Antonio Gnecchi Ruscone |
IL TESTO - Come racconto delle vacanza vi presento, in due puntate, questa cronaca su un'escursione al Pizzo dei Tre Signori, avvenuta l'1 e 2 settembre 1880, scritta da Antonio Gnecchi Ruscone e destinata al "Giornale di Famiglia". Questa versione è tratta da una minuta del testo, conservata presso l'Archivio Storico di Verderio.
L'autore, figlio di Giuseppe Gnecchi Ruscone e di Giuseppina Turati, al momento dell'impresa aveva 23 anni, essendo nato l'11 febbraio 1957.
Il testo, che oggi vi propongo con poche notizie di contorno, merita invece un approfondimento, riguardante i partecipanti - compresa la guida, il signor Magni -, il percorso, i luoghi citati e tante altre piccole curiosità. Mi riprometto di svolgere questo lavoro in un prossimo futuro e di ripresentare l"ESCURSIONE" con un maggior corredo di informazioni.
Un passaggio del racconto, seppure secondario per i protagonisti, è per me significativo perché evoca una parte importante della vita della mia famiglia. Prima della partenza, i quattro alpinisti si trovarono a Lecco, al Caffè delle Colonne, il locale dove, qualche decina d'anni più tardi, lavorò mio papà, Angelo Bartesaghi, come barista. Nel 1956 l'edificio che ospitava il bar, situato fra via Roma e piazza Garibaldi, venne abbattuto per lasciar posto al grattacielo del Credito Italiano. Mio papà acquistò allora, grazie all'aiuto degli ormai anziani proprietari del "Colonne", Giuseppina Balderacchi e Alessandro Beltramini, il Caffè Commercio, in piazza xx Settembre, vi trasferì il mobilio del locale soppresso, che tuttora arreda il bar, e trasformò il nome in Caffè Colonne Commercio.
LE IMMAGINI - In mancanza di immagini specifiche dell'escursione, ho pensato di corredare questa prima parte del testo con una serie di fotografie tratte da un album appartenuto a Giulia Robiati, dono prezioso che ho ricevuto anni fa dalla figlia, la signora Fausta Finzi. L'album raccoglie serie di fotografie relative in gran parte ad escursioni in montagna organizzate nei primi anni del XX, probabilmente dal CAI di Milano.
In questo blog puoi trovare:
sulla famiglia Gnecchi Ruscone:
LA FAMIGLIA GNECCHI RUSCONE A VERDERIO di Marco Bartesaghi . Pubblicato giovedì 23 settembre 2010
Su "Il Giornale di Famiglia":
DA VERDERIO A CISANO -NOTE DI UN ANTIQUARIO di Francesco Gnecchi Ruscone, 1882 - prima parte. Pubblicato sabato 30 maggio 2009
Sull' Archivio Storico di Verderio:
Alcuni articoli rintracciabili sotto l'etichetta "Archivio Storico di Verderio".
UN'ESCURSIONE AL "PIZZO DEI TRE SIGNORI" di Antonio Gnecchi Ruscone (prima parte)
La spedizione al Pizzo dei Tre Signori fu progettata fin dall'anno passato e la si fece un anno dopo e cioè nei giorni 1 e 2 settembre 1880. Di Pizzi dei Tre Signori ve ne saranno almeno una dozzina in Italia, occorre quindi sappiate che quello da noi prescelto è posto al di sopra di Morbegno e fa confine tra la Valtellina, la Valsassina e il bergamasco.
Dovevamo essere in numerosa compagnia ma come di solito, chi senza ragione o meglio chi per un'altra rimase a casa a dormire dei placidi sonni (e forse fu per il meglio) e quattro soli furono i campioni, i prodi alpinisti che gettando da un lato la pigrizia e sfidando i calori che, ben a ragione, possono ancora chiamarsi estivi, si accinsero all'ascesa. Erano Ticozzi Giovanni, promotore della gita, Brini Pietro, Formenti Pietro ed io.
Il 31 agosto, vigilia della partenza, ci trovammo tutti provenienti da diversi punti del globo terracqueo, al Caffè delle Colonne in Lecco a combinare l'itinerario del nostro viaggio etc. etc., a procurarci una carrozza che ci conducesse fino ad Introbio, giudicando inutile far due ore e più di cammino su di uno stradone dove ci può camminare qualunque tanghero ed inoltre già fatto le mille volte.
