domenica 27 settembre 2015

IL CIBO E LA VITA NOMADE di Angelo Arlati


Il numero 400 di “A” – rivista anarchica, ha pubblicato un lungo saggio di Angelo Arlati, un abitante di Cornate d’Adda studioso della cultura rom, intitolato “LA CUCINA DEL VIAGGIO – Motivi, significati e tradizioni della gastronomia rom”. Il capitolo che mi accingo a presentarvi, IL CIBO E LA VITA NOMADE, di questo saggio è il secondo capitolo.
Il testo è introdotto da Paolo Finzi, direttore di “A” rivista anarchica, con un brano ricavato da “Una collettiva storia d’Amore”, editoriale di presentazione del numero 400 della rivista nata nel 1971, un numero speciale di più di quattrocento pagine.
Di Angelo Arlati, questo blog ha già pubblicato una lunga intervista e i seguenti testi: “La lingua del viaggio”, tratto dal n.376 di “A”-  rivista anarchica e “La più antica rappresentazione iconografica degli zingari”, tratto dalla rivista “Rom-Sinto”, n.15, 2012. Li trovate a questo indirizzo: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search/label/Angelo%20Arlati



INTRODUZIONE



Gli zingari all’Expo 2015 non ci sono. Punto. E chi se ne frega di questa gente molesta, antipatica, marginalizzata, criminalizzata, sporca? Che interesse può avere cosa mangia questa gente, che spesso va al supermercato non passando dalla porta d’entrata ma preferisce andare sul retro e svuotare i cassonetti con il cibo buttato via perché in scadenza o con confezione leggermente danneggiata? A noi interessa.
Da almeno vent’anni abbiamo assunto come uno dei nostri temi costanti l’attenzione verso questo popolo, o meglio questi popoli. Verso la loro storia ( è di 9 anni fa l’uscita del nostro doppio DVD+libretto sullo sterminio nazista), ma soprattutto la battaglia ideale e concreta per i loro diritti negati. Questa volta dedichiamo 117 pagine al magistrale lavoro di ricostruzione storica e di ricerca del solito Angelo Arlati. “Solito” perché già due anni fa (“A” 376, dicembre 2012 – gennaio 2013) ha curato un dossier sulla lingua dei rom, con una prima parte di ricostruzione storica della loro lingua alla luce delle numerose migrazioni e una seconda parte tipo manuale per apprendere a parlarla. Questa volta, dopo una ricostruzione dettagliata delle complesse relazioni tra migrazioni, cucina delle popolazioni stanziali, loro cucina, Arlati presenta decine e decine di ricette, contestualizzandole.
Ancora una volta ci troviamo, non a caso, in direzione ostinata e contraria. Contro l’operazione ideologica e strumentale di Expo 2015, anche – paradossalmente – colmandone un vuoto che nessuno ha notato, come quello degli zingari. Il dossier curato da Angelo Arlati può anche essere visto come il loro padiglione negato. A Expo trovate McDonald’s, su queste pagine gli zingari. A ognuno il suo
 

Paolo FINZI– direttore di “A” – rivista anarchica


IL CIBO E LA VITA NOMADE (O zabé taj o drom)(1) di Angelo ARLATI

Il “nomadismo” è uno dei tratti salienti della cultura rom che condiziona la loro vita materiale, oltre che sociale e psicologica, e produce i suoi effetti anche nei gruppi sedentarizzati da secoli, come i Rom della Transilvania e dell’Ungheria, i Rom Rumeni della Valacchia, i Rom del Burgenland, i Servika Roma della Slovacchia, i Rom Arlija della Macedonia, i gitani dell’Andalusia e i gypsies scozzesi di Yetolm. È la loro forma mentis permeata di nomadismo che impedisce ogni attaccamento alla terra. Anche quando vivono in case non amano stare al chiuso. “È appena il caso di dire – osservava nel 1890 lo zigano logo ceco Rudolf von Sowa a proposito dei Rom della Boemia – che coloro ai quali è stata concessa una piccola casa nel villaggio non vivono in quella casa ma quasi sempre in strada, dove si trovano anche i loro cavalli e carri” (Sowa, 1890, pag.139). e L’INGLESE Henry Crofton riferisce che i Gypsies del Lancashire e del Cheshire “nei mesi invernali, dalla fine di ottobre ai primi di aprile, svernano nelle città in case in brutte condizioni o lungo una via dove le case sono costruite solo su un lato e sul lato opposto piantano le tende e i carri” (Crofton, 1877, p.32).

