domenica 5 marzo 2017

ANERIO E GIGLIOLA, UNA FAMIGLIA NATA IN CAMPO PROFUGHI di Roberto Muzio e Marco Bartesaghi

Per alcuni anni Giuseppina Gigliola Uicich e il marito Anerio Villani hanno vissuto da italiani profughi in Italia. Lei, classe 1937, proveniva da Fiume, che dal 10 febbraio 1947 era entrata a far parte della Jugoslavia. Lui, triestino, era partito dalla sua città natale insieme alla mamma, nel 1945, quando già le truppe titine avevano lasciato la città in mano a quelle anglo-americane. La sua vicenda è quindi abbastanza particolare.
Per farmi raccontare la loro storia li incontro nella casa di Merate dove abitano. Con me c’è Roberto Muzio, l’amico che me li ha fatti conoscere. Sono le sei di sera e, solo a fatica, riusciremo a smettere di parlare verso le otto. Ho una lista di domande, per cercare di seguire un certo ordine , ma alla fine non la uso. Il racconto si fa strada da solo e le domande, mie e di Roberto, sorgono solo quando se ne sente la necessità.
 

Attacco io: “So di un carabiniere  che, in servizio in Istria da prima della guerra, aveva sposato una donna del posto e avuto dei figli. Dopo l’occupazione da parte dei partigiani di Tito, intuendo il pericolo, con tutta la famiglia, compresi i suoceri, era tornato al suo paese d’origine, Verderio”.

Anerio (A) Uno dei flash di quei tempi che ho nella  mente  è quello dei tre carabinieri che i titini hanno ammazzato a Piedimonte di Taiano, nell’Istria dell’interno. Mi ricordo che se ne parlava, dei tre carabinieri di Piedimonte, me ne ricordo anche se allora ero un bambino.
Io sono di Trieste, quindi formalmente non sono un profugo dall’Istria. In città la guerra è finita il 12 giugno 1945, quando sono andati via i titini e sono arrivati, con le navi, gli angloamericani. In agosto io e mia mamma siamo partiti.
 

Domanda (D) Solo lei e sua mamma?

(A) Sì, ero orfano: mio padre, Gianni Villani, era morto nel 1938, quando avevo cinque mesi. Mia madre aveva voluto andar via da Trieste anche per questo fatto, per le traversie che aveva avuto; forse aveva  anche paura, ma non so bene di  cosa. In più aveva anche un certo spirito d’avventura.
 





Gianni Villani, papà di Anerio, prima del suo trasferimento a Trieste. Nella foto sopra è portiere della squadra di calcio. In quella sotto, scattata a La Spezia nel 1926, è il primo da destra.

TRIESTE DALL'OCCUPAZIONE TITINA ALL'ARRIVO DEGLI AMERICANI


(D) Siete stati spinti ad andar via o è stata una vostra libera scelta?
 

(A) È stata una scelta della mamma, anche perché “il brutto” ormai era passato: i titini se n'erano  andati ed erano arrivati gli angloamericani. Il periodo, durato 43 giorni , in cui gli uomini di Tito sono stati in città, penso sia stato il peggiore per Trieste.

(D) Cosa è successo in quei 43 giorni?
 

(A) Cosa è successo? Nel comune di Trieste ci sono due foibe: la foiba di Basovizza, un sobborgo di Trieste, quella maggiore, la più conosciuta, e la foiba di Opicina, sempre sul Carso perché è sul Carso che queste cose si trovano. Queste due foibe furono utilizzate per far sparire  persone.
 

(D) Chi è finito nelle due foibe di Trieste?
 

(A) Quelli che erano considerati nemici … niente di ufficiale. Ci andavano quelli di cui qualcuno aveva magari detto: “Quello lì lo conosco, era un fascista …”. Bastava questo, erano vendette personali.
 

(D) Ci sono state, fra le vittime delle foibe, persone conosciute dalla vostra famiglia?
 

(A) Sì, c’erano persone che la mia famiglia conosceva sia fra gli infoibati, sia fra gli ebrei scomparsi nella Risiera. Perché i titini hanno lasciato in ricordo le foibe, mentre i tedeschi avevano lasciato l’eredità della Risiera di San Sabba, quella che tanti chiamano il campo di sterminio italiano, ma che non è giusto chiamarlo così, perché era un campo  tedesco.
 

(D) Più giusto dire “campo di sterminio in Italia”?
 

(A) No, perché dopo l’8 settembre 1943, Trieste non faceva più parte dell'Italia, bensì della Germania.

(D) Lei era un bambino, quanti anni aveva?
 

(A) Sono nato nel 1938, nel ’45 avevo 7 anni.


Anerio con la mamma Vida, a Trieste in piazza Unità, e con il nonno Giuseppe a Muggia.





(D) Perciò di questi fatti ha anche ricordi propri, non solo per aver ascoltato i racconti dei grandi?
 

(A) I ricordi dei bambini sono come dei flash. Mi ricordo di due serate: una  “rossa” e una “bianca”. La serata rossa è quella del 30 aprile 1945. La città era ancora sotto coprifuoco. Tramontato il sole, tutto era spento. Poi, lungo il ciglio del Carso, che sovrasta Trieste, si è visto un bagliore rosso. Erano i fuochi degli accampamenti dei titini. Il giorno dopo, il primo maggio, sono calati e si sono impossessati di Trieste.
 