Terminato il congresso alpinistico ognuno andò pel fatto suo, che credo fosse per tutti il letto.
Avevo dato ordine di svegliarmi la mattina alle 6 e 1/2 ed invece con mia sorpresa svegliandomi vedo che le lancette del mio orologio segnavano già le 7. Che diamine sarà successo pensai tra me e me, e non fu se non dopo aver ben aperto gli occhi e raccapezzato le idee che potei ammettere la possibilità di un cattivo tempo. Apersi infatti le finestre e vidi tutto il cielo coperto di nubi poco promettenti e anzi qualche gocciolina cominciava a cadere.
Ma io, che quando fisso una cosa la voglio ad ogni costo, mi vestii in fretta da alpinista e, mentre scendevo le scale per uscire, sento una carrozza. Era l'amico Brini il quale, coraggioso al pari di me e fisso nelle sue idee, non aveva badato al tempo. Andammo così ambedue forniti di buona volontà in casa Ticozzi e trovammo Giovanni col cugino suo Formenti coi visi rivolti in su e con una cert'aria di scoraggiamento. Appena ci videro ci vennero incontro dicendo: Per oggi bisogna rinunciare, piove certamente.
Ma che - rispondemmo noi - siamo in ballo e bisogna ballare - del resto è domattina che saremo in cima al Pizzo, dunque non c'è da temere domani deve far bello.
Dalle nostre parole eloquenti furono persuasi, si montò in carrozza e in meno di due ore eravamo ad Introbbio. Mentre ci si preparava la colazione andammo a vedere la famosa cascata del Paradiso dei Cani, lontana un quarto d'ora e non più dal paese. Aveva piovuto moltissimo nei giorni addietro, quindi la cascata si presentava nella sua massima bellezza ed anzi era fin troppo bella tanto che già alla distanza di un centinaio di metri alcuni minutissimi spruzzi ci venivano in faccia.. Un previdente raggio di sole aveva in quel momento fatto capolino dalle nuvole per mostrarci nel suo massimo splendore quello stupendo spettacolo di natura. Tutti i colori dell'iride vedevansi in quell'immensa massa di vapore acqueo che ora avanzavasi, aumentandosi spaventevolmente mossa dal vento, ed ora restringevasi avvicinandosi alla bianchissima [....].
Era, sotto ogni rapporto, impossibile il portarsi a pochi metri dal punto dove la cascata batteva in terra formando un piccolo laghetto, essendo sì immensa e fitta la nube di spruzzi d'acqua che non solo non si poteva vedere, e ci si bagnava come gettando tutto il corpo sott'acqua, ma non si poteva nemmeno respirare. Ad onta di tutto questo Brini ed io non potendo resistere a quell'incantevole spettacolo fummo tanto arditi da avvicinarci alla cascata in modo da fare un vero bagno, un vero rigagnolo ci scorreva [....] canaletto formato dalla tesa del cappello blu Effetto stupendo il respirare quell'aria così pregna d'acqua, tutto l'ossigeno entrando nei polmoni metteva in corpo un'energia una [...] dall'allegria indescrivibile. Ciò è eminentemente igienico ed è una cura praticata da chi soffre di petto, con abbastanza buon esito (avverto però che noi non ne avevamo di bisogno). Ma il male si fu che in quella nuova atmosfera non vi potemmo rimanere che pochi minuti altrimenti ne saremmo annegati. È proprio vero che non c'è rosa senza spine.
Allontanati di là dovettimo asciugare ai raggi del compiacente Febo, che proprio in quel momento si era fatto vedere.
E dire che a ben pochi è noto questo paradiso dei cani! Se una simile cascata fosse in Isvizzera certo vi si fabbricherebbe vicino un grande albergo od uno stabilimento idiopatico, tutti i giornali ne parlerebbero e si vedrebbero accorrere forestieri da tutte le parti del mondo. Noi italiani, abituati a vivere nel nostro pezzo di cielo caduto in terra, non vi badiamo nemmeno e neppure ce ne curiamo. Come il bambino parla spesso prima una lingua straniera che la patria, come spesso il Milanese conosce prima il S. Pietro che le guglie del Duomo o la Trasfigurazione di Raffaello prima della Cena di Leonardo, così l'italiano prima di conoscere la bella nostra natura la va a cercare in lontane e straniere regioni. Vergogna!!