Un gruppo di rom nimadi in riva a un fiume

 Il luogo fisico e simbolico della vita quotidiana del rom, sia che viva in una tenda, in una roulotte o in una casa, è costituito dallo spazio esterno dove generalmente arde un grande falò (2). Il fuoco o jag, che richiama etimologicamente e culturalmente il dio indiano Agni e il fuoco sacro o ignis dei latini custodito nel tempio di Vesta, è il nume tutelare della famiglia, del clan e dell’intera etnia rom. È una specie di “genius loci”, che fornisce energia per cuocere le vivande, tiene lontani gli spiriti dei morti, alimenta i canti e i racconti della tradizione e demarca il territorio rom oltre il quale vi è “il mondo buio e ostile” dei gagé.
Lo stile di vita nomade si ripercuote anche e soprattutto nell’alimentazione. Tutta la cucina rom, dall’attrezzatura culinaria alla capacità di sfruttare le risorse naturali alla semplicità e fantasiosità dei cibi, è plasmata da questo substrato culturale ancestrale.
La cucina tradizionale rom usa poche suppellettili per cucinare, retaggio di una vita nomade in cui il viaggio o drom (dal greco δρόμος ‘strada’) obbligava a portare un equipaggiamento ridotto all’indispensabile. I loro arnesi da cucina consistevano in pentole, pentoloni e padelle di diverse misure: una pentola di rame o piri (dal sanscrito pithari ‘pentola’) con o senza i manici, denominati kanda ( lett. ‘orecchie’); una casseruola di rame detta tigaja (dal rumeno tigaja); un grande pentolone di ghisa stagnato all’interno o kakavi (dal greco moderno κακκαβη ‘calderone’) con il coperchio o fedevo; un paiolo o kezano (dal romeno kazàn ‘paiolo’); una padella di ferro o tava ( forse dal sanscrito tap ‘bruciare’); qualche ciotola di rame o ciaro (dal sanscrito caru ‘vaso’); una bacinella per lavare le verdure e un secchio o paneskero (dal romani pani ‘acqua’) per attingere l’acqua.





Specialmente il grande calderone, la kakavi, con il quale si faceva da mangiare per un gran numero di persone, rivestiva un carattere sacrale. La grande pentola, attorno alla quale si riuniva la numerosa famiglia, nell’immaginario rom era carica di ancestrali simbolismi, dagli affetti familiari alla prosperità economica e alla fecondità riproduttiva (3). Lo studioso greco Alexandre Paspati nel suo lavoro sui Tchinghianés dell’impero ottomano pubblicato nel 1870 menziona una singolare festa  detta kakkavà o festa delle caldaie, che veniva celebrata dai rom mussulmani della Tracia e della Rumelia. Il 23 aprile, giorni dedicato a San Giorgio, i Rom lasciavano i quartieri invernali e si davano appuntamento in un grande spiazzo erboso e qui davano una festa che durava tre giorni. Si uccideva un agnello e si imbandiva una tavola ricoperta di fiori e piena di vini.(Paspati, 1870, p.27) (4).
Nei tempi antichi si cucinava all’aperto sul fuoco a legna appoggiando le pentole sopra grosse pietre o appendendole a un ramo mediante una catena di ferro. Ma il modo più classico era il treppiede detto trinkašt (da trin ‘tre’ e kašt ‘legno’, letteralmente tre legni), costituito da tre bastoni incrociati tra loro alla sommità e legati con un anello o un filo di ferro, dal quale pendeva una catena alla quale si agganciava la pentola per far da mangiare. I Gypsies inglesi invece usavano un sostegno speciale, detto kettle prop, costituito da una lunga asta di ferro, opportunamente sagomata e munita di un gancio per le pentole, piantata nel terreno obliquamente e orientata verso il fuoco. Questa soluzione aveva il vantaggio che si potevano collocare intorno al fuoco più kettle prop, anche quattro o cinque, sui quali poter cuocere contemporaneamente più vivande. Un altro tipo di treppiede (una specie di fornello portatile), molto semplice e di facile collocazione era la pirostià (dal neogreco pirostià), un attrezzo di ferro costituito da un supporto circolare  a cui erano saldati tre piedini, oppure si poteva utilizzare un lungo bastone disposto orizzontalmente al quale si appendevano una o più pentole.





