con queste parole: "Cattivo che vieni in mezzo a noi e ci rubi la nostra lingua!". Oggi le cose sono cambiate e si registra una generale apertura dei Rom. I Servika Roma della Slovacchia si compiacciono se un gagio parla con loro in romanés. I Sinti piemontesi, che stanno perdendo il loro dialetto, non solo si mostrano disposti alla collaborazione nella compilazione di grammatiche e vocabolari, ma esprimono la loro gratitudine per chi li aiuta a preservare una così preziosa tradizione. I Rom balcanici abituati a una ricca letteratura in lingua non si sono mai posti problemi. È vero, però, che permangono legittimi sospetti e cautele da parte di alcuni gruppi, a causa dell'atteggiamento persecutorio riservato loro in passato. I Sinti tedeschi non dimenticano che durante il nazismo Robert Ritter e Eva Justin cercarono di imparare il romanés per facilitare l'accesso alle loro comunità e mandarli nei campi di concentramento.
Ma a parte questi casi sporadici, il dispositivo linguistico relativo al romanés, sia quello filtrato e per così dire mediato dai gage che quello direttamente espresso dai Rom, è quantitativamente rilevante e cronologicamente di lunga data. Dalle prime sporadiche raccolte di voci romane del cinquecento, come il piccolo "vocabolario" di una settantina di parole messo insieme intorno al 1515 dal bavarese Johannes Grafing su un informatore incontrato a Vienna o il campionario di tredici frasi in romanés che il viaggiatore inglese André Borde ha inserito nel suo libro "Fyrste boke of thr introduction of knowledge" ("Primo libro di introduzione alla conoscenza") pubblicato a Londra nel 1542 o il vocabolario romani - latino di una settantina di termini raccolti dallo studioso francese Joseph Scaligero inserito in appendice al libro dell'umanista olandese Bonaventura Vulcanius "De Literis et lingua Getarum sive Gotorum ... quibus accesserunt, specimina variarum lingua rum" ("Lingua e letteratura dei Geti o goti ... con in appendice elementi di varie lingue"), pubblicato a Leyda nel 1597 o le fondamentali opere dei grandi linguisti dell'Ottocento e del primo Novecento, tra cui: "Romani Chib" (1821) del boemo Anton Puchmayer; "Die Zigeuner in Europa und Asien" ("Gli zingari in Europa e Asia") in due volumi del tedesco August Friedrich Pott (1844-1845); il "Vocabulario del dialetto gitano" (1844) di Enrique Trujilio; il dizionario del dialetto kalò (1841) di George Borrow; "Etudes sur lesTchinghianés ou les Bohémiens de l'Empire ottoman" (1870) del greco Alessandro Paspati; "Czigány nyelvtan. Románo csibákero sziklaribe" (Grammatica zingara) (1888) dell'arciduca d'Austria Josef Carl Ludwig, cugino dell'imperatore Francesco Giuseppe I d'Austria; gli studi del linguista austro-sloveno Franz Miklosic e le numerose opere del tran silvano HeinrichWlislocki, nonché lo straordinario lavoro "The dialect of the Gyspies of Wales" (1926) dell'inglese John Sampson.
In tempi recenti, specialmente a partire dagli anni '60 del Novecento, è andata maturando nei Rom una nuova coscienza nazionale alimentata dal bisogno di affermare la propria cultura e, di riflesso, la valorizzazione del proprio linguaggio. Ne è nata una straordinaria produzione di opere linguistiche, grammatiche, dizionari, prontuari di conversazione per iniziativa soprattutto di attivisti e intellettuali rom. Si può dire che ogni gruppo etno-linguistico (almeno un centinaio) ha la propria grammatica e il proprio vocabolario. A questi si aggiungono decine di opere didattiche in lingua romani, come libri scolastici, abbecedari, manuali di matematica, opuscoli illustrati di educazione civica e sanitaria. Un contributo fondamentale all'azione politico- rivendicativa dell'intellighenzia romaní è dato dai giornali e dalle riviste in romanés, importanti mezzi di diffusione ideologica e organi delle numerose associazioni attive soprattutto nell'Europa dell'Est. Prima della guerra, in Bosnia operavano una radio e una televisione che diffondevano i loro programmi in lingua romanés. Anche in Kosovo negli anni '90 vi erano un'emittente rom, Radio Pristina, e il periodico "Khamutne Dive" (Giorno di Sole). Nella ex-Jugoslavia la rivista mensile "Krlo e Romengo" (La voce dei Rom) di Belgrado; in Slovacchia la "Romani Pjatrin" (Foglia romani) e il bimestrale "Romipen" (Identità rom); in Ungheria le riviste "Phralipe" (Fratellanza) e "Amaro drom" (La nostra via); in Grecia la rivista "Phabaj lolí" (La mela rossa); nel Burgenland la rivista bilingue romanés- tedesco "Romani Patrin" (Foglia romani) e così via.