Fatto ritorno ad Introbio si mandò per una guida mentre ci si fece preparare la munizione da bocca pei due giorni che dovevamo passare in montagna. Ci venne presentato per guida un simpatico uomo un certo Magni, il quale poveretto, ebbe mozzo un braccio da una mina o da un mortaretto, non ricordo bene, e trovandosi così incapace a molti lavori prese a fare codesto mestiere per guadagnare il pane pe' suoi 4 o 5 figlioli e per la moglie (casomai andaste al Pizzo, ve lo consiglio, perché oltre ad essere pratico, forte e buon camminatore è anche molto onesto. Figuratevi che non ci cercò che 5 lire per giorno).
Ci munimmo dunque di quanto era necessario per un pranzo ed una colazione, fecimo porre nel gerlo solo 4 litri di vino avendo con noi molti liquori e piano piano si cominciò la grande salita. Eravamo tutti allegri, di buon umore, ci si prometteva una bella gita; il tempo solo sembrava mettersi a pioggia ma a questo filosoficamente non si badò pensando che nel mese di settembre quattro gocce non fanno mica male. Dopo una mezz'ora di cammino ci trovammo precisamente al di sopra della cascata del Paradiso dei Cani. Guardando in basso nella vallata che scende spaventosamente a picco vedevasi quell'immane massa d'acqua bianchissima precipitare e battere sulla roccia. Era bellissimo l'effetto, meno tetro e sorprendente che visto dal basso in alto. Se mi permettete una strana similitudine quella cascata vista dall'alto è come il sole che nasce , dal basso come il sole che tramonta: gli effetti sono diversi ma bellissimi ambedue. Non potemmo a meno che rimanere colà, estatici davanti a quello spettacolo per un quarto d'ora, ed anzi vi facemmo sopra un progetto per una gita possibile anche per donne poco alpiniste. Eccolo: venire ad Introbio in carrozza. Per antipasto recarsi al basso per vedere la cascata; poi colazione a Introbio, dove si hanno due buoni alberghi, e dopo per frutta vista delle cascate dall'alto. Finalmente [...] ritorno a Lecco ancora in carrozza.
Mentre si agitavano tali progetti si continuò a camminare per un paio d'ore sempre ascendendo però in mezzo a posti tanto ameni e deliziosi che non era possibile stancarsi.
Intanto il cielo si annuvolò completamente e l'acqua cominciò a cadere con poca gentilezza. Eravamo lontani un'ora da Biandino, dove dovevamo secondo il primo nostro progetto passare la notte, quindi accelerammo il passo per bagnarci il meno possibile, ma fu ben inutile ché giungevamo in Biandino con uno splendido sole. È Biandino un gruppo di casupole o meglio di stalle posto in un ampio prato che gli si apre davanti come un grandissimo anfiteatro. Di essere umane (sic) ve ne sono pochissime, solo le necessarie per condurre al pascolo le molte e numerose mandrie di vacche che vedevamo appunto sparse qua e là per le adiacenti colline.
Ma che facevamo in codesto Biandino?
Non sono nemmeno le cinque, molte ore ci separano dalla cima del Pizzo e noi rimaniamo qui oziosi? [....]tra noi e si concluse di avanzarci quanto più si poteva e se fosse stato possibile giungere fino a Piazzotto a 1 ora e 1/2 sola dalla cima e dove, ci disse la guida, avremmo dormito bene poiché pochi giorni prima vi aveva pernottato una signora col marito e con altri due compagni.
In un'ora e anche meno fummo al così detto Sasso altro gruppo di casupole unicamente pei pastori e fabbricato di fianco e sotto un enorme masso staccatosi e rotolato dall'alto.
Il Sasso era un po' più popolato che non Biandino, le vacche erano tutte in giro e entrati in una baita trovammo 3 pastorelle poco seducenti e alquanto schifose alle quali domandammo del latte e polenta che cordialmente ci concessero e portarono al di fuori preparandoci una piccola tavola su di un bel sassone. La tavola era alquanto grossolana ma l'appetito suplì a tutto e seduti tutti e quattro intorno al masso demmo principio al nostro frugale pasto. [....] in men che non si dica, attirati forse dall'odore di polenta fumante, comparvero davanti a noi una buona quantità di animali selvatici dal buon padre [....].