(D) Ce lo si aspettava?
 

(A) Sì e no. Sa, la guerra, soprattutto negli ultimi tempi, era di movimento: truppe che si spostavano, che andavano, che venivano. Però si temeva che sarebbe successo.
 

(D) Quindi il primo maggio entrano i titini e i tedeschi se ne vanno …
 

(A) Se ne vanno dopo qualche scaramuccia e qualche tentativo di resistenza qua e là  … Lo stesso giorno da Monfalcone arrivano le prime camionette dell’ottava armata inglese. Erano  avanguardie neozelandesi, arrivano con le loro jeep fino a Barcola.
 

(D) Barcola?
 

(A) E’ un rione di Trieste, dalla parte di Monfalcone, sul mare. Quel giorno era stata una corsa verso Trieste: degli inglesi, che avevano risalito la costa adriatica, e dei titini, che erano scesi dall’interno dell’Istria. Sono arrivati insieme, soltanto che i neozelandesi sono arrivati con due o tre ieep, solo una punta di diamante, mentre i titini con i carri armati. A questo punto i neozelandesi hanno fatto marcia indietro, sono tornati a Monfalcone e lì hanno tirato il confine del territorio libero di Trieste. Le truppe di Tito invece sono entrate in città e sono rimaste fino al 12  giugno. L'hanno lasciata solo grazie alle pressioni di Churchill, a cui non  “comodava” che Tito mantenesse questa posizione strategica.
 

 
Carri armati iugoslavi nelle vie di Trieste



(D) Quindi i titini si sono ritirati in accordo con gli alleati...
 

(A) Se ne sono andati per accordi politici “fra alleati”, perché anche loro erano alleati. Comunque sì, non c'è stata un' azioni bellica.
Quella sera, quando è calato il sole e Trieste era al buio, s’è visto un chiarore bianco venire dal porto. Erano le luci delle navi americane (1).
 

(D) La “serata bianca”, quindi, dopo quella “rossa” dei fuochi titini …
 

(A) Sì, ho questo ricordo visivo. Noi abitavamo in piazzale Valmaura,  dove allora c’era (e c'è ancora) lo stadio. Per arrivare al porto bisognava superare un paio di colline. A ogni finestra c'era gente che gridava “Viva i liberatori!!Viva i liberatori!!” tanta era la gioia perché quelli se ne fossero andati. Era stata proprio una cattiva esperienza.

VIA DA TRIESTE, CON LA MAMMA, IN CERCA DI UNA NUOVA VITA

(D) A questo punto però voi, lei e sua mamma, siete partiti. Perché?
 

(A) La mamma voleva partire per vedere se c’era la possibilità di iniziare qualche tipo di attività, qualche commercio. Era molto attratta dalla città di Milano, dove però non siamo arrivati direttamente. Siamo prima andati fino in fondo all’Italia, a Barletta. Lei pensava che il business dell’olio d’oliva potesse offrire delle opportunità. Pensava di farlo arrivare a Trieste e lì rivenderlo per mezzo dei fratelli.
 

(D) Uno spirito di iniziativa e imprenditoriale notevole, perché in quei momenti, per una donna con un bambino muoversi così autonomamente non doveva certo essere facile.
A Trieste non siete più tornati ad abitare, ma, alla partenza, questa possibilità era contemplata?

(A) No, escluderei che mia madre avesse qualunque intenzione di ritornare a Trieste. Aveva paura della situazione di provvisorietà in cui si trovava la nostra città.


(D) Come si chiamava sua mamma?
 

(A) Si chiamava Vida. E di cognome Franco, italianizzato da Francovich. I nomi in “ic” si usa scriverli con “ch” finale.
 

(D) Lei invece di cognome è Villani ...
 

(A) Sì, Villani. Mio padre era toscano.
 

La famiglia Villani: Gianni, a sinistra, con il padre, la sorella e la seconda moglie del padre.


(D) Invece sua madre era slovena?
 

(A) No, mia madre, come tutta la sua famiglia, era di Trieste. Però abitavano nella parte della città verso i paesi di lingua slovena. A casa dei miei nonni materni si parlava sia italiano che sloveno, o meglio, si parlavano due dialetti: il triestino italiano e il triestino sloveno. L'uno o l’altro, a seconda degli argomenti o delle persone che avevano di fronte. 

Il nonno Giuseppe Francovich con la divisa austroungarica

Poi parlavano sloveno se non volevano farsi capire da me, ma io, che ero cresciuto fin dall’età zero con loro, capivo tutto. La nostra regione, quella che poi è stata chiamata la Venezia Giulia (un nome “culturale” inventato dopo la prima guerra mondiale), è un territorio caratterizzato dall’incrocio di popolazioni, soprattutto le tre grandi radici: italiani, slavi e tedeschi. Gli slavi, inoltre, potevano essere sloveni, croati o anche altri slavi più meridionali (ma non tanti). Poi c’erano molti levantini: libanesi, greci, turchi. Ed ebrei, molti ebrei c’erano a Trieste. A metà ottocento è stata la città europea che, in proporzione alla popolazione, ospitava più ebrei : non ricordo più  se questa proporzione fosse il 5 o il 15 %. Era una zona cosmopolita, fatta di ideali transnazionali di ricerca di pace.
E allora tante volte quando mi chiedono ma voi cosa siete sloveni? slavi? italiani? Siamo tutto …


Giuseppe Francovich con la moglie Maria, nonni materni di Anerio
(D) Siete triestini insomma … Però il sogno di sua mamma di aprire una propria attività non si è avverato. Perché?
 