Dalla fine degli anni '60 si registra anche la nascita di una letteratura romaní, non tanto con scopi letterari quanto di affermazione personale all'interno della comunità rom e di coscienza e rivendicazione nazionale nei confronti dei gağe . Vi è una discreta produzione narrativa, una moda diffusa per le raccolte di paramiča, fiabe e racconti, sillogi varie in cui si combinano poesia, argomenti storici e sfoghi individuali, autobiografie roboanti e celebrative di sé e della propria parentela; ma dove l'animo rom si esprime con più libertà è la poesia (i poeti spuntano dovunque come funghi).
Se si può fare un appunto è che , salvo rarissime eccezioni, la produzione romaní è esclusivamente "endografica", ripiegata su se stessa, dove il soggetto privilegiato è la propria dimensione romaní declinata nelle varie sfumature romantiche, vittimistiche, orgogliose, evocative del passato ecc. Questo carattere "autoreferenziale" dell'attività linguistica romaní si palesa in una straordinaria opera di traduzione dei massimi capolavori della letteratura europea e mondiale nei vari dialetti rom, come l'epopea di Gilgamesh, l'Iliade, l'Odissea, le Fiabe di Esopo, parti della Divina Commedia di Dante, la Medea di Euripide, l'Amleto di Shakespeare, il Romancero gitano di Federico Garcia Lorca e naturalmente il poema indiano di Ramayana, oltre a opere di letteratura infantile, come "O tinko princo" (Il PiccoloPrincipe) di Saint-Exupery e molte altre. Come sembra ovvio, queste traduzioni sono un esercizio dimostrativo delle capacità espressive del romanés e un forte messaggio di orgolgio agli stessi compatrioti Rom.
Sullo stesso piano, anche se con una valenza aggiunta di apostolato religioso, si possono collocare le numerose traduzioni della Bibbia o di parti di essa a cui si sono dedicati studiosi rom e gage. Il primo esempio è il "Vangelo di Lucca", tradotto per la prima volta in un dialetto Sinto nel 1836 da C. Frenkel, seminarista tedesco di Friedrichslohra in Turingia, seguito l'anno successivo dal "Libro di san Luca" o "Embéo e Majaró Lucas", tradotto nel dialetto kalò da George Borrow, missionario della Società Biblica Britannica. Da allora si hanno decine e decine di passi della Bibbia nei vari dialetti rom fino alla traduzione integrale in dialetto kalderaš, Budapest 2008, alla quale si aggiunge la versione completa del Corano, Serajevo 2005.
Il romanés ha un'importanza fondamentale per ricostruire e comprendere la preistoria dei Rom e il loro itinerario dall'India all'Europa. Il russo Lev Tcherenkov chiama il romanés il filo di Arianna dei Rom perché è un segno lasciato nello spazio e nel tempo che mostra le tracce del loro cammino. Di più, il romanés è il gomitolo di Arianna, poiché ci permette di ricostruire l'essenza originaria della loro storia e cultura. Il romanés è la bibbia dei rom che come un libro scritto ci racconta le loro origini, le loro vicende, la loro organizzazione socio-economica, il loro credo religioso, la loro visione della vita. La lingua dei Rom parla, a patto però che si superi l'approccio tradizionale fondato sulla semplice analisi etimologico-comparativa (traendo facili conclusioni dalla presenza in sé sic et simpliciter di un termine indiano) e si sostituisca la visione indiano-centrica che ha caratterizzato finora la ziganologia (che fa "ruotare" i rom intorno all'India con continui improbabili paragoni con gli indiani) con la visione romano-centrica (mettendo al centro i Rom e facendo ruotare intorno a loro le analogie indiane, al pari di tutte le successive analogie sussidiarie e accidentali che sono venute dopo l'esodo in Medioriente e in Europa).