Per arrostire le carni si usava lo spedo o busht. In genere è compito dell’uomo approntare certi animali, come il porcospino, il maiale o l’agnello e accudire alla carne allo spiedo. È curioso come una tribù di ursari della Bosnia impoegase un enorme orso per girare lo spiedo (Folestier, 1977, p.199). Modernamente è invalsa la tendenza di applicare per comodità un motorino elettrico alimentato da una batteria di una autovettura.
 

Durante gli spostamenti questa attrezzatura poteva essere trasportata sul dorso di un animale, ma all’occorrenza se ne poteva occupare un individuo della compagnia. Nella straordinaria incisione di Callot “Bohémiens in marcia” appare una figura divertente di un ragazzo che porta un’enorme pentola sulla schiena, un lungo girarrosto in mano e una pentola con tre piedi dalla forma panciuta sulla testa (un bronzino) mentre gli è accanto una bambina con in mano una grande padella rotonda. 

Callot "Bohémiens in marcia", 1621 (part.)

Arazzo di Tournai (fine sec. XV): "L'arrivo dei Bohémiens" (part.)

 
Bronzino, simile alla pentola presente nelle due immagini precedenti.


La legna per alimentare il fuoco veniva procurata direttamente sul luogo di sosta, nei campi, nei boschi e nelle siepi. Gruppi sedentari costruivano un focolare in argilla oppure avevavo un forno davanti alla capanna. Quando si cominciò a viaggiare con i carrozzoni ippotrainati, questi erano dotati di stufe in ferro o in ghisa. Molto spesso i rom costruivano loro stessi rudimentali stufe lavorando il ferro o assemblando vari pezzi di lamiera.


 
Tipi rudimentali di stufe


 I Rom non producono alimenti in proprio e perciò hanno imparato a ricavarli dal mondo circostante. A perenne contatto con l’ambiente naturale, si sono specializzati in una raffinata tecnica di “domesticazione” delle risorse della natura, sia del mondo vegetale che di quello animale. Hanno potuto nutrirsi grazie alla raccolta spontanea di erbe e frutti commestibili, funghi, radici, miele selvatico e alla cattura di animali selvatici come lepri, conigli, cinghiali, porcospini lumache. Nello stesso tempo hanno saputo sfruttare un’economia basata su quella che potremmo definire la “domesticazione” del gagiò, mediante servizi e forme di sfruttamento del contesto umano prossimo, in cui procacciarsi in vario modo i generi alimentari necessari.
 

Date queste premesse è chiaro come il rapporto dei Rom con il cibo sia sempre stato all’insegna della casualità e della variabilità. La disponibilità di cibo era strettamente legata alla situazione del momento, secondo la reperibilità dei prodotti, la generosità dei gagé, la capacità di chiedere, l’intraprendenza di approfittare di certe situazioni favorevoli, ma anche la chance o fortuna (baxt). Per lo spirito superstizioso dei Rom, se il giro andava a vuoto, la colpa era della sfortuna e, se la donna tornava a casa con la sacca semivuota, la colpa era di un uomo, un cane o un gatto che le avevano attraversato la strada (Petrović, 1940, p.35).
I Rom non usano, se non raramente, conservare gli alimenti. Specialmente una volta non c’era possibilità di conservare il cibo e le vivande, ma tutto doveva essere procurato, cucinato e consumato in giornata. In genere era ed è estranea l’idea di provvista, sia perché i Rom non hanno la preoccupazione del domani sia per ragioni legate alla qualità del cibo avanzato. I Rom polacchi, per esempi, ritenevano che “il cibo preparato bisogna consumarlo nello stesso giorno perché già il giorno dopo può essere dannoso ( Bartosz, 1978, p.6). E per i Manouches francesi “un cibo preparato per un pasto non è mai consumato per un altro” (Derlon, 1978, p. 90).
 