(A) Perché le hanno rubato la borsetta con i soldi, tutto quello che avevamo: siamo rimasti a terra. Allora tutti ci dicevano “ma voi siete di quelle parti, perché non vi unite a questi?” , intendendo i profughi istriani. Allora ci siamo aggregati ai profughi e siamo sempre vissuti con loro. Io e mia moglie ci siamo conosciuti nel campo profughi di Monza, che era in villa Reale.

LA FAMIGLIA UICICH E LA DIFFICILE SCELTA DI LASCIARE FIUME

Giuseppina Gigliola (G) Io e la mia famiglia siamo partiti nel 1951. Prima siamo stati a Trieste, poi a Udine; da Udine ci hanno trasferito a L’Aquila e da qui a Monza, alla villa Reale.
 

(D) Precisamente da quale città siete venuti via?
 

(G) Abitavamo a Fiume, anche se io sono nata in una cittadina a una decina di chilometri di distanza, Matuglie, dove il papà lavorava. Siamo stati a Mattuglie anche durante la guerra, sfollati. Dopo la guerra però siamo tornati a Fiume.
 

(D) Siete partiti nel 1951, quindi non subito dopo la guerra. Come mai?
 

(G) Quando c'era stata la possibilità di scegliere se restare lì o andare in Italia, papà non aveva voluto andar via, perché era troppo legato alla sua città, a Fiume (2).
 

 
FIUME, Corso Vittorio Emanuele II

(D) Dopo però ci ha ripensato ...
 

(G) I titini – che noi chiamavamo i “drusi” - organizzavano spesso manifestazioni, ad esempio quando veniva Tito a Fiume. Per parteciparvi arrivava gente da tutti i paesi. Mio papà faceva il camionista e trasportava le persone alle manifestazioni. Una volta ha avuto un incidente. Qualcuno, che non gli voleva bene, ha detto che aveva fatto apposta, perché era contrario a Tito. E’ stato processato e condannato. Anzi, quando è arrivato al processo era già stato condannato. Nove mesi di carcere duro. Tornato a casa, ha detto basta, non ha più voluto stare in città e siamo partiti.
 

(D) Come si chiamava suo papà?
 

(G) Giuseppe, Giuseppe  Uicich. Lui era rimasto deluso perché Fiume era la sua città, dove era nato, non sarebbe mai andato via. Tutti i suoi parenti erano già partiti. Quando c’era stata la possibilità di scegliere,  chi si considerava italiano in genere andava via. Lui no.
Papà guidava le autocisterne della Esso. Finita la guerra la ditta gli aveva offerto di fare lo stesso lavoro in Italia, ma lui aveva rinunciato. Si era licenziato, aveva preso la liquidazione, ed era andato avanti a fare il suo mestiere …
 

(D) Per conto proprio?
 

(G) No, lavorava per qualche ditta, non so quale…
 

(A) Guidava le autocisterne per il trasporto di petrolio. Mi ricordo che una delle ditte per cui trasportava era la Lampo.
 

(G) Sì, è vero, infatti era soprannominato “Lampo”: Giuseppe, detto Pepi, detto Pepi Lampo.

Giuseppe Uicich alla guida di un camion della "Standard Oil", l'azienda che poi diventerà la Esso
(D) La sua famiglia come era composta?
 

(G) Papà, mamma e tre sorelle. Mia mamma si chiamava Maria Cressevich. Era nata a Racize, un paesino sloveno a metà strada fra Trieste e Fiume. Dopo Racize c'è Starad, il paese di origine dei genitori di mio papà, sempre in Slovenia.
 

(A) La lingua materna di mia suocera infatti era  lo sloveno.
 

(G) Sì mia mamma parlava lo sloveno. Poi, trasferendosi a Fiume da ragazza, ha imparato il dialetto italiano di Fiume e parlava questa lingua quando io e mia sorella siamo nate. Venuta in Italia,  ha imparato l’italiano, soprattutto grazie alla televisione. Mio papà invece non ha mai voluto parlare né sloveno né croato: soltanto italiano. Lui disprezzava anche il fatto che mia mamma fosse di Racize, ma anche la sua di mamma era slovena. Però lui era fiumano.
 

(D) Cosa ricorda della sua infanzia a Fiume?
 

(G) Ricordo che per alcuni anni avevamo frequentato la scuola italiana. Dopo, però, le avevano chiuse. Anche perché eravamo rimasti in pochi. Tantissime famiglie erano già andate via.
Mi ricordo che con la scuola, quando arrivava Tito, si facevano i cori , i cori dei bambini. Poi andavamo a fare la “ricostruzione”. Per noi bambini era divertente.
 

Maria Cressevich con le tre figlie. Gigliola è la prima a destra
(A) Un po’ come in Italia sotto il fascismo, quando c’erano i balilla: noi facevamo il sabato dentro gli stadi o nelle piazze e con Tito era lo stesso: è la natura dei regimi autoritari.
 