Ora li nomino tutti statemi attenti:
due grossi cani da pastore, l'uno dei quali il giorno prima, morto di fame s'aveva divorato una pecora. Che razza di bocchino! Portava al collo un collare tutto a pungiglioni che faceva paura al solo vederlo, l'altro sembrava un po' più umano, però ai suoi dì la sua parte l'aveva fatta, s'era ingollato un giovane vitellino.
4 oche della vera razza di quelle che salvarono il Campidoglio; una dozzina di galline; una maialessa con numerosissima prole non molto infante; e un paio di cagnetti di grossezza normale.
Tutta codesta famigliola bisognava mantenerla a nostre spese, e se non si dava loro da mangiare la era una zampa sui ginocchi od un muso poco aggradevole che lambiva le mani; le galline poi, più audaci, volavano sulla tavola beccandosi senza tanti complimenti le nostre magre vivande. In causa di questa compagnia poco cara e difficile da scacciare accelerammo la nostra refezione, ed appena terminato proseguimmo coraggiosamente per Piazzotto, stimando che quando si fosse colà giunti saremmo stati ben contenti avendo un buon paio di ore in meno per giungere alla cima.
Che luoghi stupendi abbiamo passati! Come la natura da allegra, amena, ridente, ci cangiava in tetra e spaventosa! Il Lago del Sasso, dove giungemmo mentre appena appena incominciava ad imbrunire, è qualche cosa di veramente maestoso per la sua tristezza. S'apre questo laghetto nel fondo della valle ch'è ristretta e chiusa da roccia tutt'allo intorno . Grossi massi fra cui uno enorme, da cui il lago forse prese il nome, vedevansi sparsi qua e là in quell'acqua tranquilla immobile di quello stagno. Più nessun raggio di sole penetrava colaggiù e le rocce col loro cupo riflesso rendevano il lago quasi nero.
Un perfettissimo silenzio regnava tutt'all'intorno. Se le Fate ànno dei laghi, quello ne è certo uno. Se fosse di notte e se splendesse la luna la vista di quel lago non s'avrebbe potuto sopportare , sarebbe stato qualcosa di troppo bello ; fortunatamente di là di notte non passa anima viva o se passa è qualche montanaro o pastore, i quali ad onta della poesia che v'ànno attaccato i poeti rimangono impassibili o quasi davanti a simili portenti della madre natura!
Appena oltrepassato il lago ci vedemmo sorgere maestoso davanti agli occhi una cima di nuda roccia che illuminata dagli ultimi raggi del sole morente sembrava tutta quanta di fuoco. Unanimi gridammo: ecco finalmente la [....] del sospirato Pizzo, domattina saremo lassù. La guida crollando il capo soggiunse: no, no signori miei è ben più alta la cima ed anche prima di vederla ce ne vuole del tempo. Quest'annuncio fu per noi da un lato una stilettata al cuore, o meglio alle gambe che avevano già fatto la loro parte, e dall'altro un piacere pensando che ci dovevamo spingere ancora più alti di quella cima che ci sembrava già altissima. Ad un tratto udimmo un colpo di fucile proveniente dall'alto. È il pastore di Piazzotto - soggiunse il Magni - il quale quando arrivano forestieri tira una fucilata per allegria: eccolo là in cima che sta ritto guardandoci - lo vedono? Per quanto guardassimo non ci fu mai dato di distinguere un uomo, ed anche quando la guida ce lo segnò col dito ci parve una pianta. È strana la facoltà visiva di questi montanari. Spesso distinguono camosci a lontananze tali, che noi a stento distinguiamo col cannocchiale.
Però noi prestammo fede alla guida e infatti dopo una mezz'ora di cammino si vede quella pianta muoversi - era proprio il pastore.
Era già buio e l'aria vespertina tirava frizzante, quando noi giunsimo al tanto sospirato Piazzotto. Il pastore raggiante di gioia alla vista di esseri abbastanza simili a lui ci venne ad incontrare e ci offerse subito l'intiero suo appartamento . Era questi un bel giovanotto sulla ventina, dalla barba incolta, dai lunghi capelli e dall'unghie [....].