Il tedesco Grellmann riferisce che la carne avanzata era essicata al solo o affumicata col fumo del fuoco acceso davanti alle loro tende (Grellman, 1810, p.57). Era una tecnica antichissima già documentata in un dipinto di Jerom Bosch “Il carro del fieno”, dove è rappresentata la preparazione del pasto in un accampamento con uno spiedo al quale è appeso un pesce ad affumicare. Lo studioso francese Dollé riferisce che era un procedimento conosciuto anche dai Manouches francesi, ma osserva che era una tecnica poco usata poiché il rom non adopera che legna secca perché il fuoco deve essere vivo, caldo e luminoso e secondariamente non ha interesse ad attirare l’attenzione sulla sua presenza con colonne di fumo (Dollé, 1980, p.116). Per questo motivo, come è capitato spesso durante la seconda guerra mondiale, i Rom non si curavano di mangiare la carne cruda per non rischiare di essere scoperti.
Altri metodi di conservazione erano la salatura della cacciagione e del pesce; la stagionatura della carne; la salamoia, come per le verze cappuccio che entrano nella preparazione delle sarme, che oltre a dare un sapore aspro permetteva una lunga conservazione; le verdure sott’olio o sott’aceto e la conserva di confetture e marmellate.
L’alimentazione quotidiana era quindi irregolare e la mancanza o abbondanza determinava i loro criteri alimentari. C’erano giorni in cui il cibo era abbondante o appena sufficiente, altri in cui scarseggiava per tutti e si doveva tirare la cinghia. Specialmente d’inverno si era costretti a nutrirsi poveramente, a base di minestre di patate e fagioli, crauti,rape, qualche gallina e parti scadenti di maiale. In questa precarietà quotidiana, dove tutto doveva essere utilizzato al meglio e nulla doveva essere sprecato, il rom ha affinato le sue capacità di adattamento. Un gitano, raccontando allo scrittore Charles Duff le peripezie vissute durante la guerra civile spagnola, affermava con orgoglio: “Noi gitani possiamo vivere con molto poco ed io con il mio popolo ho imparato a utilizzare e ad arrangiarmi con ogni sorta di cose che tu non avresti mangiato” (Duff. 1940. p.17).



Jerome Bosch,"Il carro del fieno", (part.)