(G) Ma quante cose brutte abbiamo anche visto durante la guerra, anche se eravamo bambine piccole.
Mi ricordo quando c’erano i bombardamenti, mamma mia, che roba. Scappavamo nei rifugi.
Poi, quando c'è stata la ritirata dei tedeschi, tanti erano stati fatti prigionieri. Noi bambini li vedevano dalla finestra che dava sul cortile e allora erano loro che ci facevano pena, anche se prima, quando erano gli occupanti, ci avevano fatto tanta paura. Pensi che una volta erano venuti in casa a cercare il papà. Lui non si era arruolato, perché era un tipo un po’ anarchico, non voleva. Era scappato sul tetto e noi bambine eravamo rimaste lì con la mamma. Sono arrivati i tedeschi e ci volevano fucilare. Allora il papà è tornato, l’hanno portato via e ha dovuto lavorare per loro.
 

(D) Però, da prigionieri vi facevano pena, come mai?
 

(G) Erano lì seduti, avevano sete, erano affamati e li trattavano male. Anche alla gente facevano pena e volevano portargli un po’ d’acqua, un po’ di cose, ma non ti lasciavano.
Una volta ho visto che uno voleva saltar su un camion e l'hanno fucilato, mamma mia, in strada.
Invece, finita la guerra, ricordo che portavano via quelli che erano stati fascisti, anche quelli che non avevano mai fatto niente di male. Ricordo di un nostro vicino di casa una, brava persona: l’hanno portato via e non si è più saputo niente. Tante persone che i miei genitori conoscevano, mi hanno raccontato, le hanno portate via. Ma brave persone, che erano state fasciste, sì, ma erano anche brava gente, non erano di quelli che …. E dopo si parlava, la gente raccontava: “quello lì non è più tornato”.
 

(D) Quando avete saputo delle foibe?
 

(G) A Fiume  non ne avevamo mai sentito parlare. L'abbiamo saputo quando siamo arrivati a Trieste.
 

(A) A Trieste delle foibe s’era saputo già durante l’occupazione titina. Mi ricordo mia zia Egidia arrivare a casa piangente e dire  “Li legano! Li legano! con il filo spinato e li buttano giù“ .
 

(D) Quindi a Fiume sapevate che un certo numero di persone italiane erano state portate via e non erano più tornate. Ma solo quelli che erano in qualche modo stati fascisti o anche altri solo perché italiani?
 

(G) No, solo quelli che erano stati fascisti, gli altri no. Che avevano collaborato con i tedeschi, altrimenti no.
 

(D) Quindi le famiglie italiane di Fiume che erano partite lo avevano fatto perché non gli andava bene il regime che si stava instaurando?
 

(G) Sì, è così.
 

(D) Sono partite alla spicciolata o in modo massiccio, organizzato?
 

(G) Andavano via da sole o a gruppi . Quando decidevano, vendevano tutto e partivano.
 

(A) Non c’è stato un esodo organizzato come da Pola, con la nave Toscana, nel ’47, no, no. Poi dipendeva anche da quando arrivavano i titini. Quando io e mia mamma siamo arrivati a Milano in campo profughi, nell’autunno del 1945, abbiamo trovato gli zaratini, che erano già lì da un paio d’anni, dal 1943, perché la loro città era stata occupata prima.
 

(D) Prima della guerra, com'era composta la popolazione di Fiume: qual era la proporzione fra italiani e sloveni?
 

(G) Difficile da dire , non lo so …
 

(D) I rapporti fra le diverse comunità erano buoni? Come a Trieste?
 

(G) Sì, normali.
 

(A) Finché non hanno preso troppo piede i nazionalismi, il prodotto del movimento romantico degli inizi dell’ottocento, che, in quel secolo, aveva dato l'avvio alle rivoluzioni nazionali in tutta d’Europa, compresa l'Italia.
Questo senso della nazione, quando degenera, fa si che le nazioni degli altri non siano più considerate entità uguali alla propria, con le quali si può parlare, convivere: diventano il nemico. Ciò ha portato, purtroppo, a due guerre mondiali catastrofiche.
 

(D) Ed è anche quello che è successo in Jugoslavia negli anni novanta.
 

(A) Eh sì, anche in quel caso la causa sono stati i nazionalismi interni che non si sono più sopportati tra di loro.
 

(D) Mentre a Fiume, avete detto, prima della guerra le due comunità convivevano tranquillamente.
 

(G) Sì,sì.
 

(D) C’erano amicizie e anche matrimoni misti?
 

(G) Certo, anche mia mamma era slovena.
 

(D) Lei parla lo sloveno?
 

(G) No, anche se qualcosa a scuola avevamo studiato, come lingua straniera. Ora ricordo solo qualche parola. Però quando vivevamo a Matuglie, sfollati, con gli altri bambini parlavamo croato, tant'è che, tornati a Fiume, non sapevamo più parlare il fiumano.

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1951, LA PARTENZA DA FIUME

(D) Nel 1951 partite. Come?
 

(G) In treno. Con noi era venuta via anche la nonna, la mamma di mio papà, l’unica che c’era rimasta.
 

(D) E dopo ha fatto tutti i trasferimenti con voi?
 

(G) No. Aveva un’altra figlia, mia zia, che a Fiume lavorava alla Fabbrica Tabacchi e in Italia aveva trovato lavoro alle Manifatture Tabacchi di Genova. Allora la nonna si è trasferita da lei.
 