Il romanés, inoltre, rappresenta il fattore principale di unità e identità del popolo rom, strumento di coesione interna e mezzo di difesa contro il mondo ostile dei gağe: : "Maškar le gağende leski čhib si le Romeski zor", in mezzo ai gağe: la lingua è la forza dei Rom. Non per niente nel Settecento le politiche assimilatrici di Carlo III di Spagna e di Maria Teresa d'Austria vedevano nella proibizione della lingua uno strumento fondamentale nel programma del loro annientamento etnico.
I Rom hanno dato un contributo sostanziale alla civiltà europea: il flamenco, lo swing manouche di Django Reinhardt, le forme di spettacolo viaggiante come il circo e i luna park. Hanno influenzato la letteratura, il teatro, la musica e l'arte, hanno preservato usi e costumi, tradizioni e fiabe dei popoli europei che altrimenti sarebbero scomparsi. Ebbene anche sotto l'aspetto linguistico il romanés non poteva non esercitare un fascino nei codici comunicativi dei gage. Tutti i gerghi furbeschi europei, infatti hanno attinto alla lingua romaní. Sono termini relativi alle persone (ciai "ragazza", gagio "sempliciotto", pal "compagno"); ad animali familiari agli ambulanti (grai "cavallo", giukel "cane", kakagna "gallina", balo "maiale"); alla malavita e alle armi (ciori "ladro, stardú "prigione", ciurin "coltello", karamaska "pistola", sciatabà "fucile", saster "arnesi da scasso", cherdì "chiavi false"); agli affari (lovi "soldi", rupin "ricco"); ai generi alimentari (bani "acqua", marok "pane", ghiralí "cacio", masa "carne", moll "vino", zeru "olio"); ai numeri (punch "cinque", desh "dieci", sced "cento").
Inoltre in diverse regioni i Rom hanno per così dire "imposto" il loro linguaggio in alcuni gerghi di mestiere per la loro indiscussa specializzazione, in particolare la lavorazione dei metalli, l'allevamento dei cavalli e la musica. È il caso del gergo dei calderai della val Soana in Piemonte, di Parre nelle valli bergamasche e di Force nel Piceno; dei mercanti di cavalli nelle fiere in Abruzzo, e del gergo "aflamencado" costituito da parole ed espressioni prese dal kaló spagnolo.
È un peccato che questa lingua puraní e patjivalí nobile e antichissima, lingua indoeuropea tra le più antiche, lingua viva e dinamica parlata da oltre 15 milioni di individui nel mondo, da circa 12 milioni in Europa e da circa 200.000 in Italia non abbia un riconoscimento giuridico, culturale e morale. In Italia, nonostante l'esistenza di una legge che tutela le minoranze linguistiche (L. 482/1999), i Rom non sono riconosciuti come minoranza linguistica in quanto non posseggono un banale requisito: la territorialità, ossia la localizzazione in un dato territorio! Eppure i Rom l'hanno un territorio: il pianeta Terra.
La storia del romanés si può dividere in tre fasi: l'età antica, quando i Rom costituivano una sola popolazione e parlavano un unico linguaggio (dall'India all'impero bizantino); l'età moderna, quando in seguito alla diaspora balcanica si costituirono numerosissimi gruppi etnolinguistici con caratteristiche culturali e linguistiche diversificate; l'età contemporanea, quando i Rom consapevoli della loro unità etnica, culturale e linguistica hanno messo in atto un movimento di unificazione e standardizzazione del loro linguaggio.
Angelo Arlati
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