Povera Arcadia se l'avesse veduto come ne sarebbe stata delusa! - Viveva colassù da tre mesi solo in compagnia di 60 pecore ed una capra sua fida compagna a tre ore di lontananza dal primo luogo abitato che è appunto il Sasso, ed altri non vede che quei pochi alpinisti che andavano al Pizzo e quel tale che di tanto in tanto gli portava quel po' di farina e di sale per fare la polenta. Sembra impossibile come un uomo possa vivere in quelle condizioni eppure egli diceva di passarsela benone, tolto quando pioveva che allora, come ci diceva, costretto a starsene sempre nel suo appartamento, si annoiava un pochino. Povero diavolo! A quanti pericoli trovavasi esposto, se per caso gli fosse venuto male sarebbe morto mille volte prima di essere soccorso - ma a questo non vi badava nemmeno!
Ci condusse finalmente alla sua abitazione. Dio mio che sorta di topaia! Altro non era che una specie di grotta fabbricata di fianco ad un masso, tutta di sassi e ben [....] e fra loro cementati con (con vostra licenza) letame bovino. Dovevamo inchinarci per entrare e una volta entrati accendere un lume per vedere dove eravamo capitati. In 4 ci [....] appena appena stando in piedi, e vi dovevamo dormire! Il letto era uno solo ben inteso, e che letto! - Un po' di fieno posto sopra due assi, dove stando ben addossati l'uno all'altro vi si poteva sdraiarsi in 3. Faceva un freddo da non dire, figuratevi a 2000 metri! La parte, anche chiusa, aveva certi piccoli forellini da cui non solo vi poteva penetrare l'arietta frizzante, ma ben anco il grosso cane da pastore, il quale di tanto in tanto entrava liberamente a piacimento. C'era una specie di camino ma accenderlo non si poteva a meno di rassegnarsi a morire asfissiati ciò che ci sarebbe punto accomodato. Il pensiero di dover passare tutta una notte in quel buco ci spaventò ma considerando che a quell'altezza di alberghi non se ne trovavano e che quella spelonca era l'unico luogo dove vi si potesse stare un po' riparati , nessuno si disperò, prendemmo la cosa da ragazzi di spirito e si incominciò a ridere.
Ci sedemmo qualcuno sul letto qualcuno sopra una specie di panca formata da un'assicella larga un decimetro e appoggiata alle due estremità sopra due sassi e ci preparammo in qualche modo pel pranzo che si pensò di farlo ben adagino perché avevamo propri bisogno di far passare il tempo. Di commestibili ne avevamo in abbondanza, quindi ci accingemmo con tutta lena e dopo pranzo si tentò perfino di fare un caffè, ché il previdente Formenti avea pensato a portarsi una boccetta di caffè condensato, ma ad onta di tutti i nostri studi si riuscì a far poco di buono. L'acqua per le ragioni dianzi dette non la potemmo di molto scaldare e molto pulviscoli di cenere e di altre materie eterogenee andarono a depositarsi in essa. Pure qualcosa servì anche il caffè, se non altro a farci passare un'ora di tempo.
Il freddo sembrava aumentare di mano in mano ed i nostri pleiade non erano sufficienti per riscaldarci; allora ognuno levò i liquori che s'era portato.
Una vera bottega di liquorista - [....] Rhum, cognac, robur, caffè concentrato con essenza di zucchero, menta acquavite, acqua di tutto cedro e camomilla. Faccio notare che questi ultimi due liquidi erano stati portati dal nostro dottore in erba Piero Brini il quale aveva con sé una specie di farmacia ambulante composta di laudano, arnica glicerina, unguenti di due o tre qualità, bende per ferite etc. etc. ch'era un vero peccato non farsi male.
I liquori ci ristorarono un pochino e ci tennero svegli per qualche mezz'ora, ma ben tosto la stanchezza ci vinse ed avremmo pagato ben caro un'ora di sonno placido; quindi mediante sforzi erculei del nostro ingegno ci ponemmo tutt' e quattro in quel po' di fieno e tentammo di dormire. Si spense il lume ed un profondo silenzio regnò in quella povera capanna perduta sul monte, altro non udivasi che quattro sospiri di quattro infelici giovani.
Antonio Gnecchi Ruscone
- continua -
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