(A) Molte persone che lavoravano alla fabbrica tabacchi di Fiume sono state assunte a Genova come sua zia. Sua mamma invece, che a  Fiume lavorava al silurificio, in Italia non ha potuto trovare un posto simile nel quale lavorare.
 

(D) Silurificio, nel senso proprio che costruivano i siluri?
 

(A) Sì, sì. Abbiamo conosciuto una persona a Mandello, un signore che custodiva  le barche, che durante la guerra operava sui sommergibili. Lui ci ha raccontato che per fare i rifornimenti di siluri andavano a Fiume.
 

Fiume - la Manifattura Tabacchi
(G) Mia mamma, quando papà era in prigione, aveva lavorato al silurificio.
 

(D) Partendo in treno, come avete fatto a trasportare le vostre cose?
 

(G) Allora eravamo poveri, non avevamo granché. Qualcosa la mamma aveva venduto: la macchina da cucire, la camera da letto, ...
 

(A) Non c’era possibilità di portar via le cose, perché non si sapeva dove si andava.
 

(D) Con quale meta siete partiti?
 

(G) Ci siamo diretti al campo profughi di Udine, dove c’era lo smistamento.
 

(D) A Fiume esisteva un’organizzazione a cui rivolgersi per sapere dove andare un volta partiti?
 

(G) No, no, non c’era niente. C’era il passaparola di quelli che erano andati via prima.
A Udine  ci siamo fermati poco. Da lì ci hanno mandati a L’Aquila , dove siamo stati due anni, dal '51 al '53; poi siamo venuti a Monza dal '53 al '55. Dopo ci hanno assegnato un appartamento a Milano.
 

(D) Parliamo dei campi: com'erano, come ci si viveva?
 

(G) A L’Aquila il campo era sopra la città, una località chiamata Roio Pineta, in una colonia estiva del Nord Italia. Gli spazi delle famiglie erano separati da tende. Per noi ragazzini era quasi un gioco, eravamo anche contenti. Ma pensi per gli adulti.
 

Campo profughi de L'Aquila - Foto di gruppo

Campo profughi de l'Aquila - Prima Comunione
(D) Per cucinare come facevate?
 

(G) Chi voleva poteva cucinare per conto proprio, ma c'era anche una mensa comune, per chi lo preferiva. Poi ci siamo trasferiti a Monza...
 

AL CAMPO PROFUGHI DI MONZA E POI, FINALMENTE, UNA CASA A MILANO

(D) Dove voi vi siete conosciuti ...

(A) Sì. Ma prima di arrivare a Monza io e mia mamma eravamo stati a Milano.
 



22 maggio 1946 - Fronte e retro di uan fotografia della Prima Comunione della Cresima presso il campo profughi di via Veglia a Milano
 
(D) Dov’era, a Milano, il campo profughi?
 

(A) Siamo stati in più di uno. Prima nella caserma Bergamaschi (3), non ricordo in che zona , ero ancora piccolo. Poi alle scuole elementari di via Veglia, dalle parti di piazzale Istria: metà dell’edificio era rimasto per la scuola, l’altra metà per noi. Da lì ci hanno spostato in un’altra scuola elementare, quella di via Palmieri, in fondo a Porta Ticinese. Da via Palmieri ci hanno trasferiti a Monza.
 

 
Classe 1a media a Milano. Anerio è il ragazzo in centro della fila in piedi.

(D) In Villa Reale …
 

(A) Nelle scuderie, là dove adesso c’è la scuola d’arte. Con pannelli di legno, erano stati ricavati dei cubicoli, in ognuno dei quali abitava una famiglia ...
 

(G) Era un po’ meglio della suddivisione con le tende, ma comunque si sentiva tutto: quando papà e mamma litigavano lo sapevano tutti.
 

(A) I cubicoli erano più o meno grandi a seconda della composizione della famiglia. Per dormire c’erano letti a castello a due piani, così si stava in tanti in poco spazio.
 

(G) A Monza siamo stati fino al 1955, poi ci hanno assegnato un appartamento a Milano, in via Inganni, dalle parti di Baggio, una zona di condomini nuovi. Uno di questi condomini era stato destinato ai profughi.
 

(D) Anche lei e sua mamma vi trasferiste lì?
 

(A) No, mia mamma lavorava all'aeronautica militare, all'aeroporto Forlanini. Come impiegata statale le assegnarono un appartamento INA, in zona San Siro.
 

(D) Suo papà aveva continuato a fare il camionista?
 

(G) No, aveva trovato posto come operaio in una fabbrica di vernici, a Villasanta. Noi sorelle eravamo andate a scuola e poi anche noi avevamo trovato lavoro.
 

(D) Lei cosa ha fatto una volta diventato “grande”?
 

(A) Ho fatto il liceo scientifico. Poi ho tentato l’università, al Politecnico, ingegneria. Però ho avuto traversie di salute, e non ho finito. Poi ho saputo dell’IBM, mi è piaciuta. Mi hanno assunto e ci sono stato fino alla pensione.
 

(G) Da Milano ci siamo trasferiti a Merate, e ci siamo trovati bene. Anche se per me all’inizio, l’idea di andar via da Milano, mamma mia …
Per il lavoro all’IBM, Siamo stati anche in America, due anni una prima volta e un anno la seconda. La prima volta siamo partiti con un figlio di 4 mesi e siamo tornati con due figli.
 