Un ruolo determinante nella preparazione dei cibi era svolto dalla donna cuciniera, che doveva attingere a tutte le proprie doti di fantasia e improvvisazione per poter ricavare il massimo dalle materie prime a disposizione. Un proverbio kanjarja afferma che una cattiva cuoca, anche se dispone di molti ingredienti non riesce a sfamare una sola persona, mentre una buona cuoca con poche materie prime riesce a sfamarne molte. La cucina rom si adatta al momento e al luogo con una libertà e fantasia gastronomica oltre l’ortodossia: se manca un ingrediente (un aroma, una spezia) è giocoforza rimediare con un altro.
La preparazione del pasto spetta generalmente alla donna. Un detto dei Rom  della Transilvania asserisce che “laci romni jaga, pira taj xabena” (una buona donna è fuoco, pentola e cibi).  Talvolta i lavori più umili come cercare la legna da ardere, provvedere all’acqua, fare il caffè sono assegnati alla borí, la nuora (5).
Non c’era molto tempo da dedicare alla preparazione dei pasti, per questo la cucina doveva essere nello stesso tempo essenziale e sostanziosa. Doveva essere ricca li valori nutritivi ed energetici per la fatica del viaggio, l’esposizione ai cambiamenti di clima, il facile rischio di infezioni.
Tutto veniva cucinato in usa sola volta, tutti gli ingredienti, letteralmente parlando, “entravano nello stesso calderone”. Il pasto p.rincipale era preparato in una grande pentola e consisteva in una minestra o zuppa contenente qualunque tipo di carne e verdure disponibili. Era la logica del “piatto unico”, che si applicava anche nella preparazione di pizze che erano farcite di formaggio, carne e verdure, Assecondando la loro ancestrale dottrina gastronomica che vuole un piatto veloce, sostanzioso e completo, i Rom si sono subito impossessati  dei nostri stufati e piatti unici, come il gulasch, la ciorba o la bagnacauda.
La cucina rom è semplice e poco raffinata, ma sempre saporosa e piccante. Una cucina per così dire “colorata” dove predomina il rosso del peperoncino, dei sughi e dei condimenti, degli intingoli piccanti e delle salse di pomodoro. Se il cibo non ha colore, il rom potrebbe rifiutarsi di mangiare, protestando che “quello sembra un cibo dei gagé”. Diciamo subito che le motivazioni di questo atteggiamento non sono di ordine estetico ma, come vedremo nel capitolo dedicato al cibo e alla salute, sono ben più profonde e investono il mondo culturale rom.
Il rapporto stretto tra cibo e vita nomade diventa pregnante se pensiamo che nelle precarie condizioni esistenziali in cui il cibo era questione di vita o di morte, un ruolo sociale fondamentale era svolto dal senso di solidarietà e di ospitalità. Innanzitutto la solidarietà. Un antico detto kalderash afferma che “Vortako si mursh te del xabén tuke kana trobúl tuke” (Amico è l’uomo che ti dà da mangiare quando ne hai bisogno). Un rom nel bisogno troverà sempre la solidarietà di un altro rom; per lui è sempre pronto un piatto che lo possa sfamare.


In secondo luogo i Rom hanno sviluppato un grande senso dell’ospitalità, un’ospitalità conviviale, tanto che è stata istituzionalizzata e codificata della paciv, le festa dell’ospitalità. Se un clan (vitsa), amico o forestiero, è di passaggio o viene in visita, bisogna intrattenerlo in maniera ospitale con un invito: “Venite, vi chiedo una paciv” (Aven, mangav tumenge paciv), e si organizza un pranzo speciale (Thillagen,1957, p.159). Dall’altra parte l’ospite è obbligato ad assaggiare qualcosa, anche semplicemente una tazza di caffè, se no potrebbe essere considerato “impuro” ((Ranger, 2001, p.132).

In qualunque momento della giornata c'è un piatto di sarme per l'ospite

È tale il senso di dipendenza dal cibo che questo sentimento (forse l’unico motivo extraeconomico che avvicina il rom al gagio) si applica anche ai non-rom. Il rom è ritualmente distante dal suo avversario per antonomasia, il gagio, ma nel bisogno gli è solidale. Non vi è nulla, come il senso della fame, che rende il rom disponibile al gagio, più dei servigi, dei favori e degli aiuti dell’assistenza sociale. Per la loro legge e la loro coscienza è un crimine rifiutare il cibo a una persona affamata (6).
Il valore dell’ospitalità si è conservato anche in tempi di abbondanza. Essi condividono con l’ospite il pane, il vino, l’arrosto o il caffè, che non è soo un atto di cortesia ma di vera compartecipazione. Non si è mai sentito che un rom abbia rifiutato ospitalità o abbia lesinato in fatto di vettovaglie (7).