(D) Come profughi ricevevate dei sussidi dallo stato?
 

La cucina della mensa del campo profughi de L'Aquila. Maria, la mamma di Gigliola, è la signora in centro
(G) Sì. Si aveva diritto a un sussidio finché il capofamiglia non trovava lavoro. L’entità del sussidio era legata anche al fatto che la famiglia cucinasse da sola o usufruisse della mensa.





(A)  Mia madre trovò subito lavoro e il problema per noi non si pose. Per la verità, i primi giorni a Milano, nell'autunno del '45, non avevamo neanche i soldi per il cibo, ma quello era un tempo in cui molti si trovavano nelle nostre condizioni, e allora il Comune aveva istituito una serie di mense comunali (nei campi profughi invece non c'erano) in varie zona della città, nelle quali tutti potevano trovare un piatto caldo. Una di queste mense si trovava in piazzale Maciachini, e a questa andavamo noi di via Veglia 80. Due volte al giorno, a pranzo e a cena. Poi, come la manna dal cielo, arrivò il lavoro.


(G) A Milano lo trovavi subito lavoro. A L’Aquila era più difficile: la mamma andava a fare i servizi in qualche casa e lavorava alla mensa del campo. Lì era più difficile trovar lavoro, anche perché eravamo isolati. Anche per andare a scuola ci portavano con i camion. C’era anche tanta neve d’inverno … però era bello.
 


“Però era bello”. Questa frase, la signora Gigliola quasi la sussurra. Non sono capace, mi dispiace, di trasmettervi la tenerezza e la malinconia con le quali la pronuncia.


I SEGNI LASCIATI DA QUESTA ESPERIENZA

(D) Cosa del vostro carattere è frutto di quell’esperienza? Rabbia, rancore sono sentimenti che avete provato e che magari provate ancora verso qualcuno?
 

(G) Be, un po’ sì. Un po’ di rancore sì. Anche perché quando vedi le nostre belle città, ti dispiace averle perse.
 

(A) Poi anche a pensare a tutti quegli ammazzamenti. Una parola sola: le foibe. Le foibe non si possono dimenticare, si frappongono sempre fra me e qualcuno che arriva qui da Zagabria, da Lubiana o da un’altra di quelle città. È un macigno. E mi dispiace perché, proprio per il fatto di essere triestino, io nasco cosmopolita. Ad esempio sono un tifoso dell’Europa. A me dispiace che ci si sia fermati all’euro e non si sia  andati avanti a fare l’unione politica. Mi dispiace tantissimo. Per questo stesso motivo non mi è dispiaciuto tanto che l’Inghilterra si sia tolta dall’Europa. Sono sicuro che con gli inglesi dentro non avremmo mai fatto l’unione  politica, perché loro non avrebbero mai abdicato alla loro individualità per diventare europei.
 

(D) Quindi, per lei c’è più possibilità adesso di quanta ce ne fosse con dentro la Gran Bretagna?
 

(A) Sì, ne sono convinto spero che si vada avanti in questa direzione, e che si superi l'ondata dei partiti antieuropei che sta scuotendo tante nazioni.
Per questo motivo mi dispiace che dentro di me esista un qualcosa che non so come definire: un astio, una freddezza. Ecco, sì, una freddezza diciamo verso tutti quelli che arrivano da lì.
 

(D) Ha mai parlato con qualcuno di loro?
 

(A) Sì, certo … Ma quando parli con qualcuno è come parlare con un vicino di casa. È difficile da spiegare ma questo senso di freddezza, di separatezza lo provo verso la popolazione nel suo insieme. Non c’è invece se parlo con una sola persona. Un singolo non è un nemico, non è mai un nemico se lo conosci. Più gente conosci e meno nemici hai. È difficile da spiegare-
 


Eppure mi sembra di capire. Conoscevo una signora ebrea, ex deportata, papà ucciso ad Auschwitz, che con il popolo tedesco era terribile, non era disposta a concedergli niente, neanche a riconoscere il percorso fatto nel dopoguerra per comprendere il male commesso. Anche nelle sue dichiarazioni pubbliche, parlando dei tedeschi era, a mio avviso, esagerata. Casualmente conobbe una signora tedesca che si commosse sinceramente al racconto della sua storia, e ne divenne amica. Malignamente glielo feci notare ma lei, candida disse: “ma cosa c’entra, lei è una brava persona”
 

(A) Sono contento perché ci siamo capiti. Più gente conosci e meno nemici incontri, qualcuno aveva detto.
Per restare in tema di sentimenti devo dire che io ho molto sofferto, da piccolo, ma anche quando ero già più cresciuto, di essere stato strappato via da Trieste, a sette anni. Volevo restare lì e poi avrei voluto tornarci. Poi ti sposi, cominci ad avere i figli e allora trasferisci i legami. Però fino a quel momento ho sofferto molto il distacco.


RITORNO A TRIESTE E FIUME

(D) Che rapporti sono rimasti con il mondo che avevate lasciato: lei con Fiume…E’ tornata o no?   
 

(G) A Fiume sono tornata ma solo di passaggio.
 

(D) Non ha conoscenti? Parenti?
 

(G) No, no.
 

(D) A Trieste invece?
 

(A) Un tempo ci andavamo tutti gli anni. Pian pianino sono morti tutti quelli che conoscevo. Mi sono rimaste due cugine, con le quali ci sentiamo regolarmente, ma sono un paio d’anni che non le andiamo a trovare.
Siamo tornati anche come turisti, a Fiume, in Istria. Mio figlio Alberto si è innamorato della zona e adesso, tutti gli anni, fa campeggio fra Cittanova e Parenzo. Ricordo che una volta mi aveva detto “Ma papà perché siete venuti via da qua?” … dopo che avevo sofferto tutta la vita per questo fatto!
 

(D) Avete mai fatto parte di associazioni di profughi dall’Istria?
 

(A) No, non so neanche se ne esistano.
 

(G) Sì, ci sono le associazioni. Anche mia sorella ne faceva parte. Non ricordi che una volta all’anno andavano in gita, tornavano a Fiume?
 

(A) Si è vero, adesso ricordo. C’è anche un giornale “La difesa adriatica”, che non so dove venga fatto, destinato ai profughi.
 

(D) Non vi ha mai messo in imbarazzo il fatto di essere, o essere stati,  profughi?
 

(A) No e  non mi pare di aver percepito che qualcuno si vergognasse o fosse messo in difficoltà per il fatto di essere un profugo, non mi sembra. Anzi c’erano certi amici nostri o amici di amici che vivevano quasi con orgoglio questo fatto. Forse dipende da come qualcuno ti ha guardato qualche volta.
 

(D) Da sempre o adesso perché se ne parla di più?
 

(A) Da sempre. Quello che è cambiato è un po’ il timore di essere scambiati con quelli che arrivano adesso  dai Balcani, dalla Serbia, dalla Croazia. Noi, che ci chiamiamo Uicich, o Francovich, noi con questi cognomi ci teniamo a far sapere che non siamo slavi: siamo italiani. Qualche volta manca solo che qualcuno ci chieda se abbiamo il permesso di soggiorno. La gente non sa, non si ricorda più della nostra storia, del nostro essere stati profughi nel 1945. Oggi ci sono tutti questi nuovi profughi e l’idea di essere confusi non ci piace.
 

(D) E lei signora?
 

(G) No, no. Però ricordo che a L’Aquila dei genitori si rivolgevano ai bambini e gli dicevano “guarda che ti faccio mangiare dai profughi”. Mi ricordo questo, eh, eh ...
 

RICORDARE E TESTIMONIARE

(D) Ai vostri figli, ai nipoti, avete raccontato la vostra vicenda?
 

(A) Io scrivo ai miei nipoti, se poi leggono non so: gli ho parlato della Risiera, della fine della guerra, del governo De Gasperi. Ultimamente gli ho parlato di Marco Pannella, un personaggio che mi piaceva.
 

(G) E’ sempre lì a scrivere, ma i ragazzi sa … Però chissà forse un giorno, avranno dei ricordi del nonno.
 

(D) Ha avuto riscontri per sue lettera?
 

(A) Non pretendo neanche che mi rispondano. Per la lettera sulla Risiera però Marco mi aveva risposto. Era stato colpito, mi aveva detto, che io così piccolo avessi visto il fumo della ciminiera e che avessi saputo che erano gli ebrei che bruciavano (4).
È stata l’unica volta che qualcuno mi ha risposto. Ma io tengo duro e continuo a scrivere. Sono convinto che qualcosa resta.



Trieste - Uomini pronti per il ballo della festa del rione Sant'Anna o San Lorenzo. In centro, con le mani incrociate, Adelchi Francovich, zio di Anerio

NOTE
(1) Dopo aver steso questa intervista, ho inviato il testo ad Anerio e Gigliola perché lo verificassero. Alcune  delle loro osservazioni meritano di essere lette per esteso. Una riguarda l'arrivo degli americani a Trieste. Scrive Anerio:
  

“Poco più avanti, dove dico: "...s'è visto un chiarore bianco venire dal mare. Erano le luci delle navi inglesi" cambierei "mare" con "porto" e "inglesi" con "americane". E' particolarmente importante questa seconda modifica, per due motivi: primo, perché in effetti è stato così. Le navi erano americane. Anche dopo, negli anni seguenti quando andavo a Trieste in vacanza dai nonni, vedevo solo navi da guerra americane, o forse qualcuna inglese di passaggio.
In secondo luogo, la sera stessa del 12 giugno del '45, udendo la gente gridare "Viva i liberatori!", ebbi netta la sensazione (che poi mi è sempre rimasta) che liberatori erano considerati gli americani, e soltanto nemici vincitori gli inglesi”
 


Come mai questa diversità di percezione: americani liberatori e inglesi nemici? chiedo in una successiva mail. Questa la risposta:
 