NOTE

(1)    Traduzione del titolo in romanés, la lingua dei rom.
(2)    Presso i Rom sedentari di Sulmona (provincia dell’Aquila) si osserva che “nelle loro case, le stufe vengono tenute con lo sportello aperto per vedere la fiamma . All’obiezione che in questo modo si consuma più legna una vecchia ha risposto: Io posso stare senza legna ma non senza fuoco” (Classe “V” B del liceo Ovidio di Sulmona, 1979, p.20).
(3)    Nell’oniromanzia rom, la pentola di rame significa vita familiare serena, figli numerosi e buone novità da un parente (Buckland, 1998, p.77).
(4)    Il poeta greco Costis Palamas rievoca così questa straordinaria festa primaverile: “ Ed ecco che nella prateria spaziosa, tuta verde, tutta fiorita, esulta e vocifera e delira la festa dei gitani, la festa della Kakavà di tre giorni. Una festa bizzarra e prodigiosa una volta l’anno, all’inizio del mese di maggio, nei fiori e nell’allegria di maggio” (Palamas, 1931, p. 110).
(5)    Un canto dei Rom della Slovacchia dice: “Amari sal amari, amari terni bori, amareder aveha vedros pani aneha” (Sei nostra, giovane sposa, ma sarai ancora più nostra, quando ci porterai un secchio d’acqua) (Hübschmannova, 1980, p.8).
(6)    Ne è una testimonianza un episodio accaduto ai soldati italiani  combattenti in Serbia, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, furono fatti prigionieri dai tedeschi e internati nel lager di Bor, città della Serbia Centrale e costretti a lavorare nelle miniere circostanti. Dal campo di internamento al posto di lavoro in miniera dovevano attraversare il quartiere zingaro e i Rom al loro passaggio, indotti a compassione, si avvicinavano ai nostri soldati e offrivano loro del pane, pezzi di carne, patate cotte, nonostante i divieti e il rischio di rappresaglie (comunicazione orale di Pietro Motta di Verderio, in Brianza, sulla base dei racconti del padre Luigi, classe 1914).
(7)    Un’antica tradizione vuole che i Rom siano stati condannati alla vita errante per non aver dato ospitalità a Maria e al Bambino Gesù durante la fuga in Egitto (Andrea da Ratisbona, Diarium sexennale (1422 – 1427) in Ofelius A. F., Rerum Boicarum Scriptores etc. Augusta 1723, Tomo I, p.21, riferisce  che i Cingari giunti a ratisbona nel 1924 dicevano “se exulare in signum seu memoriam fugae Domini in Egyptum dum fugeret a facie Herodis, qui eum quarebet ad occidendum”). Da contraltare a questa diceria vi sono le “zingaresche”, composizioni poetiche popolari in voga nel XVII e XVIII  secolo, che invece narrano la generosità della zingarella egiziana che ospita e rifocilla la Sacra Famiglia PINCHERLE, 1891, P. 45-47).
 

Siete stanchi li meschini
Credo, o poveri pellegrini,
da alloggiare voi cercate
voi, Signora, scavalcate.
Sono una donna Zingarella
Bench’io sia già poverella;
pure io t’offro casa mia
benché degna di te non sia.
Io c’ho qua una stallicella
buona per la somarella;
paglia e fieno ora vi metto
v’è per tutti lo ricetto.



BIBLIOGRAFIA RELATIVA AL CAPITOLO " Il cibo e la vita nomade"

Dollé M.P., Les Tsiganes Manouches, Sand
Duff Ch, 1940, Spanish gypsies: a record journey, JGLS, 3s., volXIX n 1-2
Grellmann H. M. G.. 1810, Histoire de Bohémiens, Parigi
Hübschmannova M., 1980 a, Roman gila, Lacio Drom n. 3-4; 1980 b , Roman gila, Lacio Drom n.6
Paspati A., 1870, Etudes sur le Tchinghianés ou the Bhoémiens de l’Empire ottoman, Costantinopoli
Palamas C., 1931, Les douze paroles du Tzigane. Traduit du néo-grec parEugène Clément, Parigi, Libraire Stock, Delamaine et Boutelleau
Petrović A., 1940, Contribution to the study of the Serbian Gypsies, JGLS, 3s., vol XIX n.1
Sowa R., 1890, Notes on the Gypsies of nort-western Bohemia, JGLS, 1 s, vol. II n.3
Tillhagen C. H., 1957a, Food and drink among the Swedish kalderaša Gypsies, JGLS vol XXXVI n 1-2; 1957b, Feasting and fasting, JGLS 3s, vol XXXVI n. 3-4

 
 

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