"Questa fu la mia percezione di bambino, basata su nulla di concreto. Ma si sa che le antenne dei bambini sono sensibilissime nel captare i sentimenti, e infatti non ho mai cambiato la mia valutazione istintiva di allora, anche nella maturità.
Certo, la risposta che potrei dare oggi alla sua domanda sarebbe un po' più circostanziata. Ma non sarebbe più il racconto di un bambino che ricorda la "brutta sera rossa" e la "bella sera bianca".
Comunque, ecco ciò che oggi ritengo che la gente di allora considerasse.  
In primo luogo, con gli inglesi eravamo stati in condizione di ostilità, prima con le sanzioni, poi con le armi, dalla Guerra d'Abissinia, 1935, fino alla nostra resa incondizionata dell'8 settembre 1943. Gli americani, invece, li avevamo visti nelle trincee a noi avversarie per meno di un anno, dal novembre 1942 in Tunisia all'8 settembre '43 a Salerno. Cioè, con gli inglesi avevamo avuto modo di darcele di santa ragione per molto più tempo che con gli americani.   
In secondo luogo, gli Usa non avevano un impero, l'Inghilterra sì: possedeva o controllava militarmente mezza Africa, una fascia verticale che andava da Alessandria d'Egitto a Città del Capo. E nonostante tutto ciò, l'Inghilterra fu la potenza che più vigorosamente si oppose alla realizzazione delle ambizioni italiane nel continente, anche se queste erano rivolte alla conquista, non di possedimenti inglesi, ma dell'Etiopia, uno dei due Stati indipendenti dell'Africa, l'altro essendo la Liberia. 

Feeling: gli americani impersonavano il gigante buono, anche se severo (non avevano ancora sganciato le due atomiche sul Giappone: due, non una, a tre giorni l'una dall'altra!); mentre gli inglesi erano il piccolo lord prepotente e capriccioso. Antipatico.
Terzo e ultimo punto, mai dimenticare i moltissimi immigrati italiani in Usa, nazione che contendeva all'Argentina il titolo platonico di "Seconda Italia" nel cuore di molti nostri connazionali.
Del resto, a chi telefona De Gasperi per chiedere aiuto - cibo! - per gli italiani a guerra appena finita? A Fiorello La Guardia, sindaco di New York (anzi, di Nuova York, come si diceva allora).
Ecco  perché gli americani erano i liberatori e gli inglesi soltanto nemici vincitori".


Altre due osservazioni fatte da Anerio alla prima stesura dell'intervista, meritano di essere conosciute.

Alla prima non ho potuto che dargli ragione e scusarmi tanto:

"Subito alla seconda riga, "proveniva da Fiume (Rijeka in croato)": toglierei senz'altro la precisazione fra parentesi. Marco, perché vuole rigirare il coltello nella piaga?
Pensi di parlare ad esempio di Zagabria: non le verrebbe l'idea di precisare "(Zagreb in croato)", vero? 



Ecco l'altra:
"Un piccolo particolare che evidentemente soltanto noi locali possiamo cogliere: Fiume non è una città dell'Istria, così come non lo è mai stata Trieste, la quale fra l'altro non è mai stata nemmeno una città del Friuli. Un fiumano che vada in Istria dice: "vado in Istria". Così come un triestino, che va in Istria o va in Friuli. Questa sfumatura sfugge spesso ai nostri giornalisti della stampa e della Rai".

(2) La possibilità di optare fra cittadinanza italiana e jugoslava, era contenuta nell'articolo 19 del  Trattato di pace fra Italia e le Potenze Alleate ed Associate, siglato a Parigi, 10 febbraio 1947. L'articolo recita:
" Art. 19 
(comma 1°): I cittadini italiani che, al 10 giugno 1940, erano domiciliati in territorio ceduto dall'Italia ad un altro Stato per effetto del presente Trattato, ed i loro figli nati dopo quella data diverranno, sotto riserva di quanto dispone il paragrafo seguente, cittadini godenti di pieni diritti civili e politici dello Stato al quale il territorio viene ceduto, secondo le leggi che a tale fine dovranno essere emanate dallo Stato medesimo entro tre mesi dall'entrata in vigore del presente Trattato. Essi perderanno la loro cittadinanza italiana al momento in cui diverranno cittadini dello Stato subentrante. 
(comma 2°) Il Governo dello Stato al quale il territorio è trasferito, dovrà disporre, mediante appropriata legislazione entro tre mesi dall'entrata in vigore del presente Trattato, perché tutte le persone di cui al paragrafo 1, di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, siano esse al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua usuale è l'italiano, abbiano facoltà di optare per la cittadinanza italiana entro il termine di un anno dall'entrata in vigore del presente Trattato. Qualunque persona che opti in tal senso conserverà la cittadinanza italiana e non si considererà avere acquistato la cittadinanza dello Stato al quale il territorio viene trasferito. L'opzione esercitata dal marito non verrà considerata opzione da parte della moglie. L'opzione esercitata dal padre, o se il padre non è vivente, dalla madre, si estenderà tuttavia automaticamente a tutti i figli non coniugati, di età inferiore ai diciotto anni. 
(comma 3°) Lo Stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgono dell'opzione, si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l'opzione venne esercitata".

(3) Forse la caserma "Fratelli Bergamaschi", che si trovava in in piazza Lega Lombarda e che, durante la Repubblica Sociale, ospitava il reparto R.R. (Redenzione e Ricostruzione) che utilizzava per lavori di pubblica utilità renitenti e sbandati (tuta blu con scritta gialla R.R. Ettore Muti).

(4) Cerca su quest blog il post: “GUARDÉ, GUARDÉ! I BRUSA I EBREI!” Lettera testimonianza di Anerio Villani ai nipoti.
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2017/01/guarde-guarde-i-brusa-i-ebrei-lettera.